Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Fabio Pusterla

L’intera opera di Pusterla ruota attorno al doloroso enigma della memoria, come se soltanto il punto in cui si coniugano biografia e storia, tempo dell’uomo e tempo della natura, potesse giustificare la richiesta di senso che muove la scrittura. Se quel punto esiste, allora la vita ha un centro, un ritmo profondo che pulsa sotto il caos apparente.

Una tra le figure più efficaci che finora questo poeta (così attento a non cadere nel figuralismo, ma attratto dalle reliquie disadorne e dalle tracce scomposte che l’avventura umana dissemina) ci aveva consegnato era giust’appunto quella del Bockstenmannen, il cadavere di un individuo assassinato nel XIV secolo e rinvenuto nel 1936 sulla costa occidentale della Svezia, in prossimità del confine norvegese, sorprendentemente conservato dalla torba che lo seppellì. La sezione centrale di Bocksten, la più ampia del libro, è una sorta di racconto poetico che permette di far rivivere la memoria di quel misterioso individuo attraverso la fantasia dell’autore che trovava, in quel modo, una maschera ideale per stemperare verso l’impersonalità «lo strappo, la deriva / di morte» cui si tenta di porre rimedio. Ogni vicenda umana, infatti, ogni istante, anche il più luminoso, è soggetto alla macina del tempo che lo riconduce all’oblio (emblematico, in tal senso, il testo conclusivo, Da un ponte: «C’è un grumo d’allegria nello scorrere dell’acqua»). È questa la catastrofe che incombe su ogni scena: la perdita della memoria inscritta nel divenire. «E poi qualcuno va, tutto è più muto», recita una delle prime poesie di quel libro: «e intanto arretrano / i ghiacciai, s’inghiotte il mare / lo stretto, ed il passaggio / è già troppo profondo, impronunciabile, / sepolto nel passato il tuo viaggio. Se ci ritroveremo / non ci sarà memoria». Ma se lo scopo è  contrastare l’oblio, risulterà implicata la valenza civile del gesto. Rileggendo ora quella raccolta dell’‘89, pare che Pusterla abbia a suo modo anticipato alcune soluzioni (si pensi all’asciuttezza dei versi che tentano la trama narrativa) poi abbracciate, recentemente, da Cucchi (poeta da cui l’autore di Bocksten prendeva le mosse, come sembrerebbero lasciar intendere diverse sequenze e moltissimi stilemi del suo libro d’esordio, Concessione all’inverno). Ciò si spiegherà risalendo alla comune matrice lombarda, che si radica in una terra di laghi, boschi e ghiacci che, affacciandosi alla frontiera, si apre a quel territorio svizzero che per Pusterla stesso (residente a Lugano) è un ponte verso l’Europa (e ne andrebbe qui ricordata l’attività di traduttore). Siamo già, con questo, sul terreno della memoria propriamente letteraria, che pure non è accessoria rispetto a quanto detto finora, se calata in una trama di reali rapporti umani che fanno tutt’uno con i personaggi comuni che popolano questi versi (si pensi a Fortini e Neri che, entrando in alcuni titoli di Le cose senza storia, vengono accolti in un coro di altre figure – Claudia, Nina, Mattia…- dal profilo ignoto). Eppure, il modello veramente determinante per Pusterla va additato in Montale, più come punto di riferimento consapevolmente da distanziare che matrice per la genealogia dei suoi versi. C’è una poesia rivelatrice anche in Bocksten, che pure è la sua raccolta più omogenea e stilisticamente slavata: si tratta dell’Anguilla del Reno, che richiama il celebre testo montaliano sia a livello strutturale sia a livello simbolico (e il repertorio animale, ornitologico soprattutto, avrà altra significativa concomitanza con La procellaria e altre presenze dei libri seguenti, sebbene sia anzitutto importante comprendere l’analoga funzione che tale repertorio assume nell’economia complessiva del sistema poetico di entrambi). Si legga il brano 6 di Sotto il giardino, in Le cose senza storia, dove le presenze animali sono indizi di mostruosità che suscitano una visione quasi allucinata, in cui tutto è sottoposto alla forza inquietante della natura; oppure L’arte della fuga, in cui un «topolino» è, all’opposto, sostenuto nella ricerca di un varco: «Il passo è qui». Non sarebbe difficile trovare altre prove per verificare l’imprinting montaliano: basterebbe prestare attenzione a talune formule, al gusto per le accumulazioni, a un certa poetica degli oggetti (i quali, tuttavia, in Pusterla reclamano una zona d’ombra, una dizione più disadorna, tale da mantenerli come puri relitti, fuori da un reticolato di rapporti dalla scoperta funzione simbolica), ma, ancor più, al dilemma centrale che muove la scrittura, punta dal dubbio dell’insensatezza (della «Divina Indifferenza»). Sarà qui sufficiente, invece, ricorrere alla lettura della seconda poesia della raccolta Le cose senza storia, fra le più belle del libro. La scena vede l’autore, nelle vesti di padre, vegliare sul sonno della figlia; le riflessioni, con scoperti accenti sereniani («gente che lavora a non sa cosa / o per chi, ma lavora, preme tasti, / invia messaggi a ignoti dentro l’aria […] e la paura, l’odio / del paria contro il paria, questa rissa / d’anime perse, nuovi schiavi»), fanno slittare la poetica degli oggetti in una poetica della nominazione (parole e cose si spalleggiano: «Il Grande / Bevitore di Birra, la Donna Occhi nel Vuoto, / Mazinga»), ma soprattutto giungono a una chiara ripresa, da Montale, del tema del segno salvifico: «Lo troverete, fra i vostri giochi, il gioco che ci salvi? // Noi tutti lo speriamo / guardandovi dormire». Se il poeta ligure si affidava a un tu angelico o, meglio, credeva possibile la salvezza solo per quella figura, Pusterla riporta la stessa dinamica dentro la propria biografia e la storia, auspicando la soluzione dell’enigma non per sé, ma per le generazioni a venire. È su questa stessa disposizione montaliana che si innestano i momenti epifanici in cui è l’evidenza del mondo a darsi, oltre la capacità di significare della parola che vorrebbe farsi da sola interamente carico della memoria: «I ragazzi si perdono / come mele cadute dal tavolo»; «Certe case non sono solo case».

