Simone Martini, Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita, proveniente dal Duomo di Siena, Galleria degli Uffizi di Firenze, 305x265 cm

Luzi: Viaggio terrestre e celeste

Dopo l’analisi di Per il battesimo dei nostri frammenti e di Frasi e incisi di un canto salutare, ecco l’analisi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (nell’immagine, l’Annunciazione, opera del pittore; cliccare sull’immagine per vederla per esteso)

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– 1 – 

Anche il canto salutare si rigenera. Non esistono approdi nell’incessante creazione e la sorpresa, di fronte alla tensione all’oltranza di un poeta all’apice della propria esperienza, diventa presto un’attesa conferma della veridicità dei suoi assunti. Il rilancio della posta è ormai la sua indole, la croce a cui lo condanna la raggiunta, e mai scontata, naturalezza. Non c’è più nemmeno un’intenzionalità rigida in questo, semmai un vigile abbandono, una folgorante apertura al proprio destino.

Si tratta di una disponibilità assoluta, dalla quale molto si ha da apprendere, oltre la lettera.

– 2 – 

Il poeta immagina il ritorno di Simone Martini da Avignone a Siena, mentre storicamente si ritiene sia morto nel 1344 nella Corte pontificia. Lo accompagnano nella fiction del viaggio la moglie Giovanna, il fratello Donato, anch’egli pittore, «e la moglie di lui bella e strana, di nome anch’essa Giovanna e le loro figlie e qualche domestico» [1]; si aggrega anche uno studente di teologia al termine degli studi, cui spetta il ruolo di cronista interno. I vari personaggi si alternano sulla scena con le loro elucubrazioni.

Il motivo del nostos è statuito dall’epigrafe, dalle Confessioni di Agostino: «Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare…» [2], mentre il significato multiplo del tema si adombra nella triplice dedica a Siena (effettivo ritorno ai luoghi dell’origine), all’adolescenza (ritorno alla genesi dell’arte e dell’esperienza affettiva), ai compagni (le amicizie e l’elaborazione culturale del periodo ermetico?).

Come l’indicazione di Dionigi Areopagita in Frasi e incisi di un canto salutare ci riconduceva all’unico amore, al Nome celato ed equivocato dai molti nomi nel linguaggio umano, così Sant’Agostino ci addita il luogo della sintesi, il punto Omega (per usare un’espressione di Teilhard de Chardin) cui tendere: il Verbo. La creazione poetica deve insediarsi nella potenza creatrice divina, la parola che significa non deve presumere alcuna sussistenza, ma tornare alla source: è l’istanza emersa con il ‘battesimo dei frammenti’ della storia, chiarita e magnifica nel ‘canto salutare’, infine esperita nel ritorno che, si ponga attenzione, è ‘terrestre e celeste’ insieme, segna un acquisto in progresso, si muove verso la luce del cielo nel superamento del colore che regna sulla terra. Le scaturigini non si distinguono dalla meta e ciò comporta che il motore dell’esperienza non sia la nostalgia, ma il desiderio [3].

– 3 – 

Balza subito all’occhio il piano narrativo sotteso al libro. Per il battesimo dei nostri frammenti si presentava come volume dal percorso frastagliato sebbene scandito ritmicamente, il cui apice coincideva con l’effettivo centro del volume; Frasi e incisi di un canto salutare ripartisce le tematiche, pur nella complessa orchestrazione, in capitoli non troppo disomogenei; il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini ritrova invece una sua linearità di ascesa, come annuncia il titolo.

La funzione di raccordo tematico, prima svolta dalle sezioni, ora tende a incarnarsi anche nei vari attanti, complicandosi per le rifrazioni interne soggettive del discorso ma implicando un’ipostasi figurale che comporta comunque una minore astrattezza.

La pratica drammaturgica di Luzi trova dunque in questo frangente una particolare contiguità con la poesia. Il personaggio Simone Martini è palesemente alter ego del poeta, ma l’identificazione non può essere ridotta semplicisticamente a un rapporto univoco né biunivoco, se l’autore, come è ovvio, si dissemina anche nei vari personaggi, nell’architettura poematica complessiva, subendo da parte di ciascuno il feedback della ragione romanzesca, della loro fittizia ma creativamente esperita autonomia. Non manca, peraltro, l’intervento diretto del poeta, o più precisamente la riflessione metapoetica intorno alla creazione in atto, come fosse il poema stesso a prendere voce.

Tuttavia, l’esito altamente testimoniale cui era approdata l’esperienza luziana, con il riemergere dell’io oltre la tensione puramente lirica di tale evenienza, trova nella proiezione del personaggio Simone Martini un escamotage semplice e geniale. L’arte, pur bruciando i limiti dell’estetica, non si fa discorso imprendibile, come a tratti nei volumi precedenti, ma attua una continua rifondazione di margini virtuali di sussistenza letteraria: membrane certo trasparenti, osmotiche, estremamente fragili e sensibili, eppure orientate con benevolenza verso il lettore.

La poesia non vuole essere vaniloquio, la parola non vuole ricadere su sé stessa. Ancora una volta, Luzi predilige la profezia alla glossolalia, pur trattenendo istantaneamente il seme indispensabile di quest’ultima nella prima [4].

Quali sono i tratti in comune che permettono la sovrapposizione fra Luzi e Simone Martini? È l’interessato a chiarirceli in parte:

mi sono un po’ identificato in questa figura, anche perché abbiamo le stesse ascendenze senesi. Poi c’è Avignone, il realismo nascente di Giotto. Sono i temi miei, autobiografici. Simone Martini rappresenta la dicibilità del reale, una frontiera che si pensa sempre di avere sfondato e che invece continuamente si presenta. E così anche la conoscenza e la fede, il suo incontro con Petrarca: tutti soccorsi della biografia, ma anche motivi di risipiscenza. [5]

A muovere il pittore verso il ritorno

è un richiamo alla sua origine, a leggere fino in fondo il senso della sua vocazione. Perché sente che c’è un punto che l’arte non ha ancora raggiunto: sente che l’arte ha semplicemente riflesso il mondo, glorificandolo forse, ma non superandone le antinomie e i contrasti. Lui, grande colorista, con il suo cromatismo ha avvivato la grande pittura di Siena, l’ha accesa, e tuttavia sente che il colore, pur così luminoso, è sempre differenza; e invece c’è una luce che unifica tutto, che è quella che lui vorrebbe dipingere, che vorrebbe raggiungere. [6]

– 4 –

I titoli fungono da mere didascalie, ci avverte l’autore [7]. Il loro scopo è quello di inquadrare fuggevolmente la situazione e l’elocutore. A introdurci al viaggio è dunque lo studente di teologia, le cui riflessioni elaborano, per così dire, la parte dottrinaria della fucina luziana. Se l’identificazione Luzi-Martini è già attiva nelle attese del lettore, ci si trova ad apertura del Viaggio come innanzi a una scrittura filmica, che preannuncia l’entrata in scena del protagonista atteso: ma il suo ingresso è ancora rimandato, mentre si determina il contesto, i campi di forza entro cui l’azione prenderà senso. In questo dinamismo tragico Shakespeare era riconosciuto un maestro e non è un caso che l’attività teatrale di Luzi sia stata incentivata, fra l’altro, dalla traduzione del Riccardo II [8].

La prima parola che incontriamo apre nella memoria del lettore un capitolo vastissimo: «Natura». Al poeta, dunque, basta una frase sospesa per riattivare un’enorme mole di significati: «Natura, lei / sempre detta, nominata / dalle origini…». Dal suo alveo discende, come abbiamo visto nella maternità cosmica di Frasi e incisi di un canto salutare, la storia umana, il divenire temporale, il limite dell’esistenza che comporta spesso degrado, nel momento in cui si accende nella coscienza umana la prova della consapevolezza ovvero il dramma della libertà:

Tempo era lei stessa, lo era eternamente.
Storia umana che le nascevi in grembo
e in lei ti consumavi
senza lasciare impronta…
Senza?
eppure – ma questo lo ignoravano,
non erano ancora né sapienti
né consci – entro lei operava
l’universale esperienza.
E ora, tardi, se ne avvedevano in pianti. [9]

Se dunque l’uomo avviandosi verso la sapienza perde la propria umiltà, non potrà che imbattersi nella sofferenza (nel ‘pianto’) mentre – lo vedremo in seguito – il viaggio luziano di ritorno al principio e di rinconquista della naturalezza si conclude sul ‘sorriso’.

Non sorprenderà il fatto che la prima persona che viene presentata dall’estudiant nelle proprie riflessioni non sia Simone, ma Giovanna: tale strategia rientra nell’attesa del protagonista posta in essere, ma soprattutto si accorda bene all’autonomia concessa all’indagine “teologica”, sancita dalla sua ipostatizzazione nello stesso chierico, e il privilegio che in essa si accorda al femminino, al suo ruolo fondamentale nel cosmo. La moglie di Simone assurge, infatti, a emblema del «rigoglio dell’essere. \ O la pena / delle generazioni» [10]. È il femminino materno, la sapienza della specie – secondo le accezioni altrove evidenziate –, che qui scatena lo scardinamento del pensiero incapace di afferrarne la sostanza, costretto al limite della «divisione» logica: la mente è «ancora ottusa, ancora troppo umana» per accogliere il numinoso che si manifesta nella donna.

Il sentimento di tale impotenza gnoseologica riconduce al problema del «Nomen» non nominato e non nominabile, umiliato dal desiderio umano di afferrarlo:

.                                      Lo affligge
su di sé
.              quel fiato
o quella cupidigia
d’una mente
.                       segugia che lo indaga
e non lo riconosce
in sé vivo da sempre. [11]

E lo studente è consapevole che anche per lui tale pensiero è soltanto «il mio / io che si prolunga / con il suo patema, / temo», dove il prolungamento indicato modella anche il significante, con un efficace effetto ecolalico che oltrepassa gli enjambements. La sede del divino (ma il «lui» in Luzi è sempre connotato cristicamente) è imprendibile dalla «mente umana», dal momento che risulta lo stesso fondamento del divenire; «lui» infatti «entra / ed esce dal desiderio / e dalla sua memoria, \ entra / ed esce dal nome \ e forse dall’essenza». Eppure, nonostante questo, percepisce il suo desiderio di essere abbracciato da mente pura, non «segugia»:

Perché non vi guardate tutti in viso
e non riconoscete in voi la vita
dove tutti siamo?
Fatelo – supplica, mi sembra. Fatelo. [12]

L’inafferrabilità del Nome non è, infatti, indice della sua separatezza ma, piuttosto, dell’impossibilità dell’uomo di captarne la presenza con la poco ragionevole presunzione di poterlo fare attraverso la sola ragione, diradando cioè il mistero in ogni sua parte. Lui invece è misteriosamente ben «dentro la lingua avita», come radice di ogni parola che, appena sfiorata, apre all’«altro cielo della spera», ovvero – e il tema si pronuncia finalmente in modo frontale – al «paradiso» [13]. Ma nella condizione di creatura, nella pienezza e nella vanità dei sensi, per arrivare a cogliere questo barlume è necessario accettare di venire inchiodati alla croce della propria identità [14]. Il passaggio cruciale verso il superamento della babelica disgregazione della vita nei suoi molteplici, storpiati linguaggi, non è affatto un generico abbandono della presunzione conoscitiva, ma un inabissamento nel dramma della creazione che comporta il martirio, il riemergere dell’io che si fa carico di ogni responsabilità. Ricorrendo alle espressioni di Teilhard de Chardin diremmo che che non è l’impersonale, ma il personale al massimo grado a convergere verso il Punto Omega:

Come abbiamo riconosciuto e ammesso, l’evoluzione è un’ascesa verso la coscienza. Il fatto non è più contestato, neanche dai più materialisti, o per lo meno dai più agnostici dei filantropi. Essa deve quindi culminare in qualche coscienza suprema. Ma questa coscienza, proprio per essere suprema, non deve forse portare in sé al massimo grado ciò che è la perfezione della nostra, vale a dire il ripiegamento illuminante dell’essere su se stesso? Prolungare verso uno stato diffuso la curva dell’ominizzazione è un errore manifesto! Si può estrapolare il pensiero unicamente verso una iperriflessione, vale a dire una iperpersonalizzazione… [15]

Proprio attraverso il raccoglimento della vita «nel cuore dell’inverno» la primavera potrà ritrovarsi: essa «non ha esilio, / non ha fuga né uscita» [16]. L’uomo che si volta e cerca nella storia le tracce del divino non può che sentirsi disorientato nello scorgere «il malefatto umano» e «si perde nell’enigma / della sua specie» [17]. Il suo destino è proseguire nell’ascesi, andare oltre nel viaggio evolutivo.

