Ballata del mese di maggio
(L’immagine in evidenza di questo articolo viene da qui)
Riprendiamo l’esperienza raccontata ieri. Dopo la prima lettura ci siamo limitati a riconoscere la struttura della ballata, qui con un ritornello che effettivamente si ripete dopo la prima stanza, per essere sostituito invece alla fine. Poi, per mettere a fuoco meglio le diverse impressioni, abbiamo riletto, senza fretta:
Pristina rosa, rosa dolorosa,
stelo ubriaco e vulva spappolata,
dei figli che tu spandi
ne farò marmellata.
Chiariti appena un paio di termini (“Pristina”, latino, significa “antica”; “vulva” invece per qualcuno di loro era la “valva”…), i ragazzi hanno espresso subito una sensazione di contrasto, tra parole e ritmi. Qualcosa di bello (la “rosa”, i “figli”) venivano subito accostate a immagini anche molto forti, con espressioni che risultavano “poco poetiche”. Questo, ho affermato, era al momento già abbastanza: il ritornello ci dà il tono per affrontare la prima strofa su questo duplice registro: la cantabilità e l’apparente leggerezza che si rovesciano in qualcosa di più violento.
I veri problemi nascevano con la strofa:
Così i bambini saltano più in alto,
festeggiano il millennio
con giochi pirotecnici. Papà
scende sempre in giardino
e la matrigna nutre le sue piante:
la natura matura tutti i semi
col concime più nutriente. Ventre
sempre benedetto, mentre la puerpera
che sperpera i suoi doni
non verrà perdonata.
Rosa violentata. Sogno la bocca
della mia sposa e spengo la TV.
I bambini dal cielo
non scenderanno più.
“Qui di che cosa si parla, secondo voi?” La risposta che ho ricevuto, mettendo insieme alcuni interventi, è stata più o meno questa: “Secondo me si parla di una donna, che deve affrontare un problema… Il ‘concime più nutriente’ per me è addirittura un rimando alla morte… Però sembra che l’autore sia lontano, perché si parla della televisione… Forse il ‘millennio’ è un riferimento reale alla fine del secolo…”
Quando lavoro su qualche testo letterario, chiedo sempre ai miei studenti di partire dalle loro considerazioni. Non devono temere di avanzare delle ipotesi magari errate: lo studio della letteratura sviluppa anche queste capacità, affina queste competenze che serviranno, magari, a chi un giorno diverrà ingegnere e non si sognerà di leggere un libro di poesia (anche se, ovviamente, spero che tutti gli ingegneri siano almeno tentati di leggerlo, un libro di poesia, di tanto in tanto). Chi cerca di interpretare un testo non deve temere la banalità, il dato primario della sua esperienza; non deve ignorare ciò che “sente”. Si coglie il “senso” anche là dove non ci capisce del tutto il significato. Anzi, qualche volta il poeta lascia sfuocato il significato perché meglio emerga il senso. Tant’è vero che, in effetti, non potevo pretendere di più dall’interpretazione dei miei allievi. Erano già andati oltre alle mie aspettative. Mi sono limitato, dunque, a chiedere se l’accostamento della “natura” e della “matrigna” ricordava loro qualcosa. Zio Jack! Sì, proprio lui, il nostro Leopardi. Bene. È anche lui qui con noi a dialogare, allora.
A questo punto, ne ho approfittato per ribadire loro che la lettura di una poesia non può essere avulsa dal contesto. Una poesia è una parte, anche autonoma, ma pur sempre inserita in un discorso più ampio, che è l’opera, cioè il libro vero e proprio da cui è estrapolata, ma anche l’intero percorso di un autore. “Ecco”, ho spiegato, “voi non avete letto le poesie che precedono questi versi. Nelle altre poesie ho già disseminato alcuni indizi. Giunti a questo testo, insomma, auspico che il mio lettore ideale abbia ormai associato la figura della ‘rosa’ a mia madre, che effettivamente si chiamava ‘Maria Rosa’, ed è morta quando non avevo ancora compiuto undici anni. Accanto a questa immagine, c’è quella dell’angelo, che rappresenta mio fratello, più giovane di me di due anni, morto pochi giorni dopo la nascita. Questo trauma familiare, come potete immaginare, ha segnato profondamente mia madre e la mia infanzia”.
