Frasi e incisi di un canto salutare
Dopo la lettura di Per il battesimo dei nostri frammenti, proseguiamo con l’analisi dell’ultima stagione poetica di Mario Luzi.
(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa – è di Paolo del Giudice)
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Il successivo Frasi e incisi di un canto salutare riprende i motivi e i moduli stilistici ravvisati in Per il battesimo dei nostri frammenti. Di primo acchito, anzi, il libro si offre con sembianze più unitarie, fin dall’articolazione meno complessa, che ordina i temi in modo netto, dopo l’ouverture di Auctor, nelle sezioni Genia (23 poesie), Angelica (cinque raggruppamenti rispettivamente di 5, 14, 7, 6 e 4 poesie), Decifrazione di eventi (bipartita in 10 poesie più 15), Il corso dei fiumi (16), Prodigalità (17), Incitamenti (4 più 6 testi) e Nominazione (16), per un totale di 7 sezioni più l’introito (139 poesie). Come si può vedere, i capitoli interni oscillano, relativamente, entro una misura di variabilità limitata. Che il poeta abbia chiuso i conti con la materia e possa insediarsi al centro sapienziale del proprio universo?
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Il testo introduttivo parrebbe smentire tale ipotesi:
Non ancora, non abbastanza,
. non crederlo
mai detto
in pieno e compiutamente
il tuo debito col mondo.
. Aperto –
così t’era
il suo libro
stato gioiosamente offerto,
perché tu ne leggessi il leggibile,
il nero, il bianco,
. il testo, i suoi intervalli
per te e per altri, ancora
più inesperti,
che non osavano farlo.
E il molto appreso
dovevi tu
in parola ricambiarlo.
Questo pareva il tuo compito
e stentavi,
. stentavi a riconoscerlo.
Né sai perché, dove fosse il disaccordo
che ti ha tritato la vita,
tormentato il canto. [1]
Se è ancora sorprendente risentire il poeta in tarda età che riconosce il proprio debito con l’esistente e per di più in un libro da lui stesso concepito come di augurio e di congedo [2], si avverte parimenti la consapevolezza di un ‘compito’ che lo attende, e di un’armonia incipiente, come suggeriscono le sue annotazioni:
Dentro di me, poco a poco, si va ricomponendo un accordo creaturale tra le presenze del mondo, che non sono solo quelle umane, ma tutte le presenze che agiscono nella dinamica dell’universo. È stata necessaria una demolizione del contrasto, delle contraddizioni che si agitavano dentro di me, per riconoscere come presenti nel mondo i principi e le armonie che lo regolano [3].
Tutto ciò pare contraddire la chiusa della poesia sopra citata (dove si parla addirittura di «disaccordo»), ma probabilmente il pensiero che chiude il componimento ha una valenza retrospettiva e concerne, appunto, i precedenti ‘frammenti’ portati a ‘battesimo’; a ogni modo l’elemento agonico, come abbiamo precedentemente osservato, non comporta più una frattura della naturalezza, ne diviene anzi ingrediente coessenziale: fin dalle prime opere, del resto, Luzi vantava tra gli ermetici «l’originalità di non procedere sub specie mystica (non conosce infatti il silenzio che altri fanno sulle cose per attendere l’illuminazione […])» [4]. Il canto resta tale nonostante il tormento che lo anima; le ‘frasi’ e gli ‘incisi’ marcano, con la loro implicita valenza musicale, un’evoluzione rispetto ai precedenti lacerti, fin quasi a imporne una lettura sottilmente divergente: non i rerum vulgarium fragmenta di petrarchesca memoria né i frantumi primonovecenteschi, ma le note ancora in disaccordo di un unico, grandioso poema. Il finale di Per il battesimo dei nostri frammenti è in merito inequivocabile. La tensione celebrativa risulta ormai insopprimibile nei versi di Luzi.
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Il titolo della prima sezione ripete un vocabolo che si era riscontrato in un punto nevralgico di Dal grande codice, in Per il battesimo dei nostri frammenti, e precisamente nella prima apparizione creaturale sotto la specie della Pernice, in posizione centrale, al culmine di formulazione dell’enigma: «chi è lei? / nessuno, è sua madre / e sua figlia simultaneamente / s’interna nella sua genia / s’introduce a fondo nella sapienza / nell’anima essenziale delle pernici…» [5]. Questa nuova sezione, pertanto, intende offrirci una visione dell’umanità in quanto specie della natura, partecipe di un proprio codice che interpreta la comune sostanza universale, come prima accadeva per le creature del cielo e dell’acqua. Si tratta della ripresa e dello sviluppo di quanto esposto in Padri dei padri, con un’accentuata rappresentatività al limite di un’intenzionale sacra rappresentazione (si veda il succedersi dei Magi, dei pastori, della crocifissione [6]).
Dunque la «stella puntata della sua natività» (Atelier di Venturino [7]) non ha cessato di agire e rivendica ancora un’espressione compiuta.
Genia si apre proprio interrogandosi circa la natura del mondo rispetto a quella natività:
Di che era maceria
quel silenzio?
. della storia
dell’uomo –
. perfino
della sua memoria –
oppure del collasso
estremo della materia…?
. E lui
ergo dov’era,
perché non rispondeva
neppure da un barbaglio
della sua passata gloria…? [8]
[…]
La paronomasia “maceria-materia” ripropone la perplessità intorno al silenzio ovvero all’elemento entro cui si esplica l’essenza della natura umana. Altrimenti detto: il poeta si interroga se la materia per mezzo di «Lui» resti silenzio oppure venga in qualche modo redenta dalla sua presenza (il pronome indica, ovviamente, Cristo). Ma la perplessità investe anche l’eventuale permanenza di quel «Lui», con i dubbi circa il suo non essere mai stato o del suo essere morto, che la natura nel suo perenne rigoglio sembra invece negare incontrovertibilmente: «quel no! detto al non essere / da tutte le cellule, era il seme / quello, il fermento».
Che la paronomasia rilevata non sia casuale è confermato dagli snodi in rima -oria che lo contrappuntano (storia : memoria, più sotto anche gloria), e ulteriormente ribadito da successive clausole versuali di quasi rima (vocabolo : parabola). Non siamo in presenza di un testo incondito. Importa tuttavia annotare come sia attivato l’elemento agonico, all’interno della vicenda creaturale (e poetica), nella sua accezione propositiva: il non essere è compreso nell’essere nel momento stesso in cui viene smentito: «quel no! detto al non essere». Il silenzio non è più scacco, ma alveo della parola. Il tormento che trita il canto, si diceva, partecipa della sua stessa natura essenzialmente drammatica, mai ottusamente beata.
Non è un caso che Pace? – non terminato [9] rechi a margine l’indicazione La lite, che è quasi un titolo, tuttavia compreso nella partitura con la medesima dignità di una nota per l’esecuzione di uno spartito. In questa poesia, la volontà di compiere un grandioso affresco fa sì che il dramma del confronto non si condensi come in precedenza in una figura di combattimento. La lite riassume più genericamente e in presa diretta «l’infuocato alterco» nella storia fra la parola e i dialetti multiformi della violenza, ma i rimandi obliqui ad accadimenti individuabili si colgono solo per mezzo delle glosse: non c’è la visibilità dinamica che ci si aspetterebbe. Nemmeno la visione di Cristo nell’ultima parte appare perspicua, se ha potuto trarre in inganno qualche esegeta [10], mentre non si ponevano dubbi sull’identità celata dal pronome conclusivo che supera affermativamente le perplessità affiorate e asserisce perentoriamente: «egli qui \ nel vivo, non mancando, / non disertando la lotta».