Anche nel pensiero dello studente simili considerazioni accendono una grandiosa cosmogonia centrata appunto sull’evoluzione (Mondo in ansia di nascere… Ma stretta [18]). Le potenzialità che premono sotto la crosta dell’esistenza sono infinite, ma soltanto «in epoca di grazia / oppure d’indulgenza / è più soffice lo sbrano» che le porta alla luce. La scala evolutiva dell’essere non è, infatti, rigidamente lineare: si danno tratti tortuosi, improvvisi rallentamenti, persino repentine involuzioni, come insegna il ciclo delle stagioni e il codice comportamentale delle varie creature, oppure il prediletto corso dei fiumi che non sempre fluiscono sublimi, ma raccolgono detriti, formano stagnamenti, possono inaridire.

La «rocca / non altera» della mente può trovare dunque un «varco» montaliano, una «breccia» vivida di attrattive, «per opera non so / di quale preghiera \ o di quale intercessione» [19]. Solitaria è dunque la via del ritorno (del ricongiungimento all’origine, al Paradiso), nonostante la compagnia di coloro che compongono la carovana capeggiata da Simone, il quale finalmente viene introdotto sulla scena in modo assai particolare. Il pittore è visto infatti «fasciato dal suo sonno», mentre «Entra nel suo futuro / lui, dormiente» [20].

Sappiamo dell’importanza da tempo attribuita da Luzi allo stato di abbandono al dormiveglia e alla percezione degli ‘infrapensieri’ che vi trapelano: condizione non lontana dagli stati dilatati di coscienza delle pratiche meditative orientali, se non proprio attigua o propedeutica all’estasi mistica. Ma questi versi ci recano probabilmente una più concreta e plastica prefigurazione della morte: Luzi si vede in Martini entrare nel suo futuro ‘celeste’, pur senza sapere «che c’è oltre il sipario». Tale raffigurazione di Simone dormiente ci ricorda un verso di Sereni: «O dormiente, che cosa è sonno? \ Il sonno…» [21]. Il raffronto ci ripropone la tipica oltranza conoscitiva di Luzi che, laddove si ferma il discorso sereniano, intraprende un nuovo viaggio in «luoghi / non giurisdizionali» [22].

Pur non essendo corsivata, l’ultima poesia di Estudiant pone le considerazioni di una voce fuori campo, rovesciando l’attenzione sullo stesso «chierico vagante», autore delle riflessioni fin qui sommariamente parafrasate. Ci si chiede quale sia il motivo del suo farsi cronista della vicenda. Lo snodo sembrerebbe meramente funzionale alla struttura romanzesca e raccoglie, infatti, persino l’ipotesi aneddotica che egli sia devoto alla moglie del pittore fin dall’infanzia (ma potremmo anche immaginarlo legato alla stessa da un implicito affetto, così da spiegare qualche allusione nella poesia che la riguarda e ancor più prendere alla lettera l’attuale incipit: «Per amore di chi \ scrive / e convive»). Eppure, risentiamo nell’intenzione a lui attribuita di approfittare del viaggio «per avere / in pieno incantesimi dall’arte» le affermazioni di Luzi sull’importanza attribuita dalla teologia e dalla filosofia di questo secolo alla poesia, confermando il livello di lettura allegorico che l’opera ben sopporta anche negli snodi strutturali:

Entra ed esce dal racconto
.                                                stupito
d’esserne, lui, parte
al pari di ogni altro
della schiera, pesona
vera, consorte, simulacro. [23]

– 5 –

La vigilia della morte si traduce nel pittore in una condizione non di ripiegamento, ma di esaltante libertà, seppure in risposta a un «comando» inesplicabile (ricordiamo la «libera obbedienza» del falco [24]):

Calava a picco su di lui il verdetto
o incubava nel sangue, maturava
nel chiuso della mente?
aprire le ali, vele, cuori, mettersi
in movimento. Verso dove? «Dove»
non ce n’era. Luogo non esisteva.
In quel punto di luce e di fusione
veniva meno il tempo
e ogni frontiera
tra perdita ed acquisto,
tra calcolo e dispendio.
Nondimeno: in movimento!
questo era, di chi mai? il comando.

Fra le immagini predilette del movimento inteso come metamorfosi, anzi ormai precisamente come trasmutazione, accanto per esempio a quella del preannunciarsi della primavera che abbiamo già riscontrato in questo libro, è l’attimo di nascita della luce, che si ricollega allo stato della maggiore apertura percettiva tipico del dormiveglia [25]. Ed è questa l’immagine adottata da Fermo nell’anteluce per dare sfogo a un’euforia poetica che si conclude nell’eclatante invocazione: «Oh, salvami» [26].

Equipollente al farsi del giorno è lo snodo temporale fra gli anni e in tale crescendo si conferma la convinzione che muove il pittore incontro al suo compimento:

Varco per cui deve, ombra umana
lui pure, opacità, passare
e passerà, n’è certo,
fino al suo dilavarsi
dalle mura della città,
dalla memoria del mondo
in un diluvio di presenza
prima del sacramento
della luce, della accecante identità. [27]

Viene meno, in questi territori di avventurata visionarietà, anche la figura del duello. Non è naturalmente superato il pungolo del dramma, ma «in quel celeste affronto» [28] davvero la solitudine non può venire elusa.

Siamo oltre l’espressione lirica consueta e lo dimostra anche il fatto che soffia pure un afflato epico nei versi di Luzi, lesto a irrobustirsi o attenuarsi in rispondenza alla gestione “sinfonica” del poema. Così, per esempio, in Via da Avignone [29], si ripresentano sequenze eloquenti, in una situazione che taluni accenti di biblica memoria («quello sgocciolio di tende», «è in piedi la carovana», «i tre giorni di diluvio / stillanti ancora / dai tetti»…) inviterebbero a decifrare allegoricamente, come se nella piccola comunità si adombrasse la Chiesa o, meglio, la sua parte più vitale e profetica, se in effetti l’allontanamento da Avignone denota la libertà spirituale rispetto all’establishment.

Intanto, nel suo viaggio Martini ci offre, accanto alle visioni di paesaggi e città (Genova, meraviglie [30]), i contorni delle figure persistenti nella sua ispirazione, e fra esse non manca quella della moglie, in un’icona che ne rivela ancor più le sembianze celestiali [31]. La donna è al suo stadio più evoluto la madre, e la madre per eccellenza è Maria. Giovanna assorta nei suoi pensieri, spiata in un momento di tregua, è viatico a questa assodata sequenza del sistema simbolico luziano. L’occasione rappresenta in qualche modo l’antefatto che condurrà all’epifania dell’Immacolata Concezione (Dormitio Virginis [32]), se anche le più alte esperienze spirituali hanno bisogno del fondamento dell’esperienza, per quanto occulto possa essere nella biografia di un artista.

Il pittore, tuttavia, pur essendo completamente assorbito dalle sue ragioni, resta consapevole della prova perenne che si cela in tali regioni del pensiero: la tentazione di perdere ancor più rovinosamente l’umiltà che dantescamente garantisce il viaggio risolvendo il dilemma, se cioè l’approdo celi l’inferno o il paradiso. L’intervento della grazia resta indispensabile:

Visione? sì, visione
come altro nominarla?
Ma non è essa dal cuore
né dal sogno, viene
– lo sa profondamente
lui – dal seme
di una remota antiveggenza
di padri, di sapienti. A lui
viene, perché in immagine si acclari,
perché in immagine si stampi
e rifulga il suo lavoro
e lo smaghi e lo catturi
con le sue terre, i suoi azzurri,
i suoi ori. Oh delirio
di sovrumana grazia. [33]

Ed è proprio tale grazia a mancare al mondo autosufficiente della bellezza, che ha il suo logico vessillo nell’opera di Petrarca, qui ricordato nel momento in cui avendo affidato a Simone il compito di raffigurare Laura, ne segue trepidante il lavoro, con «mente segugia», si direbbe [34]. La grazia è necessaria quando l’arte supera il limbo dell’immobilità (il campo dell’estetica). Il transito dal tempo terrestre delle apparenze a quello celeste della verità non cade sotto il dominio dell’uomo e Simone avverte a tratti con ‘sgomento’ che dalla sua anima non si affranca come vorrebbe «il suo passato, non prende / ala la sua liberazione», sebbene tempo ed eternità non siano realmente contrapposti per una coscienza più evoluta [35]. Ce lo ricorda il viso impagabile di una donna [36].

– 6 –

Gli intrecci sentimentali che legano i vari personaggi della carovana di Simone Martini si complicano ulteriormente ed è lecito supporre che non si tratti soltanto di pretesti per divagazioni dottrinarie o liriche. Con il semplice ricorso per la loro giustificazione ai capricci della fantasia, tutte queste libertà inventive rispetto ai dati storici non sarebbero plausibili in un autore così sobrio e interamente rivolto alla sostanza delle cose. Del resto, qualcosa di analogo avviene rispetto al viaggio di ritorno, che se a tratti sembra congegnato sul percorso della via Francigena, come annota Verdino in talune poesie [37], l’autore si concede spesso ampie ed evidenti libertà, che rivelano la preponderanza di Luzi sul suo personaggio: egli infatti non esita a proiettarvi i motivi che via via gli sono stati suggeriti dalle occasioni biografiche al tempo della formazione del libro. La regola allora sarà tanto più valida in rapporto ai personaggi: anche un eventuale loro significato allegorico scaturirà da un precedente solco simbolico aperto nell’immaginario del poeta dall’esperienza personale. Se poi il tema del viaggio è il ritorno alle origini e Luzi reinterpreta in esso la propria storia, è facile supporre che essi abbiamo attinenza con altre figure, già incontrate lungo il suo itinerario poetico. Ma questo chiarimento è sufficiente per cogliere appieno il significato sotterraneo ma determinante di molti passaggi del libro, non equivocandoli come gratuite concessioni al romanzesco. Altri sarà interessato a sondare eventualmente il “vissuto” del poeta per verificare simili, fragilissimi meccanismi: si dubita però che tale affondo sia indispensabile al testo. La ricerca dei dati interpretativi può avventurarsi a volte in zone di non pertinenza rispetto al valore poetico.