Resta invece più propriamente appannaggio della ricerca lombarda la radice prima della propensione dell’autore per il grottesco, per le forzature espressionistiche della lingua e la deformazione caricaturale al limite dell’assurdo, come accade, sempre in Le cose senza storia, nella Lettera del padre, da un loculo: «Signori consiglieri, e voi, odorevoli, / stimato beverendo, maggiorenti…». E proprio questo versante si ricongiunge mirabilmente, in Pietra sangue, con il tema della memoria, a partire dal titolo, che pare così diverso dai precedenti, meno dimesso e minimalista, ed è invece mosso dallo stesso desiderio di ridare storia alle cose, come lascia intendere la nota dell’autore: «Il titolo […] allude alla lavorazione artigianale della scagliola, o “marmo dei poveri”»; la pietra sangue è usata per l’ultima lucidatura (bella allegoria, anche, del lavoro del poeta). Ecco, tout se tient: la passione per certi luoghi, il risvolto civile implicito nell’impegno poetico, il rovello morale di chi sente nella scrittura la fedeltà a un comune e non risolto destino umano, il risentimento per le piccole e grandi ingiustizie perpetrate dalla storia che premono sulla coscienza come un conto ancora da saldare, la necessità di trovare una risposta là dove il nesso del tempo è più inerte, vale a dire nel quotidiano, nel ritmo delle vicende personali di cui si è testimoni: tutto ciò fa di Pietra sangue il volume che avvia una fase di ricerca più articolata nelle forme e complessa nelle valenze ultime. Diverse le sezioni, che muovono da Preliminari sul terreno per giungere a un Congedo, diverse le attuazioni strutturali, dalle strofe speculari e retrograde nelle rime della Canzone dei sentieri, al centone di Danza macabra o alle terzine di Tremolìo; molteplici i registri espressivi: dai toni quasi bozzettistici dei versi sul paesaggio alle inflessioni retoriche degli Epitaffi per Arnaud Robin, al grottesco dichiarato fin da certi titoli, ai resoconti narrativi di alcune storie popolari, all’astio di Possibile risposta («Mi fai schifo, sappilo»; «Continua pure, / merdina», ancora non lontani dall’orrido carpito nei versi di Cucchi), alla mimesi ironica del parlato lombardo (soprattutto nella poesia Entemal).

A dire il vero, la poesia di Pusterla era partita da contrasti interni evidenti; «se proprio in Concessione all’inverno» (l’opera d’esordio, che ricordiamo qui con le parole di Galaverni) «il discorso poetico, innestato prevalentemente su componimenti di una strofa polisillabica di varia lunghezza, è caratterizzato da una tensione anarchica e sovvertitrice, da un interno scontento, un’insofferenza che si manifesta anzitutto nell’uso pressoché continuo degli enjambements, di spezzoni di lingue straniere, di citazioni e cripto-citazioni, dei nomi propri con funzione straniante e, appunto, da una grande abbondanza di incisi e soprattutto di parentesi. La stessa funzione di quest’ultima risulta in pratica capovolta rispetto all’uso comunque parco che ne faceva ad esempio Sereni, in cui in genere rappresentano lo spazio di un approfondimento, di una verità aggiunta, a volte anche più intima e perciò un poco dissimulata. In Concessione la parentesi assume invece un valore strutturale (comprende infatti titoli di poesia, intere strofe e perfino altre parentesi, come in L’arrocco), conducendo a un continuo raddoppiarsi e complicarsi delle trame discorsive, parallelamente a una percezione caotica e contraddittoria delle cose».

