La voce del testo

Questo è il testo del mio intervento al convegno su Poesia e Canzone avvenuto nell’ambito dell’evento BorgoPoesia 2023, già ospitato sulla rivista “Atelier.”

Dover chiudere questa mattinata di lavori, dopo gli splendidi interventi di Giuliano Ladolfi, di Giovanni Cerutti e di Riccardo Ielmini, mi fa sentire come il professore dell’ultima ora. Il pranzo incombe, gli alunni sono già provati da lezioni intense. Anzi, considerando la perizia di chi mi ha preceduto, più che un docente mi sento in questo momento quello che una volta si chiamava “il bidello”. Bene, non mi dispiace il ruolo. Vediamo dunque, con semplicità, di limitarci a mettere un po’ di ordine in aula e di ribadire qualche considerazione generale, se ci riesce, per non disperdere il patrimonio di conoscenze accumulato. E ritiriamo pure nello zaino gli strumenti di lavoro previsti: il n. 7 della rivista “Atelier” (settembre 1997) che già si occupava del tema con vari interventi; i libri Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana (Interlinea, 2002), Scrivere con la voce. Canzone, rock e poesia (di Umberto Fiori, Unicopli, 2003), Linguaggio, musica, poesia (di Nicolas Ruwet, Einaudi, 1983), L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. Una riflessione su musica colta e modernità (di Alessandro Baricco, Garzanti, 1992). Siete fortunati, oggi non interrogherò.

Intanto, la sede di questo convegno ci richiama la figura di Achille Marazza, un intellettuale e un politico che ha creduto, come ci è stato ricordato, al valore della cultura come traino anche per lo sviluppo economico, e al progetto di una cultura popolare, da cui il lascito stesso della Villa per farne una Biblioteca a servizio della comunità. Ora più di allora, la scuola non è l’unica agenzia formativa. Oggi, gli studenti hanno infinite possibilità di apprendimento, oltre la scuola. Semmai, tra i banchi dovrebbero trovare aiuto per orientarsi, rispetto a questi mondi di sapere resi accessibili (non senza insidie), e imparare a imparare. Direi poi che, parlando di cultura e di canzone, abbiamo scoperto che l’alto e il basso sono intrecciati: il pop abbraccia e attraversa anche la cultura “alta” – ma forse questa distinzione da tempo non ha più senso, stando alle evoluzioni dell’arte e della letteratura degli ultimi decenni.

Quello che gli studiosi chiamano “il campo letterario”, a partire dal secondo Novecento e ancor più nei primi decenni del Duemila, ha cambiato più volte configurazione. Al suo centro, per prestigio e capacità di irradiare valore, c’era la poesia, che adesso è ridotta a una dimensione marginale. Al suo posto, si è insediato il romanzo. Ma basterà accorgersi di quanto la narrazione in senso lato abbia conquistato altri territori (dalle serie tv al giornalismo) per rendere l’idea delle ibridazioni in corso, degli abbattimenti dei confini tra generi (molti generi letterari, del resto, erano in origine considerati addirittura para-letteratura, mentre adesso sono dominanti). Attraverso quello che è stato definito l’editto di Dylan, ovvero il Nobel che gli è stato attribuito, ora possiamo dare per acquisita la presenza anche della canzone all’interno del campo letterario. Non ci importa qui creare un modello preciso, in cui ogni arte e forma espressiva viene esattamente collocata. Peraltro, direi con Bauman che pure in questo contesto viviamo una dimensione fluida, in movimento continuo. 

Restiamo nel fuoco del nostro discorso, che chiama in causa i rapporti tra poesia e canzone.

Concordiamo sul fatto che la canzone ha occupato progressivamente territori prima di pertinenza della poesia. Si tratta di un processo secolare. Le ragioni sono anche intrinseche allo sviluppo stesso della poesia: i poeti si sono trincerati nella loro riserva, si sono negati al popolo, hanno elaborato un linguaggio sempre più elusivo ed esclusivo: si parlano tra di loro. Questa è, suppergiù, la narrazione più diffusa, sulla sorte della poesia. In quanto tale è quantomeno sommaria, probabilmente in gran parte falsa, o comunque sospetta nei termini. Ma possiamo accettarla, perché non ci interessa ricamare sui confini e compiere le opportune distinzioni: ci serve una visione d’insieme.

Sostengo questa tesi: la poesia ha lasciato volentieri alcuni territori alla canzone, perché questi territori le risultavano ormai insidiosi. Si tratta dei territori della poeticità. Ciò che è poetico, ossia ciò che è riconoscibile attraverso i dati più stereotipati con cui ci si avvicina, da principianti, alla poesia, insomma ciò che ci sembra immediatamente ed evidentemente poesia, poesia in realtà non è. Anzi, la poeticità è una qualità che minaccia la vera poesia: il suo cascame, la sua banalizzazione. Il suo tradimento commerciale.