La sezione Carovana si coagula anzitutto intorno a questi intrecci. Non vanno certamente dimenticate le poesie che si innestano sulla descrizione dell’avvicendarsi dei paesaggi lungo la via del ritorno (dalla pianura al valico della Cisa verso Lucca [38]), oppure sull’improvvisa contemplazione di una epifania naturale che arricchisce il repertorio luziano di altre figure, come il «piscante» disorientato in «acque impacciate» [39] e le «folaghe», a suo tempo montaliane, che rispondono a un’indiziaria «voce d’ipogeo» che «pronunziò l’accusa» [40]. L’elemento centrale di questa geografia è sempre il fiume nelle sue multiple occorrenze, visto nel suo cromatico gioco determinato dall’avvicendarsi della luce (il fiume percorso in barca che «s’infrasca» e diventa «il nero brodo», che poi si fa «il verde nero, \ il verde» e infine «sbuca più oltre in pieno sole» [41]; oppure quello che diviene «notte di sotto i ponti» [42]), ma riscoperto anche nella sua non lieta mancanza di «fluvialità» [43]. Ma, si diceva, è nel confuso delinearsi dei personaggi e in particolare del rapporto fra Simone Martini, sua moglie e la cognata che si agglutinano i momenti più intensi e si formano i grumi di significato più resistenti.

Un primo momento si circoscrive attorno alla poesia titolata Simone e Giovanna e alle tre successive [44]. La condizione «tra sogno e insonnia / del lungo dormiveglia» è questa volta causa in Simone dell’insorgere di una scena onirica, in cui Giovanna le si approssima evocata dal suo desiderio, «quasi gliela sospinge incontro / dal fondo delle sue verdi navate / una frusciante primavera». Tuttavia

.                                 avanza
a stento e con pazienza
nel folto controvento,
però non lo raggiunge,
.                                         le si oppongono
erbe alte, le appare
insuperabile quel campo –
.                                                 o invece la contrastano
invisibili avversari,
una forza millenaria
la trattiene, di controdesiderio
e disvolere, o altro strano incanto.
Né lui le muove incontro
o le facilita il cammino.
Il cuore resta colmo
della sua mancanza.
Fino a quando? fino a quando?

Dal momento che la Giovanna in questione è la moglie (che riconduce all’archetipo materno, a sua volta simbolo della Vergine e ipostasi della fede) la poesia delineerebbe una sorta di distacco, seppure attenuato dal contesto onirico che confonde tratti stilnovistici e platonici con altri più corposi e sensuali.

Nella successiva Si agita Giovanna, prendiamo conoscenza che la donna è in preda al rimorso della «mancata / maternità», «e procellosa / è la sua traversata verso l’alba. / Su questo non si inganna. Non gli mentono / le sue ore di insonnia / giaciglio presso giaciglio / nella ruvida capanna». Dunque, nonostante la propria alta simbolicità iconografica e gli attributi di saggezza, la moglie di Simone è attraversata da questa incompiutezza, che tuttavia rende ancor più significativo il raffronto con la Vergine (ricordiamo Dormitio Virginis) sul nesso sogno-concepimento.

Si riconnettono a questo dittico di poesie centrate sulla figura di Giovanna anche i due testi successivi, anche se l’attenzione si sposta dal personaggio a considerazioni generate dai pensieri su di lei oppure di lei stessa.

C’è – lo sentono, lo sanno ha per soggetto «i nuovi nati», colti nella beatitudine di una raffigurazione celestiale: «azzurro nembo». Si tratta di esseri imprecisati come le «miriadi» che «si accalcano al principio» già incontrate [45]: api, angeli, bambini allo stesso tempo. La dilatazione cosmica che Luzi produce in ogni oggetto fa deflagrare la sostanza vitale con un’intensità sicuramente eccessiva, che stordisce chi si attende qualcosa a misura delle sue attese o non ha la forza di indagare, abbandonando ogni pregiudizio, ciò che il poeta capta in quell’accecante bagliore che riproduce l’avvenire nella loro vergine apertura all’esistente, «nella loro – per dirla meglio col poeta – lattea mente».

Nel testo successivo è poi chiaramente Giovanna a contemplare il rigenerarsi e il perire delle forme dell’universo, qui concretizzate nell’alternarsi degli equilibri delle stelle, e in quei «Prati, / vigne, voragini» che si intravedono nelle «cave / di tenebra» del cielo notturno lei sembra pensare allo spazio ulteriore in cui la vita si riconsegna:

.                             Sangue il suo
che un poco si raggela,
.                                          un po’ si placa
con l’anima e coi sensi
.                                          a quella aperta agape,
cibo costante la trasformazione
del tutto in unica sostanza,
quale? così celata dal suo nome.

Poco oltre, dopo altre descrizioni paesaggistiche in cui il tema della fecondità continua a riverberarsi (si pensi, in S’aggronda, ma non piovono, all’attesa delle «acquate repentine / della fertilità» che ritardano ad abbattersi su una eliotiana terra di morti che attendono la resurrezione [46]), troviamo invece una coppia di testi che creano un intermezzo nella vicenda, inventando una sosta della carovana in un eremo di monache:

e gli ospiti serrati nelle celle
sottratte alla clausura si smarriscono
in quella vuota arnia della pura
ed infima pazienza [47]

La situazione circoscrive l’epifania della badessa che, ci avvisa Verdino, «è la più recente epifania della protagonista di PFF» [48]. Il dettaglio ci conferma la consistenza reale dei fantasmi poetici luziani; teniamo presente che l’abbesse del componimento in questione è quasi una comparsa sul grandioso set allestito, rispetto alle altre più conclamate presenze. Ecco spiegata la capacità di tratteggiare in poche righe una complessa personalità. A tale donna si attribuisce una «mente libera», una «intelligenza d’angelo» capace di non spaventarsi di fronte all’incedere di «nuove conoscenze», che spalancano «più nere / profondità / di non sapere». Anzi, le si attribuisce persino la consapevolezza della propria volontà esasperata di conoscenza, che sottrae quel grano «d’umiltà / di pace, di misericordia», concludendo: «troppo alta, / troppo difettiva mente…».

Rileggiamo il testo. Dopo l’appellattivo iniziale, e in costruzione anaforica, troviamo pochi versi più sotto: «mente franca». Può sembrare un’impercettibile e insignificante variazione rispetto all’incipit, quasi una perfetta ripetizione del concetto: «Mente libera» = «mente franca». Ma la protagonista del Pensiero fluttuante della felicità, cui rimandava Verdino, è la stessa di Ménage, nella raccolta Nel magma, ovvero Franca Bacchiega [49]. È perciò assai plausibile pensare che l’aggettivo sia a tutti gli effetti un senhal della donna. D’altronde, lo stratagemma non è nuovo in Luzi, se poteva molti anni prima riferirsi alla madre Margherita Papini, da poco scomparsa, con l’invocazione: «Mia madre, mia eterna margherita» [50].

Anche la follia della cognata di Simone Martini è ipotizzata come necessità della vita perché s’infrangano «barriere / all’umana conoscenza» [51]. E con questo siamo nell’altro nucleo di testi che sondano il femminino in una sua contigua accezione. Qui Luzi non vuole che si crei alcun equivoco e si appoggia a un verso introduttivo che potrebbe suonare “poco poetico”, a orecchi ottusamente lirici, e rubato alla scrittura drammaturgica: «Ed ecco che Giovanna, non lei, l’altra, \ la sposa di Donato…». Ma l’attenzione che Simone Martini rivolge alla donna s’intuisce prossima all’affetto, sebbene la malattia psichica concentri ogni interesse poetico. Nel cromatismo del pittore, attratto ormai dalla fenomenologia della luce sopra ogni cosa, la crisi psichica (che, ricordiamo, è una licenza che l’auctor si concede) coincide con un declinarsi della luce nella sua «mente che si oscura» [52].

Ma questi tratti, forse ancora un po’ scontati, cedono subito il passo a una più vivida rappresentazione della donna, per la quale si auspica la clemenza del tempo. I nuovi dettagli, ancora una volta, fanno supporre un referente concreto:

Non passi il tempo, non scivoli
.                                           senz’ira
e senza riluttanza
.                                 sulle sue
nascenti rughe,
non trapassi tranquilla
e inerte nella figlia
dalle lunghe gambe e chiome
seguendo la deriva
e l’impercettibile lancetta
del desiderio del suo uomo.
Non si rassegni, preghiamo.
Ma poi che importa?
è minima la parte
di ciascuno e splendido il poema. [53]

Ma è sempre il cromatismo del pittore a prestarsi come strumento efficace per indagare la malattia, con la discesa di Giovanna «nella sua intatta animalità» [54]. E, tuttavia, l’impotenza dell’artista e il suo attaccamento alla pittura provocano sensi di colpa: «Il geloso accecamento / per l’opera e per l’arte lo avvilisce» perché sa bene che «La povera / donna di Donato ne fa prova / nei nervi, nella carne» [55]. La vita a volte scocca un monito che costringe anche il raffinato artista a fare i conti con la vanità della sua opera, nel duplice significato di caducità e compiacimento della creazione umana.

E Simone Martini fa i conti con ciò fuor di metafora, nel senso che improvvisamente ora è lui ad ammalarsi.

Quest’altro gruppo di composizioni attinenti a tale episodio, che Verdino attesta nel poeta [56], prevede la degenza del pittore, in una situazione straniata che permette l’accoglimento di motivi eccentrici e perciò ancor più sintomatici. Due testi in corsivo tendono anzi a circoscrivere la sequenza e a isolarla. Il primo è un semplice raccordo di quattro versi (tre se si ricompone il primo in una misura endecasillabica), ma attribuisce alla malattia di Simone i caratteri della pazzia prima esplorata nella carne di Giovanna [57].

Il pittore pare confidare ai compagni, nella sua condizione delirante, che anche l’esperienza della malattia è in fondo propizia per l’uomo, se lo aiuta a spogliare in lui il ‘seme’ più autentico. I tracolli «della memoria entro di sé» rivelano infatti le «braci / sepolte, non estinte», mentre percepisce scorrergli sopra (altra prefigurazione della morte) «un fortunoso fiume / verso la foce […], verso l’anima verace» [58].

La più interessante, fittizia circostanza che ivi s’immagina è però segnata nella poesia successiva, Nel bagaglio di Simone:

Il sangue, l’assassinio –
Chi gli aveva affidato quelle carte?
perché sue non erano. Non erano
.                            della sua riserva
le immagini. Non lo erano
le storie.
.               Giovanna n’era certa,
.                                                         non osava,
però, chiederlo… E se,
celata dal suo cifrato dramma,
ci fosse quella notte
biblica, quella emotività,
quella tempesta? Meglio
.              non stringerlo, meglio… [59]

La scena è un ideale correlativo oggettivo dell’analisi psicanalitica di un artista. Giovanna, infatti, rinviene nel bagaglio abbozzi di opere che non attribuirebbe al marito, ignara, lei, dei demoni che si insinuano nell’esplorazione della fantasia poetica, «cifrato dramma».