Io non parlo mai di Dio come alterità, in fondo Dio siamo anche noi, non può una creazione vivere fuori di ciò che ha creato, fuori del suo atto creativo. A parte questo, io sono molto lavorato dalla crocifissione, dall’incarnazione e perché questa ci è stata data come dolore, come pianto, come sofferenza. Allora, come si fa a dire che Dio non soffre? Si è creata fra terra e cielo, fra creatura e creatore, questa immagine della sofferenza incarnata, della divinità scesa nel sangue, nel dolore, nell’offesa. Mi commuove la Resurrezione, però mi convince più ancora questa croce, questa incarnazione della sofferenza del cosmo che si riassume sinteticamente in un uomo, in un organismo umano, e simbolicamente e anche forse esistenzialmente nell’abbandono, nel dolore. E allora Dio non soffre? Noi non conosciamo i limiti di Dio. Noi diciamo che dovrebbe essere buono, gli conferiamo tutti gli attributi che farebbero comodo a noi, che consolerebbero. Però tutto questo è costruzione intellettuale dell’uomo. Mentre poi la vita mescola probabilmente il divino e l’umano, in modo che tu, solo per la tua insufficienza, devi schematizzare. La vita parla e parla divinamente o parla brutalmente, cioè senza luce, cioè senza divinità, senza intelligenza. Di momento in momento la stessa cosa ti appare diversamente. Allora l’imperfezione dell’uomo vede il mondo non nella prospettiva e nella trasparenza, vede come lo può vedere, per frammenti, per brani, per momenti. E in questo noi ci dibattiamo, ma sentiamo che quello che c’è nel circolo di tutte queste discontinuità è invece continuo. Anche la morte di cui io non parlo mai, proprio per questo. Per cui questa caccia alla identità di Dio a me pare profana, mi sembra un po’ blasfema, dico la verità. [11]
L’acquiescenza morale viene negata anche nella seguente rivisitazione dei Magi, il cui viaggio resta sospeso, giostrato intorno all’enigma «in avanti / o a ritroso?» [12]. Non c’è ‘approdo’ né per loro né per i pastori, feriti anch’essi nella propria condizione dal moto irreversibile innescato dalla «natività», che li costringe a una «altitudine» in cui le greggi non possono resistere, mentre essi vengono soggiogati da una «raggiante oscurità» [13], cioè da una notte mistica, gravida di luce e di promesse: «in questa poesia i magi stessi», ci spiega l’autore, «non sanno se ciò che vanno a cercare è già avvenuto o avverrà o se è avvenuto e avverrà ancora, cioè essi sono nel mistero del tempo e quindi sono latori di un’esigenza, di un principio, ma nello stesso tempo perduti nel mistero del tempo, dell’umanità, dell’essere» [14].
Il «libro» cui si faceva riferimento in Auctor non è solo il mondo, ma si precisa sempre più come il Vangelo, cui fa in principio allusione anche La vita cerca la vita [15]. La splendida formula dell’incipit non suona di conio completamente originale in Luzi: senza annotare le infinite occorrenze della semplice parola chiave ‘vita’, si ricordino locuzioni del tipo «la vita segue la vita» [16] o «vita fedele alla vita» [17] e, soprattutto, il recente «la vita si cerca dentro di sé» [18]. Al di là di ciò, la lirica concresce su ritmi assodati e parallelismi un po’ rigidi, centrati su argomenti esplorati abbondantemente, senza dimenticare che anche qui la presa referenziale del testo è generica. L’autore pare quasi rendersi conto di ciò:
. Che lingua è questa
. che non parla
. e abbacina e stordisce
. con la sua moltitudine
. irrequieta
. di segnali e di rimandi
e sono pieni, questi,
d’insignificanza, colmi
di mancamento…
. Sola lingua che odono
. in deflagrazioni o sussurri
. o vedono
. nei suoi
. indesiderabili occhieggiamenti
mentre compiono
la tappa quotidiana
di quel loro addentramento
nel mare d’estranianza –
. da chi?
. qualcuno tace
. e non dovrebbe
. in questa lingua che non dice ancora [19].
In certi frangenti, la disposizione sulla pagina si irrigidisce in una meccanica oscillazione, attratta più dall’intrinseca visibilità della costellazione di parole disegnate sulla scena che da una precisa spinta endogena. Si riscontrano inoltre flessioni discorsive, magari appesantite da contenuti poco elaborati: «Non sperano. È il peccato più tremendo» [20], mentre anche l’intreccio fonico tende a divenire stucchevole, come nella conclusiva rima baciata “statura : andatura”, troppo brusca in un contesto di maniere estenuate. Non si tratta di un unicum, ma di una tendenza complessiva. Si veda, per quanto riguarda la rima e per restare in questa sezione, la sequenza: «stupore più ancora che dolore / loro che se la scoprono nel cuore», in un tessuto fonico già fitto di intrecci [21]; oppure la trama delle ormai canoniche uscite in -mente/o di Senza eco, senza esodo oltre [22], che assumono sempre più connotazioni eufoniche pure.
Ritroviamo, in quest’ultimo testo, il coonestarsi della mitologia classica sul tema cristologico: «O Orpheus, o Dionisos, o altri – / “chi dicono che io sia?”», tale da riportare alla memoria formule come «orfismo cristiano» adottate in altra sede e relative a remoti luoghi luziani [23]; formula magari rovesciabile ad hoc in cristianesimo orfico. Entrambe le figure mitiche evocate servono per ribadire la presenza certa, sebbene in varie guise, del Cristo nel mondo. All’Orfeo che si presta a essere pasto per le baccanti a motivo del suo canto, subentra Dioniso «sempre agonizzante» [24], facile metafora eucaristica con allusione al vino-sangue del Messia.
Come resta sospesa la vicenda dei Magi e dei pastori, e di tutta la specie umana nel suo tortuoso viaggio verso la verità, così l’agonia di Cristo si fa «interminato evento»: egli patisce nella crocifissione la pena della carne martoriata e, dopo, «la propria sepoltura», facendosi «materia […] ben dentro la materia», mentre «gli buttavano / palate, sopra, / di mondo, di gravità» [25].
L’effetto plastico dell’immagine risolve poeticamente il movimento raziocinante da cui prende spunto, che invece risulterà predominante nelle pur vivide sequenze «Il dio pensato dagli uomini…» e Non startene nascosto [26].
Afferma Teilhard de Chardin, nel cogliere e rendere stilisticamente sensibile l’appassionato desiderio di unione che da Dio si riverbera nelle cose, che si fa esperienza instante di riconciliazione, immersione laboriosa e purificata nell’Energia creatrice: «poiché la creatura deve lavorare se desidera essere creata sempre più»; e dicono i versi del Dio pensato dagli uomini, in Genia, «Inventa / la creatura, allora, / divinamente il suo creatore». Ed è mediante lo stesso pensiero dilatato, assistito nelle sue insufficienze dal soccorso amoroso che annulla divari e resistenze, che la poesia di Luzi, confondendosi con ciò di cui si dice o si vorrebbe dire, ci immette nel divenire della vita, accordandosi in una sorta di presa diretta musicale, cellularmente fedelissima, alle sue pulsazioni, ai suoi ritmi lentissimi o vorticosi, stagnanti e precipitanti, centripeti e dispersi. [27]
Il tema della continuità delle generazioni e del destino comune che si protrae in essa aveva da tempo trovato pronunciamento in Luzi [28], nel segno del «mesto rituale della vita» che d’altronde immette nell’intera sua opera [29], ma ora tale destino si spoglia del precedente tratto di fatalità per aprirsi anche alla «festa» che accompagna «la servitù», nella metafora dell’acqua che quasi liturgicamente è detta «acqua / da acqua», nel «continuo mutamento» dell’essere [30], che ricorda, allo stesso modo del «vino sanguinoso», che «il divino è in ogni parte, \ non c’è luogo a decifrarlo, / brucia d’amore e di dolore / sposato alla nostra stessa sorte». Per usare espressioni di Marco Guzzi:
È solo attraverso il mistero dell’Incarnazione, per come il cristianesimo lo sperimenta e lo annuncia, che “tutto” diventa santo, il “mondo” diventa il luogo del sacrificio e l’“interezza” dell’uomo diventa santa o sacra. Non c’è più un luogo separato, tutto è convocato in questo nuovo rapporto: la Nuova Alleanza. [31]
C’è da chiedersi se una tale prospettiva, rovesciando la dissacrazione dei tempi in santificazione globale, possa eticamente cedere il passo a una morale tendenzialmente giustificativa[32]. Teniamo presente l’interpretazione immanente che Luzi ci ha offerto del peccato originale (cioè non dislocata in un prima del tempo mitico) e del giudizio assai arduo sull’azione calata nel divenire storico, rispetto al piano dell’«interminato evento»: «Non da colpa \ o da infedeltà – \ da dove / allora \ era quell’indicibile rimorso?»[33]. Eppure, ci pare che sia esattamente questa problematicità di fondo a tener desto l’‘agone’, a responsabilizzare il presente e a sottrarre l’uomo a ogni immobilismo, esponendo l’intenzionale cosmogonia approntata in questa sezione a un pungente anelito profetico:
Cerchiamo a volte di esserlo
fedeli alla consegna,
pari all’ammonimento, svegli
cioè, attenti ai molti inganni,
molto vigilanti.
