L’imbarazzo del prof
(L’immagine in evidenza di questo articolo è un disegno di Marta Ferro)
A scuola per anni non ho mai parlato apertamente della mia attività letteraria, né in classe né con i colleghi. Non che fosse un argomento tabù, ma di fatto non ho mai raccontato nulla. Qualcuno, ovviamente, finiva per intercettare qualche notizia, ma un’allusione di tanto in tanto scappava come una scintilla perdendosi nell’aria e tutto finiva lì. Qualcuno un giorno addirittura appese in bacheca in corridoio alcuni miei testi apparsi in rivista, con tanto di fotografia. Ci fu chi mi fece notare, perfettamente in buona fede, quanto mi assomigliasse, il poeta. Del resto il nome, a chiare lettere, non era il mio.
Con il tempo, però, almeno tra i colleghi di più lungo corso, la consapevolezza della mia attività e del mio nom de plume si è consolidata. Tuttavia, soltanto pochi, due o tre, in rare occasioni mi hanno chiesto qualcosa di più specifico. Con una persona soltanto sono entrato nel merito più spesso, a partire da riflessioni e da scambi di opinioni intorno alla letteratura contemporanea da affrontare agli ultimi anni del liceo. Forse qualcuno ha pensato che il mio riserbo fosse una buona ragione per frenare la curiosità. Trovo comunque abbastanza normale che i miei colleghi ignorino i miei libri o li abbiano, al più, sentiti nominare.
Comunque, negli ultimi anni mi è capitato in qualche classe di uscire allo scoperto. All’improvviso. Forse l’ho fatto per trovare un ultimo espediente buono per sorprenderli, per spezzare qualche momento eccessivamente inerte. Così è stato recentemente nell’attuale Quinta Ginnasio.
“Oggi, visto che dovremmo trattare la ballata, analizzeremo una mia poesia”.
Silenzio.
“È un testo particolarmente difficile. Non preoccupatevi del valore, non è importante capire se è una bella poesia oppure no. La utilizzeremo per cercare di capire come funziona, o come può funzionare. Mi presto all’esperimento per darvi un vantaggio straordinario: potrete usarmi per svelare ogni scelta espressiva, per sviscerare qualsiasi aspetto vi interessi.”
Dopo averli sollecitati senza troppi risultati, qualcuno infine ha affrontato il problema di petto: “Ma è imbarazzante!”. La mia risposta, in sintesi, è stata questa:
“Certo che è imbarazzante. Ma credo lo sia più per me che per voi. Però, vorrei dimostrarvi, più con i fatti che con le parole, che questo sentimento è profondamente umano. Non va confuso con la vergogna: non nasce da un’accusa, non ci fa sentire in colpa. L’imbarazzo, se attraversato, diventa un’occasione di crescita fenomenale, perché è il movimento che mette a nudo la nostra umanità. Nascere è imbarazzante.”
Ancora titubanti, si sono comunque via via calati nel gioco delle parti e hanno affrontato la poesia che sto per trascrivere (ricordo che altri poeti mi fecero notare senza troppe difficoltà, sul web, che a detta loro proprio questa poesia era francamente brutta, lessicalmente sgradevole, incomprensibile e così via). Mi rendo doppiamente spudorato, prima in classe e adesso direttamente sul web, spiegando me stesso, o meglio raccontando questa esperienza di esegesi e autoesegesi, perché credo sia stato un momento altamente educativo. Con questo termine indico qualcosa di più generale e di più importante rispetto al momento meramente istruttivo.
Scrivere poesie, e arrischiarsi a pubblicarle, è profondamente imbarazzante. Ogni mossa per tentare la costruzione di uno spazio di intimità lo è. Sui social oggi quasi tutti evitano questo sentimento, lo esorcizzano nei selfie. Anche quelli che pubblicano poesie – e sono moltitudine – non cercano davvero la lettura, si offendono alla minima osservazione. Contano i “mi piace” e buttano giù i loro selfie di parole.