La raccapricciante immagine in questione è racchiusa nella successiva Oloferne? Il testo registra le ideali incitazioni della mente a sé stessa affinché non venga accolta la donna mendace, «una tenebrosa clitemnestra»:

.                                            tiene a mala pena
celata la mannaia
che si abbatterà sulla tua nuca
schiantando testa e scheletro,
devastando in se stessa
.                                            il tuo sogno passato,
la tua fede, la tua carità.
Non aprire! non aprire!

Ora che hai aperto dissanguati,
agonizza come deve un uomo –
ma è più di quanto
.                                   la sua animalità ricordi. [60]

Anche Simone è ridotto all’«animalità» della cognata, per cui si suppone che sia lei a celarsi nelle vesti della traditrice. Ma il testo permette un’interpretazione allegorica più semplice: il principio vitale ancora non travolto dalla malattia (le «braci […] non estinte») incita l’uomo a non cedere alle lusinghe della morte. Evidentemente, le interpretazioni non si escludono e la situazione potrebbe occultare, ancora una volta, riferimenti biografici.

Ecco ciò che annota Verdino:

La poesia è rivolta a sé stesso, immaginato come ipotetico Oloferne, generale assiro, sedotto e decapitato da Giuditta, eroina biblica dell’omonimo libro deuterocanonico. Il riferimento biblico, comunque, non ha qui valenza religiosa, ma solo figurativa ed emblematica di uno scontro radicale tra uomo e donna. D’altronde la donna è definita anche come «clitemnestra» (v. 16), mitica moglie di Agamennone e sua assassina, al ritorno dell’eroe dalla guerra di Troia. Il «vocafono» (v. 3) è altro nome per “citofono”, segno del contesto anche domestico e modesto che Luzi intende dare al testo [61]

Ciò confermerebbe, appunto, la sotterranea allusività della trama. E ci si potrebbe chiedere, anche, se la lettura più suggestiva del testo (che non è detto sia la più corretta) non sia quella di supporre, nella voce poetante, non l’autoincitamento del malato, ma l’invocazione della moglie a non indulgere al tradimento, qualunque sia il senso a esso attribuito (cedimento alla morte o al desiderio).

È invece certamente maschile la voce che dà corpo ai versi seguenti, lamentando l’effettivo tradimento, preannunciato dalla precedente visione: «Nera croce a cui era / inchiodato per mano di sicario / e di proditoria amante». La dislocazione del soggetto in terza persona denota un moto sottile di rimozione e di pudore, ma la scelta dei vocaboli tradisce un cupo risentimento, che rode con più esplicita virulenza nella trattenuta imprecazione che segue:

La donna del sicario
che qui era di casa
come amata e come figlia
involgarita nell’anima,
profanata nella carne
disarma il desiderio,
devasta fede e sogno.
Ma attento! guardati, ti prego:
essa, buio rottame,
galleggia in una broda
di mezze verità e di menzogne,
t’insidia con calcolato affetto,
conta, oh non a torto, sulla tua
creaturale carità. Guardati, guardati! [62]

Nonostante lo scarto virtuale fra il poeta e i personaggi della sua invenzione, l’affondo di questi versi nel vissuto è certamente lancinante, e in effetti non si indugia a liquidare lo scabroso capitolo con la seconda poesia in corsivo: «Via, chiudere nell’involucro quei fogli» [63]. Più forte della tentazione a compiangersi e a macerarsi è l’impulso al rinnovamento. Sarebbe troppo facile far leva su quella materia di così alto effetto per il prestigio dell’arte. La luce si approssima, dopo il buio.

Il poeta torna, infatti, a cantare l’alba, anzi a suscitarla con le sue appassionate aubades, che compongono la frazione conclusiva di questa intricata sezione.

Tutti i personaggi del racconto sono all’ascolto dei cantori che gareggiano con gli uccelli nell’annuncio del nuovo giorno: «Ma tu dimmi, ti prego, / perché tarda \ tanto l’alba. […] E gli uccelli persi / nell’universo loro, muti, \ fino a quando?» [64]; «Perché nascere ancora? […] non c’è precorrimento / di canto nella smania degli uccelli» [65]; «Alba, quanto fatichi a nascere! […] Ti aspettano come […] i profili montuosi, / le cime \ i precipizi \ del luogo e della mente […] e gli uccelli / che smaniano e non tengono / nella gorga il loro verso» [66].

Il coinvolgente crescendo musicale esplode poi mirabilmente nel passo di «Quel vegliardo che quasi quasi danza» [67], sublime autoritratto del poeta.

– 7 – 

«Deliri, vaneggiamenti, visioni» è l’indicazione che accompagna il titolo della nuova sezione. I quattordici testi ivi inclusi si connotano, infatti, per l’asistematicità degli argomenti, in un procedere rapsodico che restituisce progressivamente la leggerezza e l’incanto che si erano andati un poco eclissando nel corposo e oscuro affondo della memoria (il nostos…) nelle fibre più dolorose delle vicende trasfigurate.

Di primo acchito, anzi, lo sbalzo è veramente notevole, se dopo le epifanie così controverse di svariate sfaccettature dell’archetipo femminile, il «lei» cui fanno riferimento i primi testi è addirittura la donna per antonomasia, la madre di Gesù.

È lei il sole invocato che si leva dopo la lunga notte, non a caso assai presente nella sezione precedente. E non è l’oscurità che si innalza alla sua maestosa rivelazione, ma «è lei che scende quella scala / e penetra ostinata \ quella oscurità tapina, / ne visita le tane / di vizio e di dolore, \ ne deliba / i veleni d’idiozia, \ la nera / quintessenza di perfidia»[68]. Anche per questo assume i tratti, così cari alla poesia luziana, di una opaca quotidianità: «È ilare, / già apre, già ravvia la stanza, / scompagina coperte / e coltre – e sfodera / e sprimaccia \ il guanciale del suo sonno». Osserviamo che ancora una volta il gesto da compiere per entrare nel prossimo paradiso è l’immersione, dantesca, nelle acque della dimenticanza: «spazza / ricordi e sogni […] Vita che ad altra vita / pietosamente umilia / perché il giorno nasca puro / e ignaro di sapienza». L’umanità guidata a questa rinascita è una «strapazzata ciurma» da condurre «Nel principio, nella sorgente»[69].

E la dimenticanza, aggiungeremmo, è sempre figlia del perdono.

Ma «Dov’era lui[70] Dove si celano le tracce di Cristo nella vicenda umana? Siamo ancora immersi in deliri e vaneggiamenti, non in solide conquiste. Ancora la mente distingue ciò che nel cuore dell’universo è unito, a causa dei molti nomi rintuzzati dalla «nostra allarmata insufficienza»[71]. C’è spazio, dunque, per un’ennesima preghiera di Simone perché il tempo non subisca involuzioni e il passato non ritorni coi suoi fardelli a rendere impossibile il movimento, la vita. La ricca tramatura fonica della prima parte, in particolare attorno alla cellula visivamente isolata, rende perfettamente il timbro angosciosamente accorato della richiesta:

Ti prego, non ritornino.
.                                           ORE
di carcere in cui ERO
in compagnia di me
che m’ERO inviso
per nERO disamORE
e tu non ERI e non venivi
in visita o a dimORA
come immagine o come memORia
o in forma di preghiERA –
ORE cieche, ORE nERE
in cui ERA penuRia
d’aRia, più ancORA di colORE
e non c’ERA né ardORE né pittura…

Il fervore di questi passi si stempera poi in visioni effettivamente poco attinenti, come nella catena di testi dedicati a tre città: Venezia, Roma e Macerata, utili a documentare, comunque, il mordente civile che pure contraddistingue il Luzi recente, socialmente più esposto e impegnato[72].

La lenta uscita dalla malattia è contraddistinta, come nei versi conclusivi, da riacuminarsi dei sensi per le presenze che prendono corpo in uno sguardo riconquistato al mondo, mentre riprende il viaggio.

– 8 –

La mattina è segno «del ricominciamento / di sé da sé del mondo» e sancisce la ripresa del viaggio di Martini, nella dichiarata sacralità del quotidiano avvicendamento: «Luce s’illuminò da luce» [73]. Il divenire cosmico, in tutta la sua mirifica semplicità, è l’unico evento decisivo non solo per l’uomo innanzi al suo mistero, ma anche per l’artista che ha raggiunto il culmine della propria evoluzione e perciò reinventa sé stesso insieme alla visione sempre più pura dell’esistente.

La permeabilità del soggetto nei confronti della propria materia provoca «Sgomento» [74] e questo fatto rappresenta, a ben vedere, un’ulteriore garanzia della mancanza di ottusità nell’affidamento del poeta alla natura. Qualora venissero meno la fatica e la paura nel flusso metamorfico della vita, il processo universale sarebbe vano, passivo, non cosciente, mentre come abbiamo visto è esattamente la coscienza l’esito più alto toccato dall’evoluzione. Si tratterebbe, insomma, di una grazia ottenuta senza possibilità effettiva di risposta, a scapito della stessa libertà umana: puro accadimento (l’essere che esiste solo nel momento della sua caduta nel vuoto fenomenico) e non evento rivelativo di un essere eterno che legittima il mutevole.

Si tratta, in definitiva, della dialettica sottesa fra solitudine e solidarietà che ritroviamo nella poesia Le prode verdi…, come rivela l’inciso conclusivo:

Le prode verdi, il flusso d’acqua e luce,
gli alberi trepidanti sulla mia
solitaria sgambatura…
.                                          E voi tutti presenti,
miei cari, tanto da dimenticarvi.
Talora «è questo il paradiso» penso
nella mia traboccante gratitudine –
«o un suo irrefrenabile lampeggiamento.»
(Suo, della sua eternità o del suo attimo) [75]

Il mutuo rispecchiamento di memoria e dimenticanza, di presenza e assenza, di paradiso e illusione, di eternità e istante ribadisce lo statuto dilemmatico della poesia luziana, il quale statuto rappresenta lo sviluppo della sospensione che ne vincolava la precedente vicissitudine congelandola in una indecidibilità angosciante, poeticamente suggestiva ma, da un punto di vista umano, insoddisfacente. La chiarezza esistenziale che bloccava la gnosi nell’atto della contemplazione della verità si è evoluta verso una forma di perplessità e dunque di apertura e di slancio, non semplicisticamente affermativo, ma nella sua dubbiosità reale già propulsivo. Nel momento in cui la domanda sul senso ultimo delle cose non è più, montalianamente e novecentescamente, predeterminata da un vizio retorico e da un a priori razionalistico più che razionale e perciò si affronta veramente l’ipotesi sull’essere, si crea lo spazio necessario per l’evenienza di qualcosa di inatteso e di talmente vero da risultare ai nostri occhi troppo semplice e inafferrabile: «il genere umano / Non può sopportare troppa realtà», ha magnificamente riconosciuto Eliot [76].