I segnali sono lucenti e oscuri.
Sono nitide a leggersi
ma indecifrabili le carte.
S’avvede o non s’avvede
l’epoca
. di quel divenire in luce
della sua occulta parte? –
s’interroga qualcuno
più acuto o più solerte:
. e intanto
siamo continuamente altri,
continuamente tramutiamo noi,
i testimoni, noi gli attanti [34].
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Il capitolo che accoglie nuove epifanie del femminino si riassume nella sigla polisemica di Angelica, quasi a ipostatizzare in una figura fantasmatica le diverse valenze attribuite all’«oceano della muliebrità»[35]. Sono immediatamente percepibili, anzitutto, allusioni ancora stilnovistiche alla natura celestiale della donna, ma subito allacciate a un richiamo ariostesco («Spariti i cavalieri, / spariti i paggi»[36]).
Nella prima parte di questa compatta e variegata tranche, sull’archetipo della donna si proietta anzitutto lo stigma autenticante della maternità. Solo in quanto attraversata dalla vita la donna si compie e nel rapporto con la madre sancito anche nell’oltrevita il poeta avverte l’intero universo come grembo. Una femminilità che rifiuta per idolatria di sfigurarsi nella perpetuazione della vita, paradossalmente degenera: è quanto abbiamo appreso con Per il battesimo dei nostri frammenti (ma si potrebbe retrocedere ben oltre nell’opera luziana su questa traccia); mentre è il desiderio fecondo a confrontarsi con successo con la morte, divenendo principio non solo di continuità e metamorfosi (il concepimento) ma di trasmutazione (resurrezione). Ogni forma di separazione, sebbene non si sappia orientata «verso la buia foce» oppure verso «un vivaio luminoso», è improrogabile rinascita: «O alba, alba»[37]. All’emblema della luce, sempre presente, si affianca, in un crescendo di significatività metaforica, quello del seme, inteso implicitamente come sintesi di tutti gli elementi, dall’acqua che lo nutre alla terra che lo accoglie, dall’aria che lo sposta alla luce che lo dischiude:
Sente l’aria,
. l’acqua,
. le loro inquiete masse
che si cercano
. e si scontrano
. in un promiscuo grembo.
Sente questo
. e sente il seme azzurro
dell’anno
. schiudersi dentro il fango,
granire una pupilla,
. limpida
. che inesorabilmente la traversa
[…]
primavera di che frumento. [38]
Qui il seme ha evidentemente una occorrenza metaforica, ma non tarderà a concretizzarsi sempre più in simbolo autonomo [39].
Così è la Pasqua, l’infinita dolcezza apportata dalla consolazione e dalla promessa del Cristo («Non siate tristi» [40]) a far pullulare, nel poeta anziano, le fibre ancora vitali che lo nutrono «nell’azzurro grembo»:
Sono viva e mi raggiunge la vita,
sono donna
. e mi sopravviene,
nuova, la muliebrità
nell’azzurro grembo.
O resurrezione, resurrezione di quel che è – pensa
nel suo pensiero dove la morte manca. [41]
La seconda sezione di Angelica riprende inizialmente in modo programmatico il personaggio letterario, ma per trasfigurarlo presto nelle apparizioni femminili intraviste quasi aneddoticamente nella quotidianità, secondo una simbologia altamente suggestiva da tempo per Luzi [42]. Il ricorso a tratti a un sotterraneo percorso narrativo, sulla scorta dell’Ariosto, l’imperio sempre più evidente dell’azzurro, e alcune intense rivelazioni per il tramite del femminino («pensiero muto che dovunque flagra [..] Felicità? non le sembra. Non è / che un nome estraneo, questo, / a quella purissima sostanza» [43]) preannunciano esiti tipici del successivo Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. L’archetipo femminile è detto esplicitamente «anima del mondo» [44], luogo privilegiato per la trasmutazione della memoria, sganciata dagli orpelli del passato (personale, ma anche mitico, in riferimento al Paradiso perduto sul piano di una esegesi dottrinale): «non è memoria sua, / non brucia, è memoria della specie, / memoria dell’universo» [45], mentre la memoria maschile era sottoposta in Per il battesimo dei nostri frammenti al rogo di una lenta e dolorosa catarsi.
Dalla posizione esterna ed egemonica di questo Dire che espropria sia la parola del Soggetto sia quella dell’Oggetto, sospendendo i significati acquisiti di cui entrambe sono depositarie, ecco allora liberarsi, con la violenza inusitata di un vero e proprio evento nell’universo della verbalità, la “frase” inquisitiva ed erratica, spezzata e incessantemente ripresa, della Parola esteriore, che parla la verità senza dirla, lasciandone intatto il senso profondo e germinativo, non riducibile in termini di significato: Parola di designazione senza rivelazione. [46]
La volontà di canto si assesta su caratterizzazioni timbriche ancor più curate, sebbene camuffate entro strategie e stilemi consueti. Non c’è quasi finale che non sia sanzionato da un giro di rime o assonanze e consonanze ben calibrate. Per la verità, tutto il profilo dei testi inviterebbe a rilevare la trama melodica che orchestra diligentemente, ma è certo che la cura poetica si acuisce con l’approssimarsi delle clausole.
La prima poesia, Non tardò [47], pare echeggiare solo casualmente con il conclusivo «adesso» il congiuntivo di pochi versi prima, «conducesse», seppure rigorosamente all’uscita del verso, ma risalendo ancora la silhouette della poesia troviamo un pronome che aggrava il sospetto: «essi». In Si attenuano, si sfanno l’«esistenza» rima con «obliviscenza» [48], ma siamo al cospetto di forme lessicali predilette dal poeta e, dunque, ancora incapaci di fugare il dubbio di una mera casualità. Non coinvolge la clausola, invece, la coppia “cimento : ardimento” del componimento successivo [49]; e solo dopo vaghe rispondenze foniche di altri testi (non si trascuri tuttavia la catena “luglio : figlia : abbaglio” di Apogeo, declino… [50]) ritroviamo una rima facile, ma evidente, come “vento : evento” [51], subito ribadita nella pagina successiva: “momento : tormento”, dove va rilevata la sistematicità complessiva intorno a forme concomitanti: “punto, appostamento, rimpianto, sufficiente, canto, imperiosamente, presente” [52]. Qualcosa di analogo avviene in Spina. Spina latente, dall’inizio alla fine contrassegnata dalla rima in -ura (dilatata negli affini termini in -uria e -una) [53]; mentre non ingannerà più la semplicità delle rime di Equiparata al nulla, che congegna in pochi versi la catena “opacità : inanità: sa” con quella “presente : sorgente : antecedente” che vi si innesta, senza nemmeno insistere su altri tratti di una sequenza particolarmente fitta di spunti sonori (“inonda” consuona all’interno con “fondono”, ecc.).