Comunque, abbiamo bisogno anche di poeticità, nella nostra vita. Non si accolga la distinzione come un approccio snob al tema. Alto e basso, lo abbiamo già detto, convivono, e noi siamo esseri umani, non asceti. 

Solitamente, ci immaginiamo la poeticità come la zona di approssimazione alla poesia, il luogo più adatto per la caccia di nuovi adepti. A scuola, nessuno si sogna di propinare troppo precocemente i classici più ardui e magari controversi. Così, capisco bene l’ottica degli organizzatori di questo evento, che prima della giornata odierna hanno pensato, sul tema del rapporto fra poesia e canzone, di coinvolgere le scuole. La canzone è già un’esperienza importante per i giovani; partire dalla canzone è una buona strategia per arrivare ad altro, a qualcosa di più evoluto. 

Non sono certo che i percorsi che conducono alla poesia siano sempre così logici e graduali. A volte ho addirittura il sospetto che troppa poeticità diventi una palude che impedisce il raggiungimento di esperienze estetiche più complesse, ma anche in questo caso dobbiamo restare entro termini generali. Del resto, la testimonianza di Riccardo Ielmini conferma la bontà di una simile tattica di avvicinamento a un pubblico nuovo e, dunque, adottiamola.

Uno dei termini che secondo me segnala il passaggio dalla poeticità alla poesia è l’evoluzione del concetto di voce

Nella canzone, la voce è ovviamente quella, fisicamente ben caratterizzata, dell’interprete del testo. E non è detto nemmeno che sia l’aspetto più importante: spesso, lo sappiamo, il cantante è un personaggio, uno showman, uno che, anche con il proprio corpo e la propria immagine, sostiene il brano. Inoltre, la voce, che ci porta il testo della canzone, lo abbiamo anche sentito nelle relazioni precedenti, si affianca alla musica. Diventa, talvolta, uno strumento accanto ad altri. A volte è dominante, a volte si fa trascinare dalla musica, semplicemente la asseconda.

In poesia, nella maggior parte dei casi non conosciamo la voce del poeta. Anzi, è proverbiale l’incapacità di tanti autori di interpretare degnamente i loro stessi componimenti. Anche questa vulgata ha le sue belle eccezioni, ma la prenderemo per buona. Qui ci interessa osservare che, quando parliamo di voce di un poeta, in fondo noi pensiamo alla voce del testo, alla voce che ci creiamo a partire dalle opere. 

Questa voce particolare ci ricorda che la lettura poetica è ormai per lo più mentale. Sarebbe interessante osservare, anzi, le conseguenze linguistiche di questa impostazione. Molti testi poetici sono concepiti per una lettura silenziosa e, anche in mano, anzi, in bocca a ottimi interpreti, potrebbero rivelare questa loro natura. Peraltro, si parla persino di corpo del testo: ulteriore riprova che l’aspetto performativo di una poesia è tutto demandato alla pagina e alle sue implicazioni iconiche. 

La poesia arriva ai suoi vertici da sola. Lungo il cammino, l’autore scompare.

In merito alla voce del testo, vorrei raccontarvi soltanto qualche aneddoto.

Con Giuliano Ladolfi non era raro confrontarsi sulla validità di uno scritto attraverso la lettura ad alta voce. Spesso ci capitava di interrompere lunghe sedute silenziose di analisi di poesie, inviate per concorsi, e, incerti, dopo l’ennesimo testo mediocre, sulla reale tenuta di alcuni versi, lo leggevamo agli altri per metterlo alla prova e sentire l’opinione altrui. Se gli altri non erano convinti, ecco che lo rileggevano, declamandolo in modo esagerato, da guitti maldestri, con enfasi eccessiva: una parodia della lettura alla Gassman (notoriamente, un pessimo interprete di poesia). Il testo veniva a quel punto, immancabilmente, barbaramente cestinato. Ebbene, una volta, nel suo studio, Giuliano mi tese una trappola. Con in mano una raccolta dal titolo Poeti a Pescocostanzo (con tutta probabilità l’antologia dei partecipanti a uno dei tanti premi della nostra Penisola), si mise a declamare una poesia, per suscitare la mia stessa intolleranza al poetichese, ossia alla poeticità di cui abbiamo detto. So che Giuliano vi dirà che i suoi intenti erano ben altri, ma non credetegli. Dunque, mostrandomi a tutta posta la copertina, cominciò la sua declamazione. Ma successe che dopo i primi versi la mia fronte corrucciata si stava spianando. Malgrado la lettura retorica e caricaturale, il testo stava suggerendo la sua voce. “Ma guarda che questo testo non è affatto male”, dissi ben presto. “Non vorrei esagerare”, azzardai alla fine, “ma io ci sento addirittura qualcosa di Mario Luzi”. Giuliano ci rimase di sasso. Si rigirò tra le mani il libro, controllò la copertina, tornò a fissarmi negli occhi. Mi passò il libro. Era, effettivamente, una poesia inedita di Mario Luzi.