Nel ritrarsi tanto di ogni surretizio movimento anticipante della coscienza rispetto all’altro da sé (ridotto così a oggetto) quanto di ogni ottimistico slancio affermativo, procedendo invece per via interrogativa e dilemmatica, si ripristina il dominio dell’inconnu rispetto al pur vasto dominio dei saperi moderni, ma senza ritornare alla condizione romantica di evasione che ha determinato il successivo scacco gnoseologico. Non ci si accontenta più di “fingersi nel pensiero” l’infinito che sta oltre la siepe [77]; non si presume l’invalicabilità assoluta del limite che circoscrive l’esistenza [78]. Non esiste sapere autentico che non si ponga in dialettica con questo spazio ulteriore: lo scientismo è il peccato del secolo, pagato a caro prezzo. Il mistero torna a essere una modalità conoscitiva. Tutto ciò che si preserva da questa rischiosa ma improrogabile contaminazione autodelimina le proprie competenze vincolandosi alla catena dei fatti; chi invece indaga i fenomeni per rintracciarne il senso non relativo, non può basarsi soltanto sui dati estraniandoli dalla loro connaturata tensione all’oltre.

Tale aspirazione intima delle cose risulta impura soprattutto nell’uomo, perché qualora mancasse in lui la presunzione intellettiva rispetto a tutto ciò, resterebbe comunque ineludibile la spinta del desiderio. In effetti, nella radice del desiderio, più ancora che nell’ansia umana di certezze assolute, si riconosce proprio quella tensione all’oltre. Se ne accorge Giovanna mentre riflette sulla natura e sugli uomini, ciascuno «con mire e desideri»:

.                             Dove errano,
dove puntano
i desideri, i loro?
.                                E quegli che laggiù
da sotto quegli embrici la mira…
Gli legge nello sguardo
le sue truci voglie.
Che parte torba,
.                              che misera porzione
del fuoco e della danza
a lui tocca – dice
.                             calmo il viso di Giovanna. E prega. [79]

Nonostante la «misera porzione», anche le «truci voglie» partecipano alla danza della vita. La mancanza di coscienza e quindi di purezza nei desideri non diventa comunque una condanna assoluta degli stessi. Il destino dell’uomo non è di annullarsi in altro, ma di diventare più uomo, di compiere la propria natura progredendo in amore.

Se a vegliare su questo progresso potevano essere in altri tempi (quando tutto il sapere ruotava attorno ai cardini della fede) gli angeli e i profeti, ora il «Durissimo silenzio / tra noi uomini e il cielo» è colmato «da nuvole, da pietre, / da alberi, animali, \ da quel loro / ininterrotto afflato»:

O anima del mondo,
da tutto ferita,
da tutto risarcita,
non piangere, non piangere mai –
.                                                             dice nel sonno
la sua amorosa lungimiranza. [80]

Il sonno luziano non designa più una condizione romantica ed ermetica di sogno e di delirio orfico, ma uno stato di meditazione e ricongiungimento con il ritmo sotterraneo dell’esistenza analogo alle dottrine orientali. La purezza cui attinge la coscienza umana più evoluta è in definitiva umiltà radicale, aderenza totale al desiderio, ovvero capacità di fondarlo non sugli aridi territori delimitati dalla conoscenza scientifica e razionalistica, al di qua dell’infinito, ma su tutto il reale, e dunque anche sull’ignoto. Sapere e non sapere collaborano nel manifestarsi del mistero. Soltanto se viene preservata la radice cosmica e trascendente, il ‘seme’ affondato nel limite della condizione umana si aprirà all’infinito e il desiderio non si piegherà in «truci voglie», ma in «amorosa lungimiranza».

Due emblemi si affacciano nella fantasia del pittore quali testimoni del limen: il Crocifisso e San Sebastiano. In loro, la sofferenza umana si apre a una dimensione superiore, illuminandola. Attraverso questo dittico, ci viene inoltre suggerito il destino sacrificale che conduce la coscienza al suo punto di più evoluto amore.

È in particolare nel secondo componimento che la trasfigurazione del dolore raggiunge esiti sublimi, ricalcando in poesia la magnifica figurazione del San Sebastiano di Antonello da Messina. Alla staticità classica e alla grandiosa armonia del dipinto si contrappone inizialmente la concitazione dei versi luziani, che rendono la tensione drammatica della scena pur allontanandola sotto forma di ricordo, ricorrendo al tempo imperfetto. Ma anche il poeta non teme l’eloquenza: «Lui è al centro / della sofferenza, è posto / ivi, onfalo / lui medesimo del male», di cui ci offre una semplice e monumentale definizione: «Monotono demonio». Il male dunque non può far altro che risaltare il supplizio: «Quasi non ha più strazio / né gloria / il dardo ultimo che lo trapassa». La morte, in questa visione, è un’ultima freccia già sconfitta dalla gloria del sacrificio, ovvero dalla potenza della vita che si offre al colpo mortale privandolo di ogni valore assoluto, anche quando a farsi carico di questo evento è un solo martire che in sé riassume l’intera specie: «il suo supplizio non è suo» [81]. La monotona ripetizione di sé condanna il male all’inferno della insignificanza.

Spetta dunque all’arte l’espressione memorabile ed efficace di tali questioni e l’approssimarsi di Simone Martini a Firenze lo invita inevitabilmente al confronto col genio artistico della città:

[…] In molti lo conoscono,
alcuni tra i Maestri
pregiano la sua arte,
ma lui teme la loro,
evita il paragone,
non desidera il confronto.
Lo soppiantano – si dice –
Avverte il mutamento. Subentrano
più rudi,
più solidi e corposi
e prossimi ai mercanti,
è vero, i nuovi artisti.
Irridono la sua sublimità e quella dei maggiori.
A lui piace e non piace quel vigore
dei corpi, quella forte
passione delle forme.
Non è alto cifrato quello stigma. [82]

Evidentemente, Luzi traspone anche in questo caso in Simone Martini motivi personali. Nella finzione poetica si rivive il fatto che il realismo giottesco è destinato a soppiantare la sublimità araldica della scuola senese di Martini, ma qual è il riferimento implicito alla vicenda del poeta? È possibile forse che qui si riecheggi la diatriba post-bellica fra ermetismo e anti-ermetici, ma i «nuovi artisti» potrebbero anche essere cercati nelle ultime generazioni, le quali animano ora, o tentano di rianimare, la vita culturale di Firenze.

Da notare sarà allora l’atteggiamento ambiguo di Martini-Luzi: se i nuovi artisti sono «prossimi ai mercanti» e cioè indulgono a una contaminazione eccessiva fra arte e mercato, per cui il loro «stigma» non è «alto cifrato» [83], la condanna non è risoluta. Il superamento di Firenze è tuttavia definitivo, come solo avviene in un artista all’apice della vicenda personale e perciò perfettamente aderente alle istanze della propria arte al di là di ogni calcolo sulle convenienze: «Ah Firenze, Firenze. […] / Meglio rimettersi in cammino, / prendere la via di Siena, immantinente».

Da un punto di vista stilistico e strutturale, il passaggio dal “dittico pittorico” precedente a questa nuova sequenza di testi denota un’improvvisa, ma non incomprensibile, sterzata: da un registro di meditazione alto e rarefatto si passa a versi che, pur restando sulle stesse tonalità eloquenti, risultano come scritti in presa diretta per le implicanze poetico-sociali rilevate. Il passaggio sembrerà incongruo solo a chi non avrà ancora risolto l’equivoco di fondo intorno alla naturalezza del poeta, assorbita completamente in una scrittura disinvoltamente attratta da ogni frammento di vita e di pensiero.

Anche Giovanna e Donato partecipano al ‘cruccio’ di Simone. È noto che la bottega medievale di un pittore comprendeva spesso, come appunto nel caso di Martini, dei familiari e, per la stretta collaborazione che in ogni caso si richiedeva per la realizzazione delle opere commissionate, sarebbe corretto parlare di vera e propria impresa d’arte [84].

Eh noi artisti…
siamo soggetti noi artisti a molte umiliazioni,
ci toccano durezze,
arbitri di potenti, ottusità della gente.
Ci viene data con l’arte anche quella pazienza.
L’umiltà del mestiere non ha mai lasciato Ambrogio
o Duccio e nemmeno Cimabue né Giotto. [85]

Avendo delineato così nitidamente il contesto in cui si inserisce il lavoro dell’artista, giungendo alla diretta nominazione dei maggiori protagonisti della pittura fiorentina e senese, la tentazione sarebbe quella di leggere nel rivale, di cui si parla nella successiva, visionaria poesia, un riferimento altrettanto preciso, che tuttavia sfuma in una figurazione altamente simbolica, come negli altri testi luziani in cui si insinua o affronta direttamente l’ombra di un antagonista; testi che in qualche caso, come abbiamo visto, possono essere suggestivamente giustapposti a liriche di Vittorio Sereni. «La sua ombra entra nella mia / […] / entrando noi ciascuno dentro la propria notte / nella sua agonia, nella sua grazia / verso lo stesso termine, l’alba». Il passaggio cruciale fra agonia e grazia, due cardini del pensiero luziano, parificano il destino dell’artista e del suo rivale, tanto da farne quasi un semplice doppio, una elaborazione onirica della coscienza, anche se il distico che chiude la visione non lascia dubbi sulla effettiva consistenza dell’“altro”: «Oh quante vie per una sola meta. / Quanti virgulti per una sola fiamma» [86].

Se la tensione emersa fra Martini-Luzi con la cultura fiorentina invitava a cercare un profilo esatto nell’ombra del rivale qui emersa, il testo seguente svia la ricerca entro un più generico contrasto con la città e il suo genio complessivo. Firenze è colta, anzi, come un corpo in agonia mentre viene trasfigurato dalla luce della «sera estrema di solstizio». Tuttavia, la domanda che apre questa nuova scena sembra quasi voler acuire l’identificazione fra Simone Martini e Luzi: siamo «Nel ricordo o nel presente?», nella Firenze del pittore o in quella del poeta? I versi prospettano (nell’ormai tipico confronto, in Luzi, fra poeta e città) uno scenario di fastosa decadenza, che il poeta attraversa ma non con sdegno, bensì con consapevolezza sia dello «sfacelo» sia della sua intima giustezza [87]. Si tratta di un autoritratto del poeta che si offre senza riserve alle richieste del proprio tempo e dell’ambiente oberato da una tradizione troppo gloriosa per non bearsi di essa, facendosene incantare a scapito della tensione al futuro?

Lui controcorrente
si trascina la sua ombra
verso quella sorgente.
In fronte gli si scheggiano le linee,
gli si disfanno le moli,
gli si frantumano i tetti
sopra una polverizzata gente.
Risale lo sfacelo,
scansa quelle macerie
di una ancora
.                         non cancellata
e non assolta storia,
voglioso di primizia,
avido di semenze.
Non empio, non ingordo,
servo della vita – e basta. [88]

La visione della città, evidentemente memore degli accenti orfici di Campana, si incupisce nella successiva Discese su Firenze una triste sera, dove il giudizio sulla «pena» (qualcosa di sottilmente diverso da ciò che solitamente Luzi implica con il termine di ‘agonia’) si fa più duro e controverso: «si smarrì / nella penombra / di quel non rassegnato dopomorte – / oscuro controcanto / di che gioiosa epoca? o rimorso / per il suo interminabile / rodio di purgatorio» [89].