La terza parte di Angelica non muta sostanzialmente i motivi da tempo implicati per Luzi nell’archetipo della donna, anche se si indovinano suggestivi ritorni di presenze, in sottofondo, care all’immaginario del poeta. Alla figura letteraria dell’Ariosto, subentra nuovamente la «star» [54], mentre le varie occasioni da cui prendono l’abbrivo i testi si ricollegano ai tipici contrappunti naturali dell’«universale avvenimento» [55]. La stagione di riferimento è sempre la primavera, anzi, il breve spazio temporale che ne precede lo schiudersi: «febbraio nel suo ricordo» [56], «Le viene in mente marzo» [57]. Ricordo, mente: il punto di contatto fra i diversi ambiti del reale è la memoria, ma in modo meno riduttivo si dirà la «mente», appunto, intesa come sapienza genetica, patrimonio comune del creato, e anche per questo analogamente riecheggiata in tutte le forme avverbiali, come fosse pure un codice intimo del linguaggio [58]. Il poeta è in contatto crescente con quella sostanza universale, pura e innominabile, e può consegnarci scene di vita domestica colte nella loro immediata freschezza:
Quando mi parli al telefono
. e mi s’aprono
d’incanto i paradisi
della vocalità –
. gli accordi
e i tocchi d’arpa
. soffici
appena subsquillanti
di quella voce dai precordi sono
tuoi, sì, ma intanto
è il calmo pelago
della muliebrità
. che entra
festosamente ruscellando
nel mattino della stanza
. e mi dilava da me,
. si porta via la mia nascita,
. mi cancella dalla mia morte
lasciandomi sospeso…
. è o non è
chi? me stesso
ed il mio ascolto – le dicono da tempo
i suoi interlocutori
. uomini o angeli. [59]
La donna è viatico al Paradiso: altro tema qui solo metaforico, che troverà successive conferme e compiute rappresentazioni.
Con le ulteriori variazioni della quarta parte, il vortice complessivo dei riferimenti, la nota musicalità, la discontinuità dei luoghi e la costante inafferrabilità dei dettagli allusi distolgono il lettore da tematiche complessivamente esauste.
E del resto la qualità stessa della scrittura luziana quale si è venuta articolando in questi anni e particolarmente in questo libro, rivela una tensione verso il superamento di una troppo acuita identificazione degli oggetti: i dati dell’esperienza, le identità individuali e storicamente circoscritte si dispongono a perdere ogni eccessivamente precisa individuazione, fondendosi in una identità generale che le supera nelle singole specificità e che di esse tuttavia si nutre e si sostanzia. Da qui quel tanto di rarefatto che pervade questo libro, lo sfumarsi degli interlocutori nella pronominazione di terza persona, delle identità oggettuali nella essenzialità dei loro attributi, dell’articolarsi della parola poetica sempre più decisamente intorno ad una disposizione riflessiva che allontana prospetticamente i referenti su cui tuttavia si forma e di cui si sostanzia. [60]
Non è nemmeno un caso che ricompaiano in filigrana strutture poetiche, movenze e contenuti assodati per l’ultima maniera luziana. Si pensi alla poesia Incolmabile il vuoto, irriducibile l’assenza? [61], equipollenti agli svariati refrains d’identica matrice di Per il battesimo dei nostri frammenti, oppure Mare. Mare sempre presente [62], che, nonostante il fascino persistente nel tono, nelle movenze assunte, negli scatti anaforici e nell’alto simbolismo di base riproduce la strutturazione dei testi dedicati a creature aeree e acquatiche della stessa raccolta. Bisognerà attendere l’ultima tranche del capitolo per imbattersi in suggestive reinvenzioni.
Qui, infatti, la cangiante Angelica si disvela riassumendo esplicitamente il volto della madre del poeta e nell’intensità ripristinata del legame affettivo si avvertono rapinose epifanie. Così nel componimento introduttivo, il celestiale banchetto nel quale il poeta immagina sia accolta la donna nel «gaudio dei suoi sensi», offre uno squarcio lirico originale, nel timbro più che nell’immagine: «poi riprese il vento, s’infilò tra i monti / dell’estrema conoscenza» [63]. Ma memorabile è soprattutto il reclamo diretto che l’autore oppone alla sua musa intransigente, ancora per un breve indugio:
O tu che mi hai onnipresente
(in ogni forma pensabile)
a troppe metafore mi chiami,
a troppi emblemi mi sollevi,
lasciami, ti prego,
alla mia creaturale oscurità,
non può essere mio
. come tu pensi
tutto
. il celestiale ed infernale carico
. della significazione che desideri,
. sogno
che mi dica
. dissociandosi da me
mia madre
. e in lei l’eterna donna
della preghiera e del poema
rientrando solitaria
nell’oceano della muliebrità…
Ma solo per un attimo. Poi vince
ancora la pazienza. Ancora la necessità. [64]
Come in ogni suo intervento dall’oltrevita, da Il duro filamento [65] a Passato o futuro?– [66], la madre pretende nel figlio la fedeltà totale al flusso dell’esistente, il rifiuto di qualsiasi indugio nel compianto e nel compiacimento. Lei stessa è ormai parte di quel flusso universale e in questa fedeltà rinnova col figlio il legame trasmutato e trasmutante. A ripristinare, dopo questi brevi e intensi abbandoni lirici, la sorvegliata adesione del poeta alle necessità imposte dall’essere è il conclusivo Detto per Angelica, che si ricollega al primo testo di questa sezione completamente dedicata alla donna, per il fatto di avere un titolo. In posizione di rimarcata importanza, Detto per Angelica rovescia le minacciose figurazioni con il ricordo di «quella passeggiata in paradiso / che per grazia ci fu data / qui e insieme», superata immediatamente dalla constatazione che alla perdita e all’assenza resistono, misteriose, la continuità della vita e la presenza: «Luce / era, di tutto unico seme. Luce / è ancora, e per questo inarrestabile».
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Il viaggio può allora riprendere, negli innumerevoli ‘inseguimenti’ che si intrecciano in un dantesco «gran mar dell’essere» [67], che in Luzi è il «mare umano» [68], il «mare della vita» [69].
Decifrazione di eventi raccoglie svariate epifanie, molto spesso occasionate dagli spostamenti dell’autore. Il suo sguardo non ha confini né potrebbe porseli, a questo punto, e il destino dell’uomo e dell’universo si posa tanto sui lineamenti delle città d’America quanto nel cuore della vecchia Europa, sovraccarica di storia, così come in quelli dell’Italia, in particolare dei paesaggi a Luzi più intimi. Ovunque il poeta scorge i segni del male e dell’agonia, in qualunque linguaggio essi tornino a proclamarsi. Così a Belfast «Corre il sangue, corre / verso le chiaviche / flagellato dagli idranti, / incalzato dalle spazzole» [70]; ma non meno infernale si mostra Praga, la cui manifestazione è addirittura mossa da un turgore (per intensità non dissimile dalle rappresentazioni a sua volta offerte di Siena, seppure in una positiva luminosità) di tinte fosche, su uno slancio descrittivo che si direbbe gotico:
Ricordi Praga? Non la ricordo.
Mi s’apre,
. mi viene a precipizio incontro
lo spazio non so se di caduta
o d’ascesa che mi aspetta,
. così come i suoi angeli.