Attenzione, questo aneddoto non serve per mostrare eventuali presunte competenze del sottoscritto. Chiunque, negli ambiti in cui ha raggiunto un certo grado di esperienza, potrà raccontare episodi simili. Un assaggio senza informazioni per indovinare un vino; l’ascolto di un attacco musicale per ricordare un brano; il tocco di un lembo per determinare la fattura e il costo di un abito. Quello che conta, nell’episodio, era che la voce del testo non ammetteva contraffazioni: era robusta e resistente. Voleva imporsi.

Secondo aneddoto. Qualche mese fa, sono intervenuto nella presentazione del libro di poesia di un’amica. La serata era organizzata in modo impeccabile. Le poesie erano recitate da una lettrice e accompagnate dalla musica. Ora, assecondare un testo poetico con una musica adatta è veramente difficile. Ma non entro nel merito dei risultati di quell’evento. Fatto sta che, quando, alla fine, ho proposto le mie riflessioni, a un certo punto, ho voluto leggere una poesia anch’io. Era piuttosto breve, la mia dicitura secca, perché le parole si stagliavano nette, affilate. Ma ecco che, sentendo che si stava leggendo una poesia, il maestro si sentì in dovere di precipitarsi alla pianola e di improvvisare un sottofondo. Situazione imbarazzante: mentre leggevo mi voltai comunque per supplicare con gli occhi: “No, la musica no!”, ma niente da fare, la missione del musicista era di salvare la lettura, e di far partire l’imprescindibile sottofondo. Temo che ancora oggi, appena capita che qualcuno in tv si metta a leggere dei versi, dalla regia lancino il sottofondo musicale. Ma no! Meglio il rumore, meglio l’interferenza, che la cattiva interpretazione. La musica che si carica sotto le parole è infatti, sempre, una musichetta romantica. In automatico, si innesca la presunzione della poeticità. Si impone l’equivoco. E non si ascolta la voce del testo. Puoi aver scritto versi di indignazione civile, ma se è una poesia ci deve essere il romanticume, il poeticume, il dolciume. No, no, no. Ecco, se questo mio breve intervento raggiungesse soltanto il risultato di inibire tale automatismo, sarei già felicissimo. 

Detto ciò, a me è capitato persino di leggere con accompagnamento musicale del tutto improvvisato, con una fisarmonica. E gli esiti sono stati molto interessanti. Ma è necessario sciogliere l’equivoco della poeticità e accettare, in casi del genere, tutti i rischi dell’esperimento.

Terzo e ultimo aneddoto, con il quale torniamo decisamente alla canzone. Una sera, mentre mia moglie e i figli seguivano una trasmissione, suppongo X Factor, a un certo punto sbucai dal mio studiolo, come un alieno. Di passaggio in salotto, ascoltai l’esibizione di un giovane, tra i favoriti della gara. Uno dei miei figli mi chiese di ascoltarla, perché secondo lui sarebbe piaciuta anche a me. (Tralascio di portare alla luce gli impliciti di una simile affermazione). Non era malaccio. Pop molto orecchiabile, di immediato effetto. Facilmente consumabile. Ho detto che sì, era carina. (Ah, la carineria: altra maschera della poeticità! Altra consolazione. Ombra e risarcimento per non aver pienamente raggiunto la bellezza…). Mi è scappato di dire che però “sembrava troppo Tiziano Ferro”. Ora, si sappia una cosa: io di Tiziano Ferro non saprei citare nemmeno un titolo, lo giuro. So chi è e ho ascoltato qualche brano perché, volente o nolente, oggi certe voci e certi personaggi te li tirano addosso. Insomma, non si può non sapere chi è Tiziano Ferro, anche se, come me, in pratica non lo si sa. Io ne risconocerei a fatica la faccia. Forse ho visto un suo videoclip girare sulla tv del mio parrucchiere, in qualche momento di attesa. Niente di più. Sapendo della mia ignoranza, mio figlio ha sbottato. Mi ha dato del presuntuoso e mi ha ingiunto di tornare a rintanarmi del mio studio, tra i miei libri, perché finché si trattava di esprimere un giudizio di letteratura, ok, ma che adesso pretendessi pure di essere diventato un critico musicale… Non aveva tutti i torti, e lui doveva difendere il suo concorrente preferito, anche da suo padre. A questo punto, per esigenze narrative dovrei scrivere di essermene andato con la coda tra le gambe, ma in verità ero già da tempo col pensiero sulle mie faccende letterarie e non aspettavo altra scusa per essere licenziato.