Con ciò si è già usciti dal campo specifico della riflessione sull’arte nella sua connessione dialettica con le circostanze storiche: ora è il tempo a scoprire il nucleo delle problematiche essenziali. La rarefazione onirica delle immagini e lo sfacelo oggettivamente patito scompone il reale nella sua grammatica basilare della materia: «Pietre, aria, il chiaro rudimento / […] / al purissimo alfabeto / non ancora umano», cui si associa quello relativo alla «moltitudine animale»: «fiato, vento, respiro / della natura…». Entrambi concorrono all’espressione dell’unico cruciale enigma:

.                                                   Ma chi
.          viene che si radica,
s’impianta con tutta la sua forza
e scende al sottosuolo
e penetra la zolla
.                               sanguificando
il pianeta
.                 d’umanità
.                                      e di dolore?
.                                                             Chi è
non lo sappiamo
se non da insanabile rimorso –
così tutti lo siamo,
tutti universalmente
quel corpo disseminato,
profuso, ricomposto
in compagine-unità
dalla sola sofferenza… [90]

Il poeta, «avido di semenze», è alla ricerca indefessa del seme da cui trae origine e senso ogni cosa e anche per questo il suo giudizio non è mai una condanna, ma un modo per ricondurre a sé e patire le contraddizioni dell’epoca, per purificarne la grammatica essenziale nella propria coscienza di uomo che non si dissocia mai dal mondo, non si arroga alcun privilegio e riassume ogni cosa nella «perpetua danza» [91]. L’alba che rappresentava, tanto per il poeta quanto per il rivale, «lo stesso termine», così come colui che viene a radicarsi e sanguinare, facendo del pianeta di dolore un solo corpo disseminato, sono evidentemente prefigurazioni di Cristo. Infatti, nella fantasia del pittore prende corpo l’annunciazione: «S’incendia l’aria, il visibile. / Giovanna nella calura si assopisce. / Oh lui dipingerà: dopo, nel tempo giusto» [92].

Il processo di astrazione simbolica rappresenta la via per raggiungere quella purezza connaturale all’arte di Simone Martini (e di Luzi), tesa a un realismo più assoluto, non grezzo e immediato. L’arte non si confonde con la vita: si deve attendere il tempo giusto per la pittura, ovvero la decantazione e la nitidezza delle immagini. L’arte non si appiattisce sul vissuto ma, ancora secondo il dettame ermetico, si fa vita integrale essa stessa [93]. Eppure, alla base anche della più raffinata visione spirituale resta il germe dell’esperienza, come dimostra il fatto che della scena entra a far parte Giovanna, come un modello implicito. Si può parlare dunque di realismo dantesco anche per questo Luzi “paradisiaco”.

Non è un caso che proprio a Dante si rivolga il pittore senese nella poesia che conclude la sezione, testo che sembra appunto voler chiarire meglio il rapporto che intercorre fra arte e vita: «Di quel flusso di vita / l’opera appena tratteneva il segno». In questo particolare frangente della vicenda, poi, tale rapporto si complica ancor più per il grado di ‘purificazione’ raggiunto durante tutto l’itinerario precedente. L’artista che si confronta con il limite dell’esistenza e in particolare con il limite effettivo dei propri anni percepisce sé stesso come «salma spolpata / da piranha celestiali» e si chiede quando la trasmutazione sarà completa («quando, Dante, / la rivestita carne alleluiando?» [94]). Negli attimi che precedono la vittoria dell’unità sul molteplice, l’interrogazione e l’enigma sono il punto più avanzato raggiungibile dal pensiero e, dunque, tutto ricade nell’umile perplessità della mente umana. «Camminano / egualmente verso il cuore / delle loro ore prossime il nascente / ed il morente» [95]. Come nell’allegoria dell’alba, variamente sviluppata, l’unità è massimamente rappresentabile nella luce, le cui varie epifanie («Squillò, luce / di luglio» [96], «Pareva noi, tutto di noi brucava, \ sole senza riparo» [97], «Ne fissa per un attimo quel vago / sfavillio di firmamento» [98]) divengono le stazioni del faticoso processo di trasmutazione dell’umano («ma persiste il cuore, \ l’umano non si arrende» [99]):

Prima la grazia, poi la forza,
dopo la fioritura, ecco, il rigoglio,
la maturità, la festa –
e già, dentro, il rimorso,
già in crescita l’angustia
che costringe
prima il midollo, poi la scorza.
In breve tempo. Per un nuovo tempo. [100]

– 9 –

Il viaggio umano e la ricerca dell’artista sono ora indivisibili e alla sezione Simone e il suo viaggio segue immediatamente quella intitolata Lui, la sua arte, nel segno di una continuità di fondo e del superamento già consumato di Firenze. «Dove mi porti, mia arte?», si interroga recisamente in apertura, «In che paradiso di salute […] mi scorti?». Il viaggio sfuma progressivamente da tonalità terrestri ad altre più prossime ai «cieli in cui m’inoltro», sperimentando uno spossessamento sempre più totale dell’artista rispetto alle rivelazioni della sua stessa opera: «Oh mia indecifrabile conditio, / mia insostenibile incarnazione!» [101]

Mentre si avanza nel territorio senese, si presentano alla fantasia dell’artista, fervidamente prossima alla source dell’ispirazione, altre immagini, come quella di Guidoriccio da Fogliano, «il più romito» capitano di una Terra ancora lontana, terra arida… [102] L’incedere avventuroso verso la meta coincide dunque con un recupero memoriale che pone l’artista in una condizione di massima solitudine al cospetto dell’origine, il cui correlativo concreto è Siena: «Siamo ancora / io e lei, lei e io / soli, deserti. / Per un più estremo amore? Certo» [103]. Ma sono soprattutto i colori a giocare un ruolo fondamentale: la scomposizione dei fenomeni nella loro quasi lucreziana infrastruttura, che abbatte le distanze fra pensiero, materia e natura, dà vita infatti a policrome epifanie che movimentano una «trasmutazione / in luce, in radiosità», che pure si otterrà solo in forma di premio, se «Avrà / lui grazia sufficiente / a quella spiritualissima alchimia», come si afferma splendidamente in Infrapensieri la notte [104].

La figura che presiede all’incendiarsi progressivo dei colori fino all’«estremo accecamento» non poteva non essere la donna, sia essa la compagna Giovanna («Ma che mai riflettevano quegli occhi / incantati dal meriggio: le nuvole? / migranti desideri? […] il mutare o il permanere, l’effimero o il durevole […]?» [105]) o ancor più esplicitamente la Madre di Dio, di cui in fondo la prima è inevitabilmente umbra: «Ma lei, volto fiorito / sulla grazia dello stelo, / tutto domina, ovale / appena appena / granito porporino, / tutto in sé contiene, / seduta sul tuo trono / di pace e di vertigine» [106].

L’inseguimento di tali epifanie è concitato e l’immagine può repentinamente perdersi nelle presenze del mondo che rivendicano la loro materica persistenza, come dimostra Stasi – morta l’immagine [107], ovvero l’elaborata poesia che segue quelle appena citate e che nella corposità improvvisamente riacquistata dal significante (si osservi la fitta tessitura dei suoni) rende anche stilisticamente la dialettica fra movimento astrattivo teso alla pura luminosità e disprezzo della mera evasione intellettualistica. È pur sempre attraverso i propri «sensi magati» che l’artista capta «il desiderio / umano e non umano / dei plamizi e delle dune / dei cieli e delle rocce, \ delle cose, / tutte, di natura e d’arte / che accompagnano l’uomo», dal momento che «Tutti noi attendiamo / l’avvento della luce / che ci unifica e ci assolve» [108].

E la luce prorompe attraverso la creazione, che per l’artista è anzitutto il ritorno alla pittura. Vale la pena, in questa prospettiva, riprenderne interamente l’accorata invocazione:

Stelle alla prima apparizione
.                               esse, le immagini,
.                               non meno le parole.
.                                                                     Sbocciano
all’orlo in luce dell’estremo niente
appena sopra il baratro
della non conoscenza.
Ne granisce però
nei secoli, vita dopo vita,
forte il senso – oro
di che magnificenza
di frumento, messe di che celeste campo.
Ne crescono altre poi, caotiche,
ordinate in firmamento
a vincere l’incipiente
opacità di quelle, di quelle l’insignificanza.
Fa’ che s’apra a ricevere la mente
con gioia e con sgomento
– però senza avarizia
o scemo orgoglio – quell’abbondanza…
Così forse fu sempre
l’arte.
.           L’arte meravigliava i suoi maestri.
Non toglietemi mai
da quella vertiginosa danza.

Qui il poeta ci offre addirittura il sentimento totale e totalizzante dell’intera tradizione in cui il suo contributo si innesta, offrendocela come processo costante, come sistema in divenire in cui «vita dopo vita» si superano le «Stelle alla prima apparizione» per rinnovare, appunto, la spinta creativa dell’arte: l’arte meraviglia i suoi maestri, si pone «appena sopra il baratro / della non conoscenza» e si offre cioè come incremento d’essere, attività intimamente partecipe del ‘progresso spirituale’ dell’uomo.

Per Simone Martini la tradizione si incarna poi nella sua città, Siena, alla quale sono direttamente dedicate E ora lo conduce la vacanza e Nuovi luminosi incanti [109], lirica quest’ultima definita da Verdino una «Epifania della cultura senese, con privilegio dato alla stagione pittorica due-trecentesca e alla contigua presenza dei “santi” […], da santa Caterina a san Bernardino» [110]. Sibilla, poi, è il titolo di un interessante testo che prende spunto «da uno dei riquadri a tarsia del pavimento del Duomo di Siena, ove è raffigurata la Sibilla; […] ma a essa succede una negazione della cultura orfica per la piena manifestrazione dell’“essere”» [111]. Anche Siena, infatti, non può venire idealizzata, come non viene idealizzata la giovinezza dell’artista che in essa si raffigura. Ogni tentazione orfica, che pure era insita nell’elaborazione estrema dell’ermetismo, viene superata riconducendo tutto, compresa la creazione artistica, a prefigurazione dell’unica, vera incarnazione, cui rinvia anche quella del poeta esplicitata in esergo a questa sezione. «Si ritira da me lei, mia città, / e io da lei» [112]. Anche Siena non è che una tappa, sebbene la più avanzata, verso il «celestiale appuntamento».