Mi prende Praga,
. non lascia che la guardi,
mi trascina
. ai suoi inferi,
. mi leva
nella luce
. e nella vanagloria dei suoi ponti,
mi ribalta dal sommo delle cupole [71]
[…]
Il confronto che Luzi offre di sé stesso e della città, assurta ad alter ego e anzi a vero e proprio avversario, è di chiaro conflitto, nel segno di un rapporto mai pacifico, che nel nostro secolo è andato ulteriormente deteriorandosi. Perduto il senso della polis, che faceva da cornice all’intensa attività degli amici rubricati nell’esperienza dell’ermetismo, sebbene la vita cittadina fosse loro negata da un punto di vista politico, e superati i limiti del pagus, della civiltà contadina e dei suoi valori a lungo rappresentati, poi rimessi in discussione nel ‘fuoco della controversia’ che ha definitivamente esposto al ‘magma’ della società, non si è più ridefinito un saldo rapporto fra il poeta e la comunità. Un tempo poteva scrivere: «scendo più che già non sia / profondo in questo tempo, in questo popolo» [72], con la caratteristica Stimmung esistenziale che ne addolorava la solitaria pronuncia; ora il rapporto è stato lacerato dall’emergenza della storia, non individuale ma collettiva, che determina lo sfondo infernale di molti versi presi in esame. Subisce un radicale straniamento anche Firenze, «insolita», «impiccata / allo strapiombo / delle sue muraglie, / rigata dalle lacrime / di luce delle sue alte lampade» [73]. Piuttosto, se un ritorno è ancora possibile (e il tema rappresenta il nucleo dei successivi sviluppi letterari), andrà oltre Firenze, alla riscoperta di Siena e, dopo di essa, della «matria»:
Passata Siena, passato il ponte d’Arbia,
è lei, terra di luce
. che sempre, anche lontano,
inseparabilmente mi accompagna.
– Grazie, matria,
per questi tuoi bruciati
saliscendi, per questi
aspri Celimonti
a cui, calati al fondo,
d’un balzo ci levi alti,
per questo nostro errare nel tuo grembo
sbattuti tra materia
e luce, tra natura e sogno,
sbattuti continuamente
. eppure aguzzi
come freccia verso il bersaglio,
non negarmi mai il mio ritorno,
da dove che sia aprigli il tuo regno,
fosse pure il trascorrere di un’ombra
dal nulla al nulla, fluisca sopra il tuo schermo.
Questo era il mio viaggio
o il viaggio della mia preghiera.
Mio? di lei?
. Era, comunque. Era. [74]
Anche nell’opera di Vittorio Sereni le strade di Creva, Zenna e i vari altri percorsi verso la frontiera assurgono montalianamente a varco metafisico di contatto con una dimensione ulteriore, ma mentre nel poeta di Luino lo slancio è ancora elegiaco, in Luzi il «grembo» si è fatto celestiale, zona di perenne rilancio verso terre luminose, verso nuovi rischi e avventure, nient’affatto consolatorie o moralmente risentite.
Con tutto ciò, le rappresentazioni di Decifrazioni di eventi si attuano nei consueti schemi, attivando i significati noti, seppure a un ulteriore grado di decantazione. Il poeta indugia persino su caratterizzazioni precedentemente esperite, con minime variazioni: così l’Irlanda è di nuovo modellata sui «pascoli, i recinti, / i rari uomini, i campi / di golf e polo, gli sperduti dolmen». Il calco, esatto anche nell’enjambement, è con Vita – «Oh come lo era» – [75]
Già in limine alla sezione il viandante si trovava invischiato nel passato per le tracce dell’olocausto e degli innumerevoli indizi dei misfatti della storia, appena scagionato da tale condizione immobilizzata nel ricordo per l’«infrapensiero» che gli rammemora l’ignoranza sostanziale dell’uomo nei riguardi del «senso del viaggio», poiché «non conosciamo il tempo / se non per divisione / del tempo». Questo è già sufficiente per ricongiungersi alla vita ed esclamare: «O gratias» [76], quando essa inaspettatamente torna a sorprenderci.
Il viaggio si dispiega non solo nello spazio, ma nel tempo, attraversando sempre i segni delle epoche che il «variabile eptacordio» [77] dell’autore (con allusione ai suoi settant’anni) può ancora rendere in poesia. E il futuro ha la stessa legittimità di espressione del passato e del presente, come nell’energica Mi si avventa contro, in cui eliotianamente la «foce» e la «sorgente» coincidono, appena oltre il misero pensiero umano [78]. Anche quest’ultima poesia, come quelle dedicate alle varie visioni di città, si genera sulla matrice figurale della lotta, più volte ravvisato. D’altronde è proprio in questi anni che il lavoro drammaturgico di Luzi prende a svilupparsi autonomamente rispetto al lavoro poetico (il componimento Vorrei anche io stare nella mia pelle [79] va giustamente confrontato con Hystrio, sul suggerimento di Verdino).
– 6 –
La ripartizione della materia del libro prevede ora una sequenza di testi sul consueto e fondamentale motivo naturale. Emblema eletto fra i molti possibili è questa volta il fiume, designato a partire dal titolo generale, Il corso dei fiumi. Tale emblema si presta perfettamente, per l’estrema ricorrenza in Luzi, come sintesi suprema del divenire, dell’eterna metamorfosi dell’umano in seno al «celeste grembo» [80] del creato (e la formula citata sintetizza a sua volta due tratti di notevole frequenza e pregnanza simbolica nell’architettura dell’attuale percorso del poeta). In particolare, in Giocano nubi e monti [81], con l’illuminante inciso tematico «Maternità», si ridisegna il rapporto madre-figlio nell’evocazione di un paesaggio, animato dalla partecipazione di ogni elemento all’avvenimento della vita, secondo una rappresentazione del tutto equivalente a quella del Mai perfetto [82], ma qui nitidamente approfondita e chiarificata con l’attribuzione al fiume dei connotati della figlialità. Partecipano alla fecondazione della natura nubi e monti, finché «le croscia tra le gambe / le tonfa ai piedi / il fiume e si prepara / al suo grande viaggio…// Sta lei sempre diversa, / però sempre se stessa, \ lo spirito continuo / è la separazione / da sé, è la partenza, / nel suo figlio fiume / è lei che s’incammina, / scivola e s’inoltra / lei nel mondo». Per la grandiosità della scena, il crescendo dell’allegoria va oltre il senso di una nuova codificazione del rapporto fra il poeta e la madre disseminata nell’universo: il fiume è il tempo, la storia umana che sgorga dal ventre della natura; e nonostante ciò in quel distacco è sempre lei che s’inoltra nel mondo, che «soffre […] maternalmente». Al contrario «Va lui, fiume, sua inesauribile profferta, / ma sempre adolescente figlio, / per lui risale fino a lei, la cerca / un più oscuro lembo / dell’essere, è il tempo, / quasi non lo conosce, pure osserva / nuvola da nuvola / di uomini il disfarsi / e l’annunciarsi delle epoche / e forse se ne ciba, ne serba / memoria o non ne serba…»:
Si può dire con Luzi che tutto il processo è evento di una MATERNITA’ storico-cosmica. La ‘massa’, la materia, la sostanza trae dal suo stesso seno la vita dell’altro, il quale a sua volta la ex-prime, la porta fuori. Ciò fa sì che il nuovo sia già antico, perché covato nella eterna matrice della Materia-matria della Grande Madre. Qui Luzi oscilla tra il mito della Grande Madre e l’intuizione scientifica dell’unità della massa […], tra l’intuizione ‘greca’ (stoico-neoplatonica) della grande anima del mondo e la speculazione russa sulla Sofia del mondo[83].
Il tema si riverbera negli stessi termini nel componimento che segue, È e non è il tempo [84], mentre in Lacrime [85] il fiume si metaforizza nel pianto che percorre la storia, «dura trasmutazione di una sola universale sostanza / ancora in se medesima, senza causa, senza memoria». Non manca una desublimazione della sua figura, per esempio in Quale fiume e Stentò [86], dove il percorso dell’acqua diviene un correlativo della condizione di degrado, della povertà spirituale del tempo contemporaneo (ricordiamo la eliotiana terra desolata). Ma il poeta e il gabbiano che mantengono memoria del suo antico splendore, risalendo il suo alveo desertificato si sommano al suo destino e anche per questo «la pioggia che verrà» è un presentimento sicuro:
Il fiume o io
o l’alato che s’infila
. basso
sotto l’orizzonte
o nessuno partitamente
ma un senso nostro che tutti ci comprende,
un sapere che tutto sa?