Raccontare queste esperienze personali è sempre il momento più complicato. Qui si raggiunge il momento culminante dell’imbarazzo. Spero sempre che diventi davvero per i miei allievi un momento educativo, di quelli in cui un insegnante rivela pienamente il proprio volto umano, magari persino i propri limiti. E il fatto di confidarsi con una certa semplicità, in modo sereno e oggettivo, dovrebbe permettere loro di intuire che le difficoltà si riescono a superare veramente nella vita, anche se magari occorre del tempo. So che molti di loro, in quanto adolescenti, affrontano in modo acuto l’esperienza psichica del limite, entro il quale devono imparare a seminare e coltivare i loro sogni. Confrontarsi con un “adulto”, che non teme di mostrare questa sua condizione di adulto, è per loro un’esigenza insopprimibile, che lo sappiano o no.
Comunque, era bastato fornire questo indizio perché la maggior parte intuisse ormai perfettamente il significato di certi versi (“stelo ubriaco”) e il “problema” finora velato: sì, purtroppo anche i bambini muoiono.
Si poteva procedere con la seconda stanza:
Ma il debito alla patria non è mai
saldato e dal mio piccolo
popolo, Ivo mi ha lasciato in pegno
le giovani marmotte.
Per ciò di notte leggo. E se la grandine
si allontana domani farà bello,
si gioca a calcio ancora tutti insieme.
Tia a perdere non ci sta più, ma Luca
corre più forte e Cisco
sulla fascia non tiene.
E se invece l’alba viene bagnata:
fuoco! e l’angelo custode è già qui.
Sognerò mio fratello
e un nome da pirata.
Appena risolto qualche enigma, ecco che ne spuntano altri. Che cosa c’entra adesso la “patria”? “Le giovani marmotte a me pare un’allusione al mondo scout, ma non capisco che cosa abbiano a che fare col resto”, ha comunicato qualcuno. “Comunque si parla di una partita di calcio, che si potrebbe giocare o no: dipenderà dal tempo… Questa partita inoltre rappresenta un momento di felicità”. Sì, certo, ma il nome da pirata? E che cosa significa quel “fuoco!”?
“Ragazzi, vi dimenticate che avete la possibilità di chiedere all’autore: fatemi la domanda giusta!”. Ma qual è la domanda giusta da porre, in certi casi? Come si affronta l’imbarazzo? Per sua stessa natura, questo sentimento avanza una preghiera di rimozione, chiede un gesto di silenzio: la clemenza di fingere di non vedere, di fingere che non sia successo niente. Eccoli lì, i miei studenti, che tendono il beccuccio fuori dal nido, che sono attratti dall’abisso, ma non osano. Allora, si va avanti.
Angelo bello, angelo fratello,
truccati presto, andiamo in Albania.
Si va a rapir bambini,
si salta in compagnia.
Uh, ci mancava solo l’Albania… E io, invece, speravo in uno dei ragazzi più timidi, proprio di origini albanesi: ce l’aveva lui, la chiave, ma non se ne rendeva conto. Forse la poesia è anche questo: chiedere al lettore ciò che non sa di avere, dire qualcosa per lui. Ricordargli la propria umanità e permettergli di aderire a essa in modo più completo, appena superato l’imbarazzo e costruita l’intimità con l’altro (la relazione, lo spazio interpersonale costruito dalla parola viva).
“Ragazzi, la domanda che non avete saputo pormi è questa: ‘Dov’era, lei, quando ha scritto questa poesia?’. Pretendete il mio alibi, se ne ho uno. E la chiave segreta sta nel tenere insieme il testo. Tutti i significati delle parole, di ogni singola parola, si intrecciano fra di loro, si potenziano e arricchiscono vicendevolmente. In una poesia, che è un testo verticale, tutte le parole suonano insieme, come una melodia.
Ebbene, io al momento della scrittura di questo testo ero qui, in questa scuola, a svolgere il servizio civile: era il 1999… E adesso trovatela voi, la chiave. Associate tutti i dati e tornate, con l’ultima strofa, all’inizio… L’Albania… Pristina…”.
