Remo Pagnanelli

Poeti contemporanei: Remo Pagnanelli

A differenza di Beppe Salvia (e si rammenti il confronto con cui si era avviato il discorso), è già possibile leggere tutte Le poesie di Remo Pagnanelli nell’edizione, ancorché discutibile per le scelte di fondo, curata da Daniela Marcheschi, che ha il merito di presentare in modo completo l’opera di un poeta fondamentale (e oggetto di appassionata memoria) per quella linea marchigiana che lui stesso ha contribuito a delineare (si veda per esempio l’antologia Poeti delle Marche curata insieme a Guido Garufi, ma si tengano presente anche diversi suoi interventi teorici, su tutti il saggio Leopardi e la recente poesia marchigiana), linea che ha un robusto tessuto di esperienze letterarie che attraversa più generazioni: si possono fare i nomi, per rendere l’idea, di Volponi, di Scataglini, di Piersanti, di De Signoribus, di D’Elia ecc., fino, volendo proiettarci anche nell’immediato futuro, ai giovanissimi Gezzi e Piergallini.

Il lavoro di questi autori si è espletato e continua in una trama di riviste (oltre a «Verso», congiunta ancora al nome di Pagnanelli, si pensi a «Marka», a «Lengua», a «Hortus»-«Istmi», a «Pelagos») e di sigle editoriali di culto (Transeuropa, Il lavoro editoriale, peQuod, Quodlibet, Stamperia dell’Arancio). Il riferimento a tale contesto non vuole affatto costringere il poeta a quella sorta di periferia (valgono sempre gli accenti leopardiani per segnarne la disposizione originaria) che ha saputo rilanciarsi a partire da questa dimensione di confine; del resto, l’attività poetica e critica di Pagnanelli palesa immediatamente una ricchezza di riferimenti impressionante, quasi un’ansia di inglobamento di tutta la poesia contemporanea nella propria specola visiva. Valga, su ogni prova, la sua dichiarazione di appartenenza al filone più saldo e centrale del secondo Novecento: «la linea che mi ha segnato fin dall’esordio è quella che parte da Montale (quello transcodificante e miscellaneo di Satura, argomentante e altamente pensieroso) e seguita, sotto il filo rosso della poeticità della prosa, giù fino a Sereni, Bertolucci e Giudici», nomi cui aggiungere presto, fra molti altri (Raboni, Porta), quelli preminenti di Fortini e Neri, ultime feconde annessioni, come diremo.

Di raccolta in raccolta, la lirica di Pagnanelli ha sviluppi sensibili, eppure si vorrebbe tentare di coglierne un’immagine d’insieme, sondando il nucleo strutturante della sua produzione, un po’ come egli stesso si proponeva di fare con Franco Fortini, affidandosi anzitutto alla critica simbolica e leggendo sinotticamente i suoi libri, in modo da percepire i principi di quella transcodificazione cui egli medesimo si richiamava.

Il dato timbrico di fondo che permea le poesie di Pagnanelli è il senso costante dello scacco: c’è un trauma occultato che lo ha definito e che la scrittura vorrebbe rielaborare, ovvero sublimare e sciogliere. In quest’ottica, la prossimità d’indole con Sereni è notevole, come lo fu anche per un altro poeta di confine come Benzoni (di Cesenatico, animatore della rivista «Sul porto»), soltanto che se per l’autore di Frontiera la ferita originaria assume presto una connotazione storica (nel senso che trova subito nella prigionia, nell’esclusione dagli eventi, l’incardinamento biografico di un destino), manca per il marchigiano un riscontro così palese. Lo stesso taglio dato alla sua tesi su Sereni è sintomatico di una postura esistenziale tanto consentanea, così come resta altamente emblematico il titolo che egli scelse per la prima silloge data alle stampe: Dopo; titolo polisemico, come ha rilevato tra gli altri Galaverni («ma il libretto», ricorda lo stesso critico, «è anche la storia di un amore che vuole durare, ben oltre le tracce labili lasciate dalla donna amata»).

Ora, dovendo trovare una figura ricorrente da indicare quale matrice primaria dell’immaginario, si indicheranno quelle fantasie intrauterine che ci parlano insistentemente dell’impossibilità di nascere, di diventare attori responsabili dell’antefatto che ci ha generati consegnandoci a un destino non scelto, di infrangere il muro o lo specchio dell’identità, che sono sempre parete di un fantasmagorico ventre dove l’io imbozzolato non può ricongiungersi alla storia e in essa, in qualche modo, dimenticarsi, liberarsi del peso della cultura, della consapevolezza, tanto estrema da diventare paralizzante. Più volte la critica ha indicato la pregnanza di tale tema, che tuttavia non pare essere stato pienamente sondato e posto al centro, come architrave, per ogni svolgimento lirico. Restano fondamentali le parole di Gramigna nella prefazione ad Atelier d’inverno, che evidenziano l’isotopia liquido/liquidità (manifesta transcodifica dell’amniotico), da accompagnare ora con il regesto di Rinaldo Caddeo nel saggio Le acque, i sogni, l’inconscio e gli archetipi nella poesia di Remo Pagnanelli [1], utile per mostrarne la ricorrenza più che sospetta.