Questo, questo sicuramente.
A questa altezza di riflessione, ogni forma in movimento, sia essa volatile o il fiume o altro elemento naturale, «trascende il suo dilemma» [87] e, compiendosi in «libera obbedienza» [88], si libra nell’obnubilante punto di coincidenza degli opposti. Senza dubbio, il lettore segue questo viaggio con estrema fatica, ma con fulminante gratificazione, quando l’aria estremamente rarefatta che si respira sulle vette sapienziali risveglia «la scienza dell’universo» [89] perduta nei fondali della sua memoria ancestrale:
Quella luce nella luce,
quella musica in fondo alla musica…
[…]
. siamo ora al centro
di un celestiale gomitolo
di luce e vento,
. non oltre
la materia, dentro,
. nel suo
. imo grembo.
. Mutata in altro,
ma è lei mutata in altro
o è il nostro tramutato senso
che tutto unisce e di tutto si compenetra? [90]
– 7 –
Il criterio con cui la vita si rigenera è la sovrabbondanza, persino lo spreco, lo sperpero di infinite potenzialità perché qualcuna attecchisca saldamente e ogni specie sia salvaguardata. Così è per il poeta della naturalezza e per la sua poesia dell’eccesso, istantanea, offerta a gettito continuo. Gli spunti per la scrittura, ora che il sistema ricettivo luziano è sensibilissimo a ogni minima vibrazione dell’essere in tutte le occorrenze del reale, giungono senza sosta anche da luoghi di apparente insignificanza: un incontro fortuito, un’epifania semplicissima in tempo di ozio, un impegno letterario. La vita si riassorbe nella scrittura o, meglio, la scrittura è vita integrale, secondo l’antico dettato “ermetico”.
La poesia si fa scientemente oscura, magari per eccesso di trasparenza e in ciò, al di là delle diverse soluzioni stilistiche, la ricerca luziana ritorna ai motivi originari. Ma si tratta di un ritorno in progresso, arricchito dall’‘onore del vero’ raccolto lungo il fiume-scrittura che percorre il secolo attuale e le sue spesso discordanti stagioni, attingendo alla legge della metamorfosi e della naturalezza, della verità che diviene perennemente sé stessa.
Il lettore è disorientato, non ha appigli nell’aria sempre più tersa che fatica a metabolizzare. È come se fosse invitato a compiere un passo oltre la lettura: a prendere sul serio tutto, a leggere in modo non ottuso. La poesia è uscita dai territori giurisdizionali dell’estetica, si fa avventura conoscitiva e il lettore per seguirla deve compiere in sé il medesimo passo, perché non esiste reale conoscenza dove non vi è trasformazione.
Può bastare un ritorno a figure letterarie determinanti da sempre per Luzi, come quella di Leopardi in occasione del centocinquantenario della morte, per riprendere un esile filo di senso che la ‘prodigalità’ della vita aveva lasciato cadere in pieghe inerti della coscienza. In Uguale, non mutato, vengono sussunti con apparente nonchalance i referti all’esperienza del recanatese: il «romito» manifestarsi della vita, «il passero, la torre, / il borgo, la casa, i suoi balconi», persino «Silvia» e la sua assenza. Il catalogo sembra confezionato appositamente per un depliant turistico, quando improvvisamente si riaccende l’intuizione determinante:
Può essere e non essere stato
questo, come altro
essere ritirato
dall’umana conoscenza,
ma la sua verità no, quella
è ferma, quella indietro non ritorna. [91]
La poesia, dunque, non ha smarrito la propria significanza nonostante l’inascolto dei tempi; la verità che sa cogliere e pronunciare, magari per intensificazione soggettiva, entra a pieno titolo nello sviluppo della storia, plasma l’universale coscienza: la prodigalità della natura tocca anche questi estremi lidi.
Lo stato raggiunto sulla spinta del pensiero di tutto ciò, designa una condizione di solitudine, ma non sofferta, anche se il distacco con i «compagni della giovinezza» assume i toni di una pacata, ma inamovibile accusa: essi sono al «bando», in «esilio […] per tutto il tempo / che brucia \ la lenta consunzione / delle maschere / che portano – e lo sanno». Il distacco non viene percepito come sofferenza perché il poeta è rapito nella sua nuova vicenda spirituale, «se lo trascina / via il risucchio, \ l’avvenimento tutto lo riprende» [92].
Occasioni tanto minute e fragranti ridanno vita a passaggi di una dimessa colloquialità, in cui il linguaggio si fa piano, attinge a registri più bassi, inconsueti nella recente produzione, appoggiandosi a una sintassi più lineare, rappacificata con le ragioni metriche del momento: «Siamo anche stranamente calmi, / ci sentiamo facili, sicuri / infilati in una setosa manica / di tempo già vissuto» [93]; «Genova tiene buone / nel porto le sue navi. / Così la riceviamo in noi, così / la deponiamo ai piedi / della finita vacanza» [94], «il quieto sopraluogo / domenicale, dopo Messa, / al campo, prima del desinare» [95].
– 8 –
La ripresa è tuttavia repentina, fin dal titolo del nuovo capitolo poetico di Frasi e incisi di un canto salutare: Incitamenti. Il nucleo tematico di questa breve ma intensa sezione spicca nella poesia iniziale, glossata infatti con l’indicazione «Église», dedicata peraltro a don Fernando Flori (con cui per anni Luzi stabilì un profondo rapporto di amicizia, tanto da considerarlo il principale interlocutore in materia di fede). La poesia ha un attacco vertiginoso (ma si tratta di un modulo peculiare nella triplice scansione): «Alta, lei. Alta»:
Muore come seme
lei per darci la nascita
ed è qui, è sempre presente,
. si afferra
con zampe
e con artigli
. di aquila e leone
al luogo, all’ubicamento…
… colombi che le escono
e le entrano nei fianchi,
le si adunano in grembo,
le defecano sul manto,
. si spargono per ombra di una nube
. per vampa o per abbaglio
ciascuno alla propria nera buca,
ciascuno alle torri e alle lesene
con quel tardo volitare dei corvi fuori della loro rupe.
. Dei corvi
. o dei cherubini e degli arcangeli… [96]
A tale robusta espressività si giustappone quasi un controcanto, rappresentato dalla poesia Le briciole che noi gettiamo ai passeri, che sposta più direttamente l’attenzione sugli uccelli nel loro rapporto con l’apparente generosità umana che invece si riflette, per la muta presenza di quegli esseri equiparati agli angeli, in «boria e umiliazione / e faville d’iniquità» [97].
Non mancano però versi in cui il moto raziocinante prevale sulla ragione estetica, come nella poesia I poveri quando per boria [98], mentre nella seconda parte della sezione, incentrata sul tema pasquale, spicca per originalità di contrapposizione l’improvviso ricordo di un pomeriggio trascorso dal poeta a stracciare lettere, a saldare improvvisamente i conti con il passato per accettarne la morte, consegnandosi a una sua Pasqua, a un personale secondo battesimo implicato nella visione finale della «conca di luce del mare» che «Fuori […] era accecante». [99]
– 9 –
Dopo aver trattato la vicenda dell’Annuncio salvifico all’interno della vicenda umana (Genia), l’archetipo femminino (Angelica), la personale peregrinazione incontro all’esistente (Decifrazione di eventi), il ‘grande codice’ della natura che genera il tempo nel segno della maternità cosmica (Il corso dei fiumi), l’incessante genesi dell’essere in ogni infimo dettaglio della vita (Prodigalità), la Chiesa e le sue virtù essenziali (Incitamenti), Luzi approda alla Nominazione, superando, per quanto possibile, il grado di consapevolezza toccato in Per il battesimo dei nostri frammenti attraverso la Dizione ivi proclamata.
