Memoria e profezia
APPUNTI
L’opera ruota attorno al doloroso enigma della memoria, come se soltanto il punto in cui si coniugano biografia e storia, tempo dell’uomo e tempo della natura, potesse giustificare la richiesta di senso che muove la scrittura. Se quel punto esiste, allora la vita ha un centro, un ritmo profondo che pulsa sotto il caos apparente.
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Come a dire: la nostra vita non è altro che un viaggio di cui abbiamo coscienza imperfetta, che si compie nel cuore dei defunti; noi andiamo incontro al futuro come frutti del passato, con la nostra eredità perfetta e incompiuta insieme.
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La valenza profetica della scrittura si rovescia in memoria (non più ego-centrata) di ciò che è già avvenuto, anzi, è profezia in quanto memoria dell’evento che realizza proletticamente ciò che significa. «La rivelazione del futuro» – ha detto Asor Rosa, «è […], innanzitutto, contemplazione intensissima, straordinariamente concentrata del passato».
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Da qui, per il poeta, l’intenzione di una suggestiva ipotesi di perenne riscrittura di tutta la tradizione, di mascheramento e contemporaneamente di rivelazione di sé in figure apparentemente fittizie, ma che in realtà hanno consistenza nella memoria collettiva della civiltà occidentale.
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Le varie voci che compaiono sul metamorfico teatro del Tramonto Occidentale rappresentano infatti il viluppo di tutte le “energie” ancestrali; la ricerca del nome, ovvero della nuova identità, non è un dramma personale, ma cosmico. Molte poesie sono riflessioni impersonali, altre espressioni di un attante più o meno definito, ma anche quando sulla scena emergono le dinamiche della coscienza individuale, la prima persona si rivela in ultima analisi un pretesto, vale a dire persona nel senso latino di maschera, dietro cui cercare il volto dell’umanità e le sue incarnazioni contingenti, anche mitico-simboliche.
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Il viaggio orizzontale si trasforma dunque sempre in un viaggio verticale, di discesa verso il passato. La condizione più tipica del poeta è una lenta discesa nel sonno, che segna la conquista di uno stato percettivo aperto al baratro della memoria – che, ricordiamo, non è mai memoria egoica, individualista, ma memoria che filtra attraverso le esperienze personali i ricordi della specie, facendo riaffiorare archetipi, nodi esistenziali comuni: il sonno è qui per esempio dichiaratamente la frontiera «che unifica i vivi e i morti».
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Il ritorno, si dovrà compiere naturalmente con la riconquista del ricordo che si proietta “in avanti” e ci trascina, ci traduce con la forza del suo richiamo che racchiude il segreto della nostra origine, il senso del movimento della vita.
Senza nostalgia, il poeta volge il suo sguardo in questa direzione, in avanti.
Tale orientamento gli impedisce di indulgere in ripiegamenti elegiaci per la natura transpersonale della memoria cui egli fa appello.
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Questa idea di memoria non ci chiude, infatti, nella tomba dell’io, ma ci costringe a uscirne da una parte riattingendo all’eredità dalla storia, dall’altra proiettandoci verso il futuro, chiedendoci proprio di diventare responsabili del ricordo, tanto da dover accogliere anche la missione di dare voce ai defunti, proseguendo la loro opera. Tale memoria non è dunque mimesi spenta del già accaduto, ma ripresa del filo interrotto dei gesti che escono, incompiuti, dai neri meandri della storia, come voci dal buio che possono riprendere a parlarci, a risuonare direttamente in noi che le reinterpretiamo liberamente rispondendo al loro implicito appello.
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Forse solo il poeta sa congiungere le due sfere dell’oblio e della coscienza, della memoria ancestrale e onirica e del presente.
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