Con ciò, siamo giunti all’apice dell’arte e la visione sfolgora nella sua clamorosa perfezione:

Un attimo
di universa compresenza,
di totale evidenza –
entrano le cose
nel pensiero che le pensa, entrano
nel nome che le nomina,
sfolgora la miracolosa coincidenza.
In quell’attimo
– oro e lapislazzulo –
aiutami, Maria, t’inciderò
per la tua gloria,
per la gloria del cielo. Così sia. [113]

La scissione fra parola e cosa denunziata a gran voce a partire da Per il battesimo dei nostri frammenti, che stava alla base di ogni infernale degenerazione del linguaggio umano, fino alla violenza sconcertante della storia recente, viene finalmente colmata. Siamo nel tratto decisamente paradisiaco della produzione luziana, come dimostrano questi versi, in cui la dichiarazione d’impotenza poetica lascia il posto a una trepida, dantesca invocazione d’aiuto, che si espanderà ancor più efficacemente nella memorabile Rimani dove sei, ti prego. Qui il poeta chiede al fuoco della visione di continuare a bruciare nella sua opera: «Non fare che […] ricada su se medesima, \ diventi vaniloquio, colpa» [114].

Se dunque gli è stato concesso attingere allo «spirito del mondo» per il tramite dell’arte, ciò è avvenuto solamente per la grazia che si è saputa accogliere con l’umiltà indispensabile. «Era paradiso, già?» La nuova interrogazione, ponendo in dubbio l’inviolabilità del confine fra conoscenza e mistero, finito e infinito, sancisce di fatto una nuova alleanza fra creatura e creatore e fa quantomeno baluginare la luce del trascendente nell’esperienza umana. La preghiera diventa allora pura lode, sulla scorta proprio del Cantico di Maria: «Magnificabo. / Magnificabo te» [115].

Sia rilevato il fatto che il trascendente non viene ridotto alla sfera dell’immanente, nemmeno nell’attimo del suo riverberarsi in esso: non c’è confusione di piani, dal momento che soltanto la sfera umana può risolversi in quella divina e non viceversa. L’uomo, come la sua arte, è compenetrata dal mistero che ne diviene il fondamento autentico, ma il mistero resta irriducibile:

ne magnificava in oro, azzurro,
carminio l’umiltà, il fulgore,
è vero, ma non ne decifrava
punto il senso, intatto traversava
la sua opera il mistero. Arte, oh arte! [116]

È questo il «Punto estremo», che opera d’uomo possa mai raggiungere; punto che innesca un processo di trasmutazione addirittura irreversibile [117]. Per raggiungerlo, l’artefice si è dovuto trasfigurare integralmente, ha dovuto intraprendere un arduo cammino che lo ha ridefinito nelle sue fibre più interne, sconvolgendo talvolta le categorie labili della ragione, obbligandolo a misurarsi con qualcosa di non riconducibile a misure umane prestabilite e implicite a priori; è poi riuscito a cogliere e fissare l’attimo accecante della visione trascendendo i propri mezzi per dare spazio in sé al mistero e ha potuto fare ciò, solo per via dell’umiltà appresa e della grazia ottenuta. L’opera compiuta è pertanto più grande di lui, non può nemmeno venire ascritta a suo merito, non gli appartiene, letteramente. Per questo, anzi, egli deve riuscire a separarsi da essa, come non ha fatto chi, idolatrando la propria creatura, ha ceduto alla tentazione (romantica) di approssimarsi al creatore con la superbia di un angelo dannato.

In quale punto
.                          la separazione è posta?
in quale freme?
di me dai miei colori,
dell’arte che fu mia
da me, dai miei problemi?
Gioiosa libertà che aspetti
di là dalle regole osservate
noi artisti, e anche la nostra opera.
Freschissima ritorna in mente Dei
essa, noi nel vago. [118]

Non c’è conferma più incontrovertibile, circa il grado di liberazione e di naturalezza raggiunto, della «beatitudo» [119] con cui si prende congedo dalla terra: «un’incipiente / divina gratuità lo invade», «Si lanciano come da una torre / al largo i desideri»: tanto che anche la morte diviene nient’altro che l’ultima, più bella freccia scoccata dalla vita.

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Il modo più giusto di attendere la morte è perciò quello di restare ancora ‘fedele alla vita’, senza lasciarsi incantare dallo sguardo di Medusa che si nasconde dietro al dolore e rischiare così di crogiolarsi in una materia poetica facile e redditizia, ma in definitiva ben più vana dell’attuale scrittura luziana, così gioiosamente evanescente, eccessiva, ariosa. Anche per questo motivo Luzi lascia pudicamente immaginare al lettore la fine del viaggio terrestre di Simone Martini, che a questo punto esce di scena senza preavviso, senza prendere congedo.

Nel libro ci si imbatte, quasi in chiusura di volume, in un inatteso intermezzo, composto da una lunga poesia dal titolo Seme [120].

La coincidenza di «minuscolo» e infinito, di umano e divino, di terrestre e celeste, di materia e spirito, di visibile e invisibile, di «morte e vita» e, insomma, di tutti gli elementi che variamente componevano i dilemmi luziani, trovano la loro sintesi esplicita nell’emblema del seme, perfetto correlativo di quell’humilitas che è prossimità all’humus, naturalezza estrema: «all’apogeo della sua umiltà, / al sommo del suo servizio». Gli opposti si toccano e l’infinitamente piccolo si apre all’infinitamente grande proprio nel seme, che tutti gli elementi conduce idealmente a unità.

Il seme è simbolo, ancora una volta, dell’incarnazione: l’affondare nella terra non è perciò affatto indice di regressione nell’alveo materno, di chiusura protettiva, bensì l’opposto: «È lì la sua dimora, \ eppure / al sicuro non si sente»:

.                                                     Infila spesso
il merlo invernale
il becco nella crosta,
la disfa, taluno ne scoperchia,
taluno ne piglia,
e spesso si avvicinano nel buio
roditori sotterranei.
No, non c’è pace
d’inverno e di letargo
in quella dimora,
la insidiano la fame
.                     gioiosa e rabbiosa
.                                    degli uccelli
e l’ingordigia dei topi –
vorrebbe soddisfarli
.                                       lui ma deve
custodire la promessa del domani.
Deve, lo sa, scoppiare,
marcire e trasalire
nel rigoglio.

Il «prescritto sacrificio» che incombe sul seme calato nella storia né accelera i tempi («deve / custodire la promessa del domani») né inficia l’avverarsi della promessa: «Ed ecco, [..] cresce, si erge / già tubero, già bulbo, / già stelo primissimogemmante».

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Si riaffaccia a questo punto la figura dello studente di teologia a lungo messa da parte e ora destinata a occupare interamente la scena per chiudere in una perfetta cornice la splendida icona che Luzi ci ha offerto.

Di primo acchito, si potrebbe leggere quest’ultima parte del volume come una sublime sfumatura che lascia sospesa su un fondale smaltato e lucente tutta la vicenda; anche il sottotitolo Peregrinazioni, memorie lascia trapelare una certa libera occasionalità dei testi, peraltro subito confermata dalla prima rappresentazione di una «notte dalmatica» che strania il lettore, dunque, dal contesto finora sviluppato [121]. Sarà indubbiamente anche così (la varietà dei paesaggi e la semplicità dei motivi è il dato più cospicuo della sezione), ma a patto di leggere fino in fondo in questa strategia testuale una sorta di prolungamento, nient’affatto declinante per intensità, della vicenda di Simone Martini.

Spostando il punto di vista, Luzi può riprendere il discorso da un registro più dimesso, per attuare un nuovo crescendo sulla base di tonalità differenti, dimostrando ancora una volta una ricca e imprevedibile orchestrazione che assoggetta l’ampia libertà tematica, e persino le divagazioni improvvise, in uno sviluppo multiforme e sotterraneamente coerente. Inoltre, lo sviluppo soggettivo che ha condotto all’acme della ricongnizione dell’arte nel suo massimo punto di incandescenza, con la successiva sintesi (anche dottrinale) nell’intermezzo, si estroverte qui finalmente recuperando un’apertura non soltanto paesaggistica, ma una pluralità di comparse e di percezioni sensoriali che ricorda altre riprese interne di libri precedenti, necessarie e gratificanti dopo l’acuirsi della tensione poetica.

La divagazione non cade nella gratuità anche per la sequenza dei due testi conclusivi. In Pilato, secondo Simone [122], è come se lo studente si facesse autonomo continuatore dell’opera di Simone Martini, attraverso l’epifania di una sua immaginaria raffigurazione. L’arte del pittore senese è ormai distinta davvero dalla sua persona. Non siamo direttamente venuti a sapere nulla della sua morte, che possiamo immaginare o, più ancora, trovare pudicamente espressa in controluce all’immagine della «foglia moribonda» che «si congeda dalle altre». Si tratta, appunto, del testo conclusivo della sezione, che ha l’efficacia di una sfumatura cinematografica che accumula in un’appendice il ricordo della trama appena esplosa nella sua piena ed eclatante rivelazione.

Si diceva tuttavia che la nuova parte del libro cela ancora un interessante crescendo poetico e concettuale, già patente nell’indicazione insita in Ispezione celeste, formula che suggella l’ultimo nucleo poetico del libro. Se il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini si apriva con una riflessione a tratti spiccatamente teologica, la rapida escursione conclusiva coinvolge ancora teologicamente il futuro. Con la «terra orciana» [123] si circoscrive un paesaggio elettivo in grado di offrire gli spunti migliori per indagare l’oltre, fino a intravedere «i tempi che si ricongiungono» [124], ovvero la resurrezione definitiva. Si inscena una panoramica che trattiene una distesa, ma densa meditazione umana, non priva di altre luminose epifanie, sopra le quali svetta sicuramente il componimento finale, in cui l’essere si palesa come  «essenza, avvento, apparenza, / tutto trasparentissima sostanza» [125].

La poesia ricalca ed espande la struttura di È, lui, che abbiamo trovato in chiusura di Frasi e incisi di un canto salutare [126], ma si propone come degno finale del libro, capace di coniugare la più sottile perplessità con l’intuizione straripante: «È forse il paradiso / questo? oppure, luminosa insidia, / un nostro oscuro / ab orgine, mai vinto sorriso?»

Il Viaggio terrestre e celeste prendeva l’abbrivo da una riflessione escatologica sulla natura e sulla parte che in essa spettava all’uomo: «E ora, tardi, se ne avvedevano in pianti» [127]. Scopriamo ora una significativa corrispondenza: «pianti» e «sorriso» sono rispettivamente le parole conclusive dell’incipit e dell’explicit poetico del Viaggio. L’ultima parola cui ricorre Luzi rovescia, in perfetta antifrasi strutturale e pur insinuandosi in forma interrogativa, la prima clausola del volume. Anche il passaggio dal plurale (indice della dispersione del principio unitario) al singolare (così platonicamente caratterizzato) sarà allora perfettamente in linea con i tratti più noti della ricerca luziana e tanto più rimarchevole quanto ben inserito all’interno di una architettura capace di cesellare il dettaglio minimo in un grandioso, ineguagliabile affresco all’arte e alla speranza.

 

NOTE

[1] È l’indicazione di Luzi, OP, p. 954.

[2] Ivi, p. 951.

[3] Parafrasiamo lo stesso augurio di Luzi: cfr. Non sia nostalgia ma desiderio, Discorso naturale, Milano, Garzanti 1984, pp. 79-82.

[4] Il riferimento è all’intervento teorico di Luzi Glossolalia e profezia, Naturalezza del poeta. Saggi critici, a c. di G. Quiriconi, Milano, Garzanti 1995, pp. 117-25.