Che la Nominazione ambisca a essere il vertice del canto salutare ora tentato pare fuori di dubbio. Il titolo richiama la citazione d’apertura della raccolta, citazione che si trasforma in punto segreto di illuminazione della stessa silloge e il cui uso diviene normativo per le ultime opere luziane. Qui si chiama in causa Dionigi Areopagita, da I nomi divini: «Poiché da un solo amore ne abbiamo dedotti molti» [100].
Una frase di sostanza neoplatonica che deduce dall’unicità della relazione amorosa tra Dio e la creazione la molteplicità degli amori e quindi dei rapporti naturali e terreni, della materia e dell’uomo, in proliferante moltitudine. […] Ne consegue una poesia per così dire ontologica, o meglio di interrogazione ontologica, rivolta alla multipla predicazione dell’essere nei diversi stati della materia; il taglio ontologico si congiunge con l’evento, ma ora non si tratta più solo di liberare il flusso dei fenomeni, ma anche di connetterli con un principio, con l’essere. Così vige una sorta di principio neoplatonico che riconduce continuamente il molteplice all’uno, per cui l’avvenimento concreto è sempre ricondotto a un’origine o, viceversa, questa, che possiamo anche definire “spirito”, si dirama nel molteplice, mentre il discorso nella sua tensione sempre interrogativa è orientato verso il Verbo della Rivelazione. [101]
Il primo movimento in cui ci si imbatte: «Ritirano la loro ombra le cose, / si nascondono nella loro luce / i luoghi» [102], riporta alla memoria appunto la Dizione di Per il battesimo dei nostri frammenti: «sopravanzano le cose il loro nome» [103]. Il problema in effetti è il medesimo, ovvero l’accordo tra la parola e la cosa. Qui ora però la parola viene ricondotta al fondamento primo su cui si regge: il Verbo. Il tono esortativo con cui il poeta si autoinvita a mantenersi desto («Non distrarti») nel pieno «ottenebramento» del «mezzogiorno», ovvero nell’acme sapienziale di coincidenza degli opposti, segna un deciso scatto di registro, sanzionato dal ricorso al latino (qui: «Perficiunt»), a passaggi eloquenti, a un lieve declino dell’interrogazione (preferibilmente relegata verso la fine del testo) in favore di una più potente assertività: «Rimani tesa volontà di dire», riprende immediatamente [104]. Nell’«assedio» «di grida e vaniloquio» è necessario un supremo gesto di raccoglimento per «Non cedere umiltà e potenza». La verità, cioè l’accordo fra la Parola e la Cosa, deve infatti sul piano temporale divenire sé stessa incessantemente, reinventando il rapporto che ne definisce l’identità all’interno delle cangianti prospettive umane (con annessa, babelica dispersione della potenza significativa dei linguaggi). Eppure, la verità viene spesso ignorata dagli uomini, «intenti a fabbricarla / con la nostra caducità» [105]. Il desiderio che non dà quiete al poeta è, invece, quello di permettere che «l’anima del mondo / mai non ti tradisse, / né mai offesa da te / da te si ritirasse» [106]. Sebbene l’evento «polverizza \ la metafora» [107], c’è un luogo privilegiato per ristabilire l’accordo: l’attività poetica in quanto creazione.
Cose e nomi, ciascuno nella propria
desolata orfanità
si cercano,
. dove,
. nella mente
che li tenne uniti
. o in quale
altra unicità? [108]
si domanda il poeta per poi rispondersi offrendo un’oggettivazione dell’auctor:
Scrive, lui,
. ripercorre
cioè
l’immemorabile scrittura,
s’immette in quelle tracce
nitide o inselvate,
entra in quella logia,
. filtra in quella grafia,
ne segue gli aculei e le volute,
ripete le sue cifre.
. Scrive
lui scriba
. il già scritto da sempre
eppure mai finito,
mai detto, detto veramente.
. Chi suscita quei semi,
chi anima quel firmamento?
. Opera
la sua propria genitura,
. si risveglia
a se stesso il morto segno.
L’autore? Non sa niente di sé,
l’autore – Mia è la prova, mio il martirio –
pensa lui che scrive
– o è questa la creazione,
. lui che scrive appunto? [109]
Quando l’arte esce dai recinti rassicuranti dell’estetica si avvia irrevocabilmente verso il martirio, dal momento che se la creazione non è infingimento, risulta consustanziale (si parva licet componere magnis) all’atto divino: e una simile affermazione deve essere pagata di persona. Non vi sono dubbi circa il fatto che
l’esperienza poetica contemporanea sia di per sé, integralmente, un’esperienza spirituale: nell’atto del suo essere, come tale cioè, e fin dalla sua origine. L’elemento spirituale non è più un contenuto fra gli altri (poesia religiosa accanto a poesia amorosa o civile), ma la dimensione stessa in cui si muove, si precipita, si inabissa l’atto poetico: fare poesia, da Hölderlin o da Rimbaud in poi, significa fare un’esperienza spirituale. Per questo l’atto poetico si pone al centro della riflessione poetica sull’essenza della poesia: nel nostro secolo sono infiniti i testi poetici sull’atto creativo come tale, proprio perché i poeti avvertono che esso rappresenta il novum assoluto da sondare [110]
Perciò il poeta, per ritornare a Luzi, esce dalla rappresentazione che egli stesso istituiva, brucia anch’egli la metafora per farsi evento: «Mia è la prova».
Dunque riaffiora a tratti, istantaneamente, con potenza e umiltà, la prima persona: «Molto ho avuto io da fare / all’impossibile aggiogamento, molto / Lingua umana / bruciata nel mio libro, / tutta, secolarmente»[111]. Che il gesto di distruzione prima rivolto alle lettere, nella poesia Erano quasi tutti scesi al lido [112], si rivolga velatamente alle sue stesse precedenti opere, bruciate ora da una dominante e nuova luce pasquale?
Circa la natura ossessivamente ripetitiva, nei moduli e nelle tematiche, che rende ardua la sua recente scrittura, il poeta non sembra avere dubbi: «Come vuoi non ripeterti?» Soltanto il divino, infatti, può «non replicarsi» «sotto la specie di fuoco o di sorgente», mentre l’umano è condannato a «mordere la propria polvere / calcare le sue proprie impronte» [113]. E di fronte allo splendore della rivelazione incarnata negli affreschi della Sistina, non resta che esclamare con gaudio e spavento, come nella manifestazione plenaria della luce: «O arte che mi illumini il mondo / e me lo rubi / e mi tantalizzi, / abbi misericordia di me, mi raccomando» [114].
Se «qualche paradiso / di sapienza» è concesso all’umano, ci giunge attraverso il «gemito / della crocifissa incarnazione» [115]e per «glorificarlo» [116] non ci resta che farci carico della nostra vanità, perché ogni ‘ristagno’ della coscienza riprenda a essere scosso dal ‘brivido’ della creazione.
NOTE
[1] OP, p. 711.
[2] Secondo la duplice valenza di «salutare», da “saluto” e da “salus”. Cfr. OP, p. 1684. Anche nella chiusa della poesia La colonna il riconoscimento del proprio «debito» sanzionava il riconoscimento del proprio ruolo: «M’avvio verso il mio posto, / tengo a mente il mio onore ed il mio debito» (OP, p. 301).
[3] Ivi, p. 1684.
[4] G. Rogante, La poesia di Mario Luzi dal canto al frammento, Aa. Vv., Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, a c. di G. Langella e E. Elli, Novara, Interlinea 1997, nuova ed. accresciuta, p. 326.
[5] OP, p. 639.
[6] Rispettivamente alle pp. 720, 722 e 736.
[7] Ivi, p. 499.
[8] Ivi, p. 715.
[9] Ivi, pp. 716-9.
[10] Cfr. Verdino che corregge Cataldi nell’Apparato critico, ivi, p. 1686-7.