Qualche giorno dopo, mio figlio Samuele mi cercò e mi disse che, insomma, sì, il cantante di quella sera, ricordavo?, ecco, proprio quello, non aveva vinto, ma era arrivato secondo, e il giorno successivo, in una certa trasmissione, era stato intervistato da Morgan, avevo presente Morgan? (Eh, come no, anche uno che vive in mezzo ai libri oggi non può non sapere chi è Morgan). Ecco, dunque, Morgan, proprio lui, gli aveva fatto i complimenti, gli aveva spiegato che aveva tutte le carte in regola per ottenere successo e portare avanti una bella carriera, però, come dire?, doveva trovare una voce un po’ più sua, perché al momento, sì, a dire il vero, al momento certi passaggi rimandavano un po’ troppo a… Tiziano Ferro.

Ai fini del nostro ragionamento, l’ondata di puro compiacimento paterno che m’investì non è rilevante. L’episodio mi serve invece per mettere a fuoco un pensiero che, come docente, ritengo imprescindibile. A scuola si compiono spesso strani riti che sembrano non avere alcuna connessione con il mondo. Pensate, si studia persino la grammatica. Non vi basta? Oso dire che si leggono ancora poesie. Si fa persino storia della letteratura! E, in cinquant’anni di vita, non saprei citare l’esempio di una sola persona, fuori della scuola, che abbia trovato lavoro o abbia goduto di particolari vantaggi perché sa distinguere un complemento di modo da un complemento predicativo, figuriamoci se gli è stato utile saper riconoscere un sonetto. E allora, perché si compiono questi riti? Come mai si studiano ancora la grammatica o la poesia? Perché occorre mettere la cera e togliere la cera, per imparare il vero Karate (almeno i papà boomers coglieranno la citazione: lasciamo che i figli non capiscano. Hanno ancora tanta strada da fare). Perché, attraverso la grammatica, si impara a pensare. Perché capire il congegno sofisticato di una poesia ci permette di leggere le sfumature della voce, di svelare gli impliciti dei messaggi più subdoli, di disinnescare le intenzioni occulte. La poesia aiuta a comprendere noi stessi in relazione al mondo, preservando così la nostra libertà. 

Capire la voce del testo ci permette di restare umani, e di evolvere per passare dal semplice al complesso, senza cadere in frantumi.

Spero anch’io, quindi, che i vantaggi espressivi della canzone ci spingano ad andare oltre, fino a cercare, nel silenzio, la voce del testo, che è, paradossalmente, una voce di potente umanità, anche se è assolutamente impersonale.

Siamo in chiusura. Terminata la lezione, potete riaccendere i vostri smartphone e cercare una simpatica canzonetta di Niccolò Fabi: Il negozio di antiquariato. Canticchiamola insieme: “Non si può cercare un negozio / di antiquariato in via del corso. / Ogni acquisto ha il suo luogo giusto / e non tutte le strade sono un percorso. /  Raro è trovare una cosa speciale / nelle vetrine di una strada centrale. / Per ogni cosa c’è un posto / ma quello della meraviglia è solo un po’ più nascosto. / […] / Non si può entrare in un negozio / e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo. / Se la vita è un’asta sempre aperta / anche i pensieri saranno in offerta.”

Forse la canzone ci trascina lungo il corso principale, ma può davvero aiutarci a svoltare l’angolo, inseguendo un dettaglio, alla ricerca di qualcosa di più prezioso, di più sofisticato. Aprire un negozio di antiquariato sulla via principale, sarebbe un suicidio. Lasciamo la poesia ai margini. Ma ricordiamoci che è sui margini, spesso, che fioriscono i fiori più rari. 

A noi la scelta. Ci bastano i pensieri all’ingrosso? Ci bastano le emozioni elementari? Oppure vogliamo esplorare, cercare i confini, liberarci dalla finta bellezza che ci propinano secondo gli schemi commerciali? La poesia, da secoli, ha iniziato il suo viaggio. Ha ceduto interi quartieri ai grandi centri dell’immaginario universale, dove risuonano perennemente i soliti tormentoni estivi o natalizi, a seconda della stagione.

Siete stanchi della solita musica? Ce n’è un’altra che suona, quasi impercettibile. E c’è una voce che vi chiama. Ma occorre fare silenzio e acuire i sensi, per sentirla.

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