Età della poesia - giovinezza

Le età della poesia: giovinezza

Non sempre i giovani vanno incoraggiati verso la poesia, con le vanità, le velleità e i giovanilismi che in essa si possono riversare. Un buon autore deve mantenere in qualche misura anche un rapporto distruttivo con la propria opera, che non deve acquisire valore subito (l’apprezzamento immediato è indice di effettiva mancanza di originalità, intendendo con questa parola la novità reale, che in quanto tale sfugge alle previsioni editoriali e alle classificazioni critiche, al gusto insomma). La giovinezza deve pertanto muovere l’ispirazione di un autore come un arto amputato, non come una radice solida e profonda. Peraltro, una società letteraria funziona quando evita sia di irretirsi in regime sia di aprirsi a una democrazia decadente: l’ostracismo è un buon modo di “educare alla realtà” i più giovani, perché non crescano viziosi in seno alla letteratura.

La poesia sta infatti alla giovinezza come l’innamoramento sta all’amore. Essere poeti della giovinezza o addirittura, leopardianamente, poeti della giovinezza mancata, è possibile soltanto da adulti (per quanto giovinezza e maturità siano soglie mentali, più che anagrafiche).
Per troppo tempo, sull’esempio di Rimbaud, abbiamo creduto al poeta adolescente. Ma Rimbaud era un’eccezione, la regola è quella indicata da Eliot: bisogna dimostrare di essere poeti oltre i venticinque anni. Ovvero: dopo aver trovato il nostro posto nel mondo, dopo aver superato le disillusioni della maturità. Come a dire: prima, tutti siamo un po’ poeti. Ma si è poeti veramente solo quando non si ha più scelta: un giovane, invece (anche se non lo sa) è ancora protagonista delle sue infinite rinascite.
In ogni caso, ogni volta che si apre il libro di un autore poco più che ventenne, non si può negare l’imbarazzo. Come se uno ritrovasse una propria lettera d’amore di tanti anni fa: leggendola, non saprebbe se ridere, per l’ingenuità di quelle parole, o commuoversi, per la genuinità delle passioni.
Oggi, poi, c’è persino da chiedersi se non sia controproducente ritrovarsi pubblicati così presto: ci si accorgerà in seguito quanto ci si è esposti. I tatuaggi fanno male quando ci ricordano l’amore che doveva essere eterno, e non è stato – ci avvisa anche una canzonetta dalla radio.
Eppure, anche questo imbarazzo è produttivo.

La giovinezza è salvata quando ne percepiamo (magari senza farne motivo di dolorosa elegia) il distacco, lo scivolamento dal nostro corpo come una pelle troppo fragile e sensibile all’arsura. L’uscita dalla giovinezza ci permette di riconoscere (reconnaître, quasi un rinascere insieme) la giovinezza del mondo e di restituire così, con soffuso lirismo, la bellezza degli elementi (il mare, la terra), la freschezza di una prima visione delle creature. La parola-corpo del poeta penetra il mondo con desiderio, fa l’amore con le cose, si annulla nel loro primigenio splendore, non si isola in una pretesa autosufficienza letteraria. Il corpo della parola potrà rifulgere di luce propria giusto nella naturalezza di una congiunzione che trascende la sua forma, la realizza bruciandola, la perfettisce in uno spossessamento euforico, non necessariamente travolgente, talvolta dolcissimo.

Ci sono esperienze che uno scrittore giovane deve filtrare nella sua parola, perché fanno parte del suo orizzonte di vita. Sono gangli centrali, presenti anche laddove non vengono esibiti. Spesso, questi temi privilegiati risultano l’occasione stessa di innesto della sua voce all’interno del coro della tradizione, perché è la consonanza di fondo avvertita verso alcuni “maestri” intorno a questi nuclei a sancire un’affinità elettiva. Certe voci di scrittori agiscono in noi attraverso la condivisione del tono (dell’inclinazione emotiva) con cui ci chiariscono a noi stessi, in ciò che ci sta maggiormente a cuore.

Per uno scrittore il rapporto con l’adolescenza resterà in definitiva ambivalente. Da una parte, è opportuno riesca a salvaguardare la spinta originaria della passione e tenere così desti il desiderio e la paura di trovare, sulla pagina, il proprio volto. L’adolescente inizia a scrivere affrontando il buio, sperimentando potenzialità umane latenti nel suo carattere in formazione. Scrive pregando disperato, tendendosi all’infinito fino allo spasimo, esposto all’orrore sacro delle ombre con cui si confronta. In seguito, invece, se la fortuna e il talento avranno sbocco, dovrà fare i conti con il mestiere che avanza, con un rapporto più confidenziale con la scrittura e con la società dei letterati di cui si sente parte. Per questo, appunto, dovrà vegliare su sé stesso, per non introiettare le ipocrisie di un mondo di cartapesta e resistere ai patteggiamenti con gli infingimenti che invitano a una quiescenza ottusa.
D’altra parte, senza smettere di sentirsi in evoluzione e di confrontarsi con orizzonti vasti, uno scrittore deve entrare nella propria maturità, portando il peso delle scelte che è chiamato a compiere. Deve, in altre parole, rompere la bolla di solipsismo in cui un giovane si trova molte volte a trastullarsi con euforia o con sgomento e sentire i contorni esatti della realtà in cui si muove, in piena consapevolezza. Sopportando senza compiacimenti, magari, la solitudine che deriva dalla sua stessa perseveranza verso la rotta primigenia che non ha tradito.
Uno degli eventi che segna la maturità di una persona è la nascita di un figlio. La paternità e la maternità sono potenti chiodi che costringono al legno del mondo: e le ingenuità beote svaniscono colpo su colpo, lasciando il posto, semmai, alla forza immaginativa di un’infanzia riconquistata.
Quanti scrittori di oggi, adolescenti ancora a quaranta o cinquant’anni, si vergognerebbero delle loro opere, se le pensassero nelle mani dei loro figli? Stare nello sguardo dei bambini, sempre sottoposti al giudizio cristallino e famelico delle loro pupille: è un monito proficuo

 

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