La scrittura viene dunque vissuta come scavo archeologico, palese anche negli approfondimenti psicanalitici: la sua meta è l’origine, da intendersi pure non in senso regressivo, ovvero quale viaggio dentro l’ineffabile, il perduto, il niente fondativo, ma nell’ottica di una desiderata seconda nascita. La situazione prediletta è perciò il Mezzosonno elevato a titolo, la condizione sciamanica del dormiveglia, quando nella nostra mente, che riesce in parte a dimenticarsi, trova spazio la veggenza, la «captazione dell’invisibile». È in tali frangenti che psiche e natura sono in simbiosi, nel grembo della scrittura, nell’oltretempo della poesia.

Basterebbe accostarsi anche all’esile, ma non trascurabile, corpus di racconti per trovare ribadito in modo acclarato il tema della nascita impossibile perché tardiva, già segnata dal tragico. Se le Prime scene da manuale esprimono rilkianamente il senso di un destino che si incide nella vita prima ancora della venuta al mondo, anche la discoteca di Viaggio in paradiso funge da grembo per il protagonista che si definisce un «vecchio feto quieto», formula in cui la complessione degli opposti fissa ancora lo scacco dovuto all’eccesso di autocoscienza. «La morte non era la conoscenza, figurarsi la vita o la poesia, il dimenticarsi salvava, ma non era la verità», si afferma nel medesimo racconto.

Il lato rimosso di tale psicodramma è rappresentato dalla sfera del maschile. Così, si può additare un testo probabilmente non centrale eppure strategico, in funzione di accesso segreto al cuore della poesia di Pagnanelli. Si tratta di Pratiche dissolutive:

ho davanti nell’incubo solito
un uomo grande dagli attributi femminili,
capezzoli elefantiaci, setole bionde e tagliatissime,
probabilmente bonario e accondiscendente.
Commetto una fantasia funebre dicendogli che vorrei sfotterlo.
Dietro l’ombrello sommerso dalla neve è mio padre.

Qui ci si rammenta che all’iniziazione dell’uomo alla vita, alla sua seconda nascita, presiede sempre la figura paterna («mi preparo per l’imbozzolatura / che sarà stavolta in acque maschili», ripete poco oltre) e viene persino il sospetto che dietro al fervore del critico ci sia l’ansia di trovare, in poesia, un padre, con cui avviare il confronto decisivo. (Forse non è vano ribadire che qui non si tenta della psicanalisi spicciola, ma si vuole soltanto perlustrare con cautela il paesaggio simbolico di un’opera).

Le prove dell’iniziazione sono dunque l’amore e la poesia stessa («Se il verso non è tutto», scriveva nella tesi su Sereni, «è pur anche qualcosa che rinnova la nostra presenza nel mondo: questo è l’unico miracolo che ci si aspetta dall’esistenza»): esse sole introducono alla maturità, alla responsabilità storica. Eppure nemmeno la letteratura, così esiliata nella società contemporanea, riesce a riscattare l’antefatto originario, a essere, con i termini di Heaney, riparazione della vita. Del resto, pur subendone varie suggestioni, Pagnanelli è sempre stato vigile nei confronti delle trappole romantiche e delle derive orfiche, affinché la poesia restasse «sempre comunicazione e martyrion (testimonianza e sacrificio)». Man mano, dunque, che scema la speranza di trovare nella scrittura una soluzione di riscatto, Pagnanelli si sposta verso l’altro modello, Fortini, maestro di una ricerca in cui la poesia diventa non più luogo di rinascita, ma di resistenza all’insensatezza. «Il destino finale di chi scrive anche liriche non è di salvarsi grazie alla poesia, ma bensì di accettarne la sorte contro un proscenio di macerie, su cui cresce il suo fiore polveroso. L’eco leopardiana guida nulladimeno a un carattere della scrittura poetica che, se non è redentivo, rimane in ogni caso intensamente e intrinsecamente volitivo e morale»: è quanto afferma De Santi analizzando appunto L’arduo saggio su Franco Fortini.

Determinante sarà pure «l’incontro con la chiara e ponderata, ‘classica’, scrittura del poeta Giampiero Neri», come ha notato Daniela Marcheschi: da questo incontro ne sortisce una «virata di stile», che imprime pacatezza e limpidità al dettato, certo sempre denso e conchiuso, ma non più avviluppato come talvolta in precedenza: è l’evoluzione che Galaverni ha intercettato sotto specie di impronta quasi orientale. In parte, si potrà parlare di un recupero della prima maniera (gli Epigrammi dell’inconsistenza): la parabola circolare di questo poeta diventa così, anche nei suoi aspetti incompiuti, altamente paradigmatica per significare una condizione tipicamente moderna. Se già nel suo principio Pagnanelli aveva saputo leggere drammaticamente i termini del destino, la sua fine ci riconsegna (e valga pure come augurio per tutti) il mistero della nascita: «in my end is my beginnng».

(da Poeti nel limbo)

NOTE

[1] «Kamen’», III, 4, dic. 1993, pp. 57-84.

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