[11] M. Luzi, Luzi, Firenze, Marco Nardi 1993, p. 111.
[12] Ivi, pp. 720-1. La potenza di tale rivisitazione risalta anche dal confronto con Epifania, in Onore del vero (p.241-2), in cui il tema si prestava quasi unicamente per effetto decorativo, per scandire un frangente dell’hic et nunc esistenzialmente patito. Ma la duplicità ivi sofferta («Non più tardi di ieri, ancora oggi») in modo angosciato e opprimente, alla luce, appunto, di una vicissitudine sospesa, per ricorrere a formula celebre, è forse in nuce l’attuale dilemma, che se resta altrettanto sospeso è pur mosso nella sua forma interrogativa, che a sua volta incita al movimento e non più alla stasi.
[13] Ivi, p. 722.
[14] Luzi, cit., p. 79.
[15] OP, p. 723-6. Cfr. p. 1688.
[16] Ivi, p. 271 (Colpi, FCA).
[17] Ivi, 361 (La vita cerca la vita, FI).
[18] Ivi, p. 511 (Al giogo della metafora, BNF).
[19] Ivi, p. 725.
[20] Ivi, p. 726.
[21] Ivi, p. 732.
[22] Ivi, p. 735.
[23] Cfr. S. Ramat, “Avvento notturno” di Mario Luzi, «Poesia», VII, 74, giugno 1994, pp. 46-52.
[24] OP, p. 743.
[25] Ivi, pp. 736-7
[26] Ivi, pp. 738-9 e 740.
[27] M. Marchi, Invito alla lettura di Mario Luzi, Milano, Mursia 1998, p. 76.
[28] Ricordiamo almeno la memorabile sequenza della lirica Nell’imminenza dei quarant’anni: «Si sollevano gli anni alle mie spalle / a sciami. Non fu vano, è questa l’opera / che si compie ciascuno e tutti insieme / i vivi i morti, penetrare il mondo / opaco lungo vie chiare e cunicoli / fitti d’incontri effimeri e di perdite / o d’amore in amore o in uno solo / di padre in figlio fino a che sia limpido», OP, p. 237.
[29] Ivi, p. 9.
[30] Ivi, p. 741.
[31] Si cita dal Dibattito posto in appendice ad Aa. Vv., La poesia e il sacro alla fine del secondo millennio, a c. di F. Degasperis e M. Merlin, Cinisello Balsamo, San Paolo 1996, p. 150.
[32] Cfr. in merito anche le considerazioni di G. Zagarrio, La poesia di Luzi: inferno o paradiso? (Per il battesimo dei nostri frammenti), «Il Ponte», 4-5, 1986, pp. 105-119.
[33] OP, p. 747.
[34] Ivi, p. 751.
[35] Ivi, p. 809. Angelica: «nome proprio? o aggettivo al femminile singolare? o sostantivo neutro plurale?» (S. Agosti, Poesia italiana contemporanea. Saggi e interventi, Milano, Bompiani 1995, p. 24).
[36] OP, p. 770.
[37] Ivi, pp. 759-60.
[38] Ivi, pp. 761-2.
[39] È quanto accadrà esplicitamente nell’Intermezzo di SM.
[40] Ivi, p. 764.
[41] Ivi, p. 763.
[42] Il massimo esempio di tale repertorio è rappresentato certamente da Augurio di FCA, ivi, p. 279.
[43] Ivi, p. 774.
[44] Ivi, p. 773. Annotiamo qui altre occorrenze del sintagma (pure in differenti accezioni) nelle poesie: Sua fine, sua resurrezione, FICS, ivi, p. 921; L’essere perduto nell’essere, ivi, p. 932; Durissimo silenzio, SM, ivi, p. 1051.
[45] Ivi, p. 780.
[46] S. Agosti, Poesia italiana contemporanea, cit., p. 23.
[47] OP, p. 769.
[48] Ivi, p. 771.
[49] Ivi, p. 772.
[50] Ivi, p. 776.
[51] Ivi, p. 778.
[52] Ivi, p. 779.
[53] Ivi, p. 780.
[54] Ivi, p. 788.
[55] Ivi, p. 789.
[56] Ibidem.
[57] Ivi, p. 790.
[58] Così Luzi: «L’avverbio è una presenza delle modalità dell’umano; l’avverbio ci sta perché è bello, perché c’è questa parola “mente”, perché rimanda sempre all’uomo e alla sua condizione; forse riscatta dall’astrazione o dalla metafisica il testo. L’avverbio umanizza. Dante è maestro in questo» (A Bellariva, ivi, p. 1277.
[59] Ivi, p. 793.
[60] G. Quiriconi, Frasi e incisi di un canto salutare di Mario Luzi, «Poesia», III, 32, 1990, p. 61.
[61] Ivi, p. 798.
[62] Ivi, p. 800.
[63] Ivi, p. 807.
[64] Ivi, pp. 808-9
[65] FCA, ivi, p. 287-8.
[66] BNF, ivi, pp. 553-4.
[67] Dante, Paradiso, I, 113.
[68] OP, p. 822.
[69] Ivi, p. 823.
[70] Ivi, p. 825. Il riferimento è alla guerriglia tra cattolici e protestanti.
[71] Ivi, p. 827.
[72] A mia madre dalla sua casa, OV, ivi, p. 243.
[73] Ivi, p. 830.
[74] Ivi, p. 834.
[75] Ivi, p. 847 da confrontare con Vita? – «Oh come lo era» –, BNF, ivi, p. 625: «con pochi uomini nei campi / di golf e cricket, pochi dietro le greggi […] dal mare al più lontano menhir».
[76] Ivi, p. 820.
[77] Ivi, p. 839.
[78]Ivi, p. 844. Si ricorderà l’Eliot dei Four Quartets: «In my beginning is my end», successivamente rovesciamento, «In my end is my beginning», East Coker, Opere 1939-1962, a c. di R. Sanesi, Milano, Bompiani 1993, pp. 348 e 362.
[79] Ivi, p. 823. Il primo lavoro teatrale di Luzi, non a caso, accompagnava solitamente il suo lavoro poetico come un’appendice: cfr. l’antologia delle Poesie del 1974.
[80] OP, p. 857.
[81] Ivi, pp. 858-60.
[82] BNF, ivi, pp. 660-1.
[83] G. Mazzanti, Dalla metamorfosi alla “trasmutazione”, cit., p. 54.
[84] OP, p. 861.
[85] Ivi, p. 862.
[86] Ivi, rispettivamente alle pp. 876-7 e 878-9.
[87] Ivi, p. 870.
[88] Ivi, p. 866.
[89] Ivi, p. 873.
[90] Ivi, pp. 880-1.
[91] Ivi, pp. 887-8.
[92] Ivi, p. 896.
[93] Ivi, p. 898.
[94] Ivi, p. 900.
[95] Ivi, p. 903.
[96] Ivi, pp. 909-10.
[97] Ivi, p. 911.
[98] Ivi, pp. 913-4. Ci informa Verdino che la poesia è nata, del resto, «sul margine di un saggio critico di Luzi, L’eterna povertà dell’uomo» (ivi, p. 1733).
[99] Ivi, p. 924.
[100] Ivi, p. 709.
[101] S. Verdino, Introduzione, OP, p. XLV.
[102] Ivi, p. 929.
[103] Ivi, p. 510.
[104] Ivi, p. 930.
[105] Ivi, p. 931.
[106] Ivi, p. 932.
[107] Ivi, p. 934.
[108] Ivi, p. 935.
[109] Ivi, p. 936.
[110] M. Guzzi, La poesia e il sacro alla fine del secondo millennio, cit., p. 33.
[111] OP, p. 937
[112] Ivi, p. 924.
[113] Ivi, p. 938.
[114] Ivi, p. 941.
[115] Ivi, p. 947.
[116] Ivi, p. 946.
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