Il poeta, archeologo del senso, ordina i propri reperti senza farne violenza, senza descriverli con un unico timbro. Invidia il presente incosciente dei giovani che sono «stelle, meteore, qualcosa di filante», ma accetta la gratuità del tempo, la dolorosa impossibilità di essere gli altri (rovesciando affermazioni di Sartre). E se la raccolta si chiude nel silenzio («Ora è viaggio / muto») è comunque stata scritta. Forse il poeta non ha fede in una risposta alla domanda: «Se il grido / non lo sente nessuno, cosa fa, / cosa diventa? Dove vanno / le grida inascoltate, che energia / sprigionano?», ma fortinianamente continua a scrivere, a rinascere dal silenzio come un’epifania del creato, piena di senso muto, almeno finché «resta tempo e forza; soprattutto / la pazienza di ascoltare ogni voce».

Allo stesso modo di Pietra sangue, anche Folla sommersa, l’ultima raccolta, è assai composita: si pensi alla contiguità di una sequenza formata da brevi Testimonianze di un fatto tragico (alla maniera di Cucchi), di una sestina (Sesta rima dello schiavo prigione) e delle pseudoterzine di A un liceale annoiato: terzine, senza dimenticare la presenza nel libro di una sezione di prose (Appunti della luce e della sabbia) e di una collana di haiku anomali (Misure), per indicare il rigoglio selvatico (leggere in tal senso l’iniziale Nella vigna di Renzo) di una sperimentazione assai ampia. Il titolo generale suggerisce, sulla scorta di una delle citazioni introduttive (Thomas Bernhard che riflette sul «pullulare d’uomini» di cui non si sa nulla), il compimento della missione di «ascoltare ogni voce». E in effetti la piena padronanza del proprio incedere prossimo alla prosa eppure sempre inconfondibilmente poetico, secondo la lezione montaliana prima (e basti qui cogliere nella clausola di Interno con mobili e carte il rifacimento di un verso delle Occasioni: «Ne basta una, di vita, a farne troppe» rovescia «Occorrono troppe vite per farne una», finale di L’estate), sereniana e di tutta la poesia maggiore del secondo Novecento poi, permette a Pusterla di raccogliere nelle sue pagine un ricco inventario di storie, di microracconti in cui le voci captate definiscono scene altamente emblematiche, spesso dai risvolti inquietanti. A trovare cittadinanza in questi versi è in particolar modo un’umanità reietta, composta da individui segnati dal destino, da una vita sbagliata: sullo sfondo c’è sempre, viva, la tensione di un dramma prossimo al suo acme oppure lo sgomento dell’assurdo, della gratuità e della banalità del male. Eppure, la poesia eponima chiarisce che la moltitudine cui si fa riferimento è più propriamente quella dei defunti: «una grande folla sommersa che ci guarda in silenzio e ci attende». Verrebbe quindi da sottolineare definitivamente l’ottica mortuaria, retaggio anch’essa della tradizione letteraria varie volte abbozzata, assunta dal poeta, ma non si coglierebbe in tale suggestiva formula il tenore maggiormente combattivo dei suoi versi, sempre più consapevolmente ligi al dettato fortiniano: «sasso dopo sasso / costruisci anche tu quel che non serve / a nulla e a nessuno, ma è». Più che al mondo umano, infatti, Pusterla sembra vòlto a quello animale e vegetale e spiare da questa visuale la storia e il suo incedere insensato. La raccolta è, anzitutto, una galleria di bestie che contemplano il passaggio di uomini «superstiti o fuggiaschi» con «Sulle spalle / un fascio di improbabili speranze»: vano e persino ridicolo può apparire il loro affannarsi, su una Terra di nessuno devastata da alluvioni, cataclismi naturali e molto spesso anche da catastrofi dovute all’uomo: «La vita che chiami vita si conserva / solo come memoria disseccata, muto sguardo / di fossile o carbone, minerale. / No, non sono loro a franare, è la storia / nostra, e le nostre strade». Contemplati al ritmo delle ere geologiche, anche le opere più grandiose sono residui senza senso, lasciti inerti, sempre e solo rovine desolate. Eppure l’indignazione scatta repentinamente in tante poesie civili che si concedono senza paura inflessioni un po’ retoriche, perché nonostante l’universale vanità «in cui ogni cosa è uguale / e necessaria, esatta e inessenziale», mentre «tutto varia / col variare del tutto», sono proprio loro, gli animali e la natura, a insegnarci la disperata armonia di forze cieche che impongono di tramandare la vita, come se esattamente la sua fragilità conferisse valore a ogni palpito: «se anche le mele o le bombe / continuano a cadere inesorabili, / forse non tutto è perduto. Leggerezze / relative, desideri, qualche forma di felicità». Resta, infatti, il «profumo selvaggio» lasciato dal passaggio dello stambecco, creatura non vista in cui l’uomo può leggere comunque il suo stesso destino, purché abbia ancora il coraggio di ascoltare le voci ancestrali impresse nella carne, nella memoria della specie.

(da Poeti nel limbo)

 

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