[5] P. Di Stefano, Mario Luzi. Dalle macerie, in attesa di rigenerazione, «Corriere della Sera», 19 agosto 1993, p. 17; cit. in OP, p. 1747.

[6] Il riscatto della parola. Testimonianze di poeti: Giudici, Luzi, Sanguineti, Zanzotto, a c. di E. Piovani e G. Porta, Brescia, Grafo 1995, p. 127; cit. in OP, p. 1749.

[7] OP, p. 954.

[8] W. Shakespeare, Riccardo II, Torino, Einaudi 1966. Il Riccardo II, a detta dello stesso Luzi, «insegna proprio il procedimento, la grammatica, lo spettacolo e con lo straordinario linguaggio di Shakespeare che oscilla continuamente e include, ingloba tutti i piani della lingua, li solleva e po li diluisce; ha una diabolica disponibilità all’avventura linguistica pur rimanendo in questa logica costruttiva che era la sua. Costruttiva sia linguisticamente, sia scenicamente, sia spettacolarmente» (Luzi, Firenze, Marco Nardi 1993, p. 101).

Per alcune considerazioni sull’importanza del laboratorio della traduzione nella poetica luziana si vedano in particolare: G. Quiriconi, Allegati su Luzi, I miraggi e le tracce. Per una storia della poesia italiana contemporanea, Milano, Jaca Book 1989, pp. 165-97 (e specificamente la prima parte, pp. 165-82); R. Mussapi, Luzi e Shakespeare, Il centro e l’orizzonte. La poesia in Campana, Onofri, Luzi, Caproni, Bigongiari, Milano, Jaca Book 1985, pp. 95-107.

[9] OP, p. 957.

[10] Ivi, p. 958.

[11] Ivi, p. 959.

[12] Ivi, p. 960.

[13] Ivi, p. 961.

[14] Cfr. Chi è – improvvisamente non conosce, ivi, p. 962.

[15] T. de Chardin, Il fenomeno umano, Milano, Il Saggiatore di Alberto Mondadori 1968, p. 348. Analogamente Luzi: «Il progresso spirituale non può consistere per noi che in questo cammino occulto verso la nostra verità singolare e, in termini più solenni ma identici, verso la verità come si è attuata nella nostra propria persona» (Del progresso spirituale, Naturalezza del poeta, cit., p. 55).

[16] OP, p. 963.

[17] Ivi, p. 964.

[18] Ivi, p. 965. Si ricordino anche i versi di Prima notte di primavera, p. 274: «Generazioni su generazioni / d’uomini chi vinto chi levato / nella fierezza dei suoi mali, età / profonde con dolore una nell’altra, / in una sofferenza, in un sol punto / premono, fanno tutte ressa, e geme / e cigola da pila a pila il ponte / oscuro verso l’ultima campata / e la pianta protesa dalla radice al frutto. // Porto la mano sulla fitta, ascolto. /  Prima notte di primavera, gonfia / e lacera tra l’avvenire e l’essere» (corsivo nostro).

[19] Ivi, p. 966.

[20] Ivi, p. 967.

[21] Sopra un’immagine sepolcrale, Gli strumenti umani, Poesie, a c. di D. Isella, Milano, Mondadori 1995, p. 168. Il corsivo in questo verso sta ad indicare la citazione leonardesca che Isella annota a p. 618.

[22] G. Caproni, L’ultimo borgo, Il franco cacciatore, L’opera in versi, a c. di L. Zuliani, Milano, Mondadori 1998, p. 437.

[23] OP, p. 968.

[24] Ivi, p. 866. «Come avviene nella natura, proprio nella sua determinazione il poeta trova la sua libertà», afferma Luzi nel saggio Naturalezza del poeta, cit., p. 78.

[25] L’attenzione implica sforzo per concentrare la mente su un unico oggetto: la coscienza non “vede” che quel punto verso cui si orienta e tende ad escludere volontariamente ciò che vi è intorno. Lo stato di rilassamento, la contrario, non esclude alcuna evenienza e può portare “alla coscienza” ciò che si muove sotto la soglia della percezione ordinaria. Non è per caso che il concepimento nella Vergine avvenga nel dormiveglia, come si leggerà in Dormitio Virginis, ivi, p. 983-4.

[26] OP, p. 972.

[27] Ivi, p. 973.

[28] Ivi, p. 974.

[29] Ivi, pp. 976-8.

[30] Ivi, p. 980.

[31] Giovanna accovacciata, ivi, p. 979.

[32] Ivi, pp. 983-4.

[33] Ivi, p. 981.

[34] Petrarca, ivi, p. 982.

[35] Ivi, p. 985.

[36] Quel viso, quella face, ivi, p. 987.

[37] Ivi, pp. 1760, 1763.

[38] Cfr. Ci aspetta e Dove avallava, ora, il tetro camminamento?, rispettivamente alle pp. 991 e 1005.

[39] Ivi, p. 997.

[40] Ivi, p. 1004.

[41] Ivi, p. 1000.

[42] Ivi, p. 1006.

[43] Ivi, p. 1008.

[44] Si indicano qui una sola volta le pagine: 993, 994, 995 e 996.

[45] Mondo in ansia di nascere… Ma stretta, ivi, p. 965.

[46] Ivi, p. 998.

[47] Ivi, p. 1001.

[48] La poesia si trova a p. 1003, la nota di Verdino a p. 1763. PFF sta per Il pensiero fluttuante della felicità.

[49] Cfr. A Bellariva, OP, p. 1258.

[50] Siesta, FCA, ivi, p. 285.

[51] Ivi, p. 1009-10.

[52] Ivi, p. 1011.

[53] Ivi, p. 1012

[54] Ivi, p. 1013.

[55] Ivi, p. 1014.

[56] Cfr. la nota a p. 1765.

[57] Ivi, p. 1015.

[58] Ivi, p. 1016.

[59] Ivi, p. 1017.

[60] Ivi, p. 1018.

[61] Ivi, p. 1768.

[62] Ivi, p. 1020.

[63] Ivi, p. 1021.

[64] Ivi, p. 1022.

[65] Ivi, p. 1024.

[66] Ivi, p. 1026.

[67] Ivi, p. 1027.

[68] Ivi, p. 1031.

[69] Ivi, p. 1032.

[70] Ivi, p. 1033.

[71] Ivi, p. 1034.

[72] Cfr. In acqua e in aria, S’ammassa Roma, raggruma  e Tra monti tale quale rispettivamente alle pp. 1039, 1040, 1041.

[73] Ivi, p. 1047.

[74] Ivi, p. 1048.

[75] Ivi, p. 1049.

[76] Burnt Norton, Quattro Quartetti, Opere. 1939-1962, a c. di R. Sanesi, Milano, Bompiani 1993, p. 339.

[77] Si ricorderà naturalmente L’infinito di G. Leopardi: «Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si spaura» (Canti, a c. di A. Tartaro, Bari, Laterza 1987, p. 79).

[78] «E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» (E. Montale, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Milano, Mondadori 19967, p. 30).

[79] OP, p. 1050.

[80] Ivi, p. 1051.

[81] Ivi, pp. 1053-4.

[82] Ivi, pp. 1055-6.

[83] Si ricordi il «cifrato dramma» di p. 1017, che suggeriva la presenza occulta di una forte radice biografica nelle vicende poetiche.

[84] Si pensi ad esempio, nel nostro caso, all’Annunciazione del 1333 eseguita per il Duomo di Siena e firmata sia da Simone Martini sia da Lippo Memmi, il quale nel 1324 era divenuto suo cognato entrando a far parte della sua bottega. In tale opera è pressoché impossibile distinguere gli interventi congiunti dei due pittori.

[85] Ivi, p. 1057.

[86] Ivi, p. 1058.

[87] Nel senso implicato dalla sigla Il giusto della vita, per cui cfr. p. 1309.

[88] Ivi, p. 1059.

[89] Ivi, p. 1060.

[90] Ivi, pp. 1061-2.

[91] Tale è la formula di chiusura della poesia Esce dalla riserve, di p. 1065, poi ripresa e variata nella «universale danza» di p. 1077 e nella «vertiginosa danza» di p. 1082 (sempre in clausola).

[92] Ivi, p. 1063.

[93] Se lo scopo dell’arte fosse la mimesi non della vita ma delle sue forme e del suo ricordo il confronto sarebbe devastante: l’arte non regge alla comparazione con il reale (ridotto a dato grezzo, sottratto al suo divenire), deve piuttosto farsi autonomamente carico della spinta creativa che essa racchiude in sé, per restare fedele alla vita.

[94] Ivi, p. 1070.

[95] Ivi, p. 1065.

[96] Ivi, p. 1066.

[97] Ivi, p. 1067.

[98] Ivi, p. 1068.

[99] Ibidem.

[100] Ivi, p. 1069.

[101] Ivi, p. 1073.

[102] Ivi, p. 1074. Ricordiamo anche alcuni passi in prosa, dagli spiccati accenti leopardiani, significativamente intitolati Ritorno a Siena e risalenti a molti anni prima: «Ma poi, quando la sera è scesa e la città si allevia, liberata dalle cupezze e dalla festa delle sue architetture, nell’aria appena notturna […], l’immaginazione di tra gli edifici rimasti assorti e solitari può tornare a fingere intorno alle mura uno spazio sconfinato e irreale, abitato da uomini ben più chimerici di quelli or ora veduti. Per lo più, era quella l’ora che da ragazzo sentivo come un’arcana ventilazione frustarmi e agghiacciarmi il sangue e la mente tornava esaltata a certe immagini dell’arte senese che allora mi pareva più di altre esprimessero quella raccolta vertigine: la misteriosa, deserta cavalcata di Guidoriccio da Fogliano si associava immancabilmente ai miei pensieri e quella landa tra quelle rocche era allora la campagna circostante e quella favola tutta la vita, la sua essenza, la sua febbre» (Trame, Milano, Rizzoli 1982, p. 104).

[103] OP, p. 1075.

[104] Ivi, pp. 1076-7.

[105] Ivi, p. 1078.

[106] Ivi, p. 1079.

[107] Ivi, p. 1080.

[108] Ivi, p. 1081. Si osservi il neologismo «magati» che rovescia l’ipotetico «smagati», quasi a voler indicare un preciso orientamento dei sensi al loro vero oggetto, dal quale solitamente vengono distolti dalle illusorie sembianze del “reale”.

[109] Ivi, pp. 1083 e 1084. Il termine «vacanza» potrebbe essere una lieve sovrapposizione dell’occasione luziana alle circostanze invece imposte dalla finzione narrativa del libro.

[110] Ivi, p. 1781.

[111] Ibidem.

[112] Ivi, p. 1087.

[113] Ivi, p. 1088.

[114] Ivi, p. 1089.

[115] Ivi, p. 1090.

[116] Ivi, p. 1091.

[117] Ivi, p. 1092.

[118] Ivi, p. 1093.

[119] Ivi, p. 1094

[120] Ivi, pp. 1099-1102.

[121] Ivi, p. 1105.

[122] Ivi, p. 1112.

[123] Ivi, p. 1119.

[124] Ivi, p. 1122.

[125] Ivi, p. 1131.

[126] Ivi, p. 934.

[127] Ivi, p. 957.

 

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