Dopo più letture, finalmente, la scintilla: “Ma Pristina è anche la capitale del Kosovo, e nel 1999…”. Eccola, la storia. La grammatica della poesia si attiva: un aggettivo diventa anche un sostantivo, un significato si mantiene pur confondendosi con un altro in un legame d’amore. L’intimità si coniuga con lo spazio circostante. A questo punto, come un gioco di domino, tutte le parole sono crollate a catena mostrando il loro senso. E la poesia si è aperta, almeno un poco:
Cara antica madre disfatta nel dolore, che sei anche la città che ora vacilla perché stuprata, costretta a guardare i propri figli offerti in sacrificio…
Proprio in questo mese, che è una promessa di rinascita, e proprio mentre ci apprestiamo a festeggiare il nuovo millennio, le bombe hanno ucciso i primi bambini. Mio padre cura il giardino, la matrigna compie il suo dovere perché così deve, questo è il compito della Natura, che uccide ma resta innocente, e nutre nuova vita con la morte stessa. E benedetta sia, allora, la Natura che non ci riconosce come figli suoi, a dispetto di chi, come te, madre, ha donato e ha visto sprecato il proprio dono: questa Colpa, o mia rosa violentata, ti rimarrà addosso per sempre. Così io spengo la televisione, distolgo lo sguardo dalla Storia e, impotente, rientro nella mia storia privata. Penso ai baci della mia sposa… E i bambini resteranno fissati per sempre in quel loro salto, rimarranno bambini per l’eternità. Mia cara madre, città violentata…
Ma anch’io sono parte della storia, assolvo il mio debito alla patria come mi è dato, mi occupo del mio piccolo popolo di ragazzini… Ivo, ora che è maggio e tra un po’ la scuola finirà e con essa il mio servizio civile, mi regala il suo libretto delle “Giovani marmotte”. E io lo leggo, nottetempo, come fosse un testo sacro e apocrifo. Se domani farà bel tempo, se non ci sarà da pensare alle bombe che cadono come grandine sugli innocenti, riprenderemo le nostre partite. Questa è la nostra storia, adesso: Mattia vuole la sua rivincita, ma con me gioca Luca, che ha fiato, e sulla sua stessa fascia Francesco non sa come fermarlo. Se invece questa nostra piccola storia dovrà fare i conti con la violenza dell’epoca, se davvero ci sarà cattivo tempo, io compio la mia magia: “Fuoco!”. Queste parole sono le mie armi. Così io compio il mio rito e cambio la storia e mio fratello, il mio angelo, torna qui con me. Recuperando l’infanzia che ci è stata negata, ci daremo un nome da pirata, per il nostro assalto.
Sì, fratello mio, mio angelo, travestiti per la missione che ci attende: andiamo in Albania a rapire tutti i bambini, per portarli qui, salvi, a fare festa davvero, in compagnia…
Anch’io chiedo sempre ai miei alunni cosa capiscono di una poesia dopo che gliel’ho solo letta anche se non ne ho mai scritte perciò non ho questa esperienza. Mediamente mi sorprendo per quello che riescono a cogliere e poi chiedo loro cosa vogliono che gli spieghi. Della tua poesia devo ammettere che non avevo capito molto prima della tua spiegazione. Per quanto riguarda l’imbarazzo del prof condivido il tuo pensiero. Mostrare che si è umani è comunque una grande lezione che spesso i ragazzi ricorderanno più di altro. Se un prof ha “carisma” e magari catalizza attenzione e passioni la sua umanità lo riporta alla dimensione della realtà
Cara Monica, mi sembra un ottimo suggerimento quello di chiedere agli alunni: “che cosa volete che vi spieghi?”. E’ una domanda semplice, ma va formulata e, ovviamente, sostenuta (creare il bisogno di sapere, prima di offrire un sapere). Quanto all’imbarazzo, questa mia esperienza rimane un punto apice, irripetibile. Non sopporterei di lavorare sui miei testi oltre questa misura che è già estrema, di sconfinamento.
Forse le poesie spiegate si spiegazzano.
Questa mi colpisce senza filtri, e da lettore, o passivo fruitore, mi sento parte a ttiva.
Bellissima, grazie.
Marina
Hai ragione, spiegare una poesia è terribile. La parafrasi, se è intesa come punto di arrivo, è praticamente un omicidio: trasforma un corpo vivo, che si muove e si sposta a ogni tentativo di avvicinamento troppo audace, in un cadavere. Eppure, a scuola, serve anche questo passaggio – purché la parafrasi venga intesa come il punto di partenza… Purché ci sia la magia di far tornare in vita e lasciar scappare il senso.