Ma anche i poeti più sofisticati e consapevoli evitano l’imbarazzo. Il Novecento ha insegnato a molti a evitare l’io, a fuggire dalla lirica. Ma il problema del selfie non è il soggetto, è il contesto, la posa falsificante.
Si scrive in versi proprio per esporsi e nello stesso tempo proteggersi. Il dire poetico è un pronunciare le cose spingendole un po’ oltre, lasciandole scappare dalle griglie dei concetti. Il significato è il corpo morto da sezionare e scomporre, il senso è il corpo vivo e in movimento, imprendibile. La poesia è senso, non significato.
Preparati così i miei lettori, e me stesso, ci siamo messi a leggere:
Ballata del mese di maggio
Pristina rosa, rosa dolorosa,
stelo ubriaco e vulva spappolata,
dei figli che tu spandi
ne farò marmellata.
Così i bambini saltano più in alto,
festeggiano il millennio
con giochi pirotecnici. Papà
scende sempre in giardino
e la matrigna nutre le sue piante:
la natura matura tutti i semi
col concime più nutriente. Ventre
sempre benedetto, mentre la puerpera
che sperpera i suoi doni
non verrà perdonata.
Rosa violentata. Sogno la bocca
della mia sposa e spengo la TV.
I bambini dal cielo
non scenderanno più.
Pristina rosa, rosa dolorosa
stelo ubriaco e vulva spappolata,
dei figli che tu spandi
ne farò marmellata.
Ma il debito alla patria non è mai
saldato e dal mio piccolo
popolo, Ivo mi ha lasciato in pegno
le giovani marmotte.
Per ciò di notte leggo. E se la grandine
si allontana domani farà bello,
si gioca a calcio ancora tutti insieme.
Tia a perdere non ci sta più, ma Luca
corre più forte e Cisco
sulla fascia non tiene.
E se invece l’alba viene bagnata:
fuoco! e l’angelo custode è già qui.
Sognerò mio fratello
e un nome da pirata.
Angelo bello, angelo fratello,
truccati presto, andiamo in Albania.
Si va a rapir bambini,
si salta in compagnia.
Domani racconterò come i miei studenti hanno reagito. Se, nel frattempo, qualche lettore volesse entrare a far parte dell’esperimento, ne approfitti per esprimere liberamente le proprie impressioni nello spazio dei commenti. Unica regola: essere sinceri, non cercare di compiacere l’autore (che non esiste più, se si lascia esistere il testo), non cercare di barare con il proprio imbarazzo. Quando non si capisce, non lo si deve nascondere. Quando sorge una domanda, occorre esprimerla, nel modo più preciso. Quando qualcosa ci confonde o spiazza la nostra aspettativa, i nostri gusti, bisogna lasciarla essere, perché ciò che eventualmente potrebbe accadere, a seguito dell’incontro tra il soggetto che legge e il testo, accada.
Finalmente un poeta che si presta con grande coraggio al massacro della definizione, che accetta l’imbarazzo reale di discutere una sua poesia pur sapendo, io credo, che la poesia è una cosa e che quanto scaturisce dalla sua discussione sarà sempre altro.
Mi è sempre parso che discutere una poesia possa risultare molto simile a spiegare il significato di una barzelletta. Ma che importa? Questo imbarazzo e questa vergogna di cui parla ci tengo a dire che li trovo preziosi come valori in sé e non solo perché in nessuna parte dell’articolo, o dell’esperimento, trovo la benché minima traccia di un suo autocompiacimento. Qui entra in gioco il poeta che si fa flagellare, che accetta il rischio del peso misterioso di questo dire, molto distante dalla prosa, che qui, da qualche parte, le viene reputato un andamento orizzontale e non verticale come quello proprio della poesia. Così io mi butto subito in questa ghiotta occasione per chiedere direttamente all’autore, magari non tutto, ma un elemento soltanto, che è tanto per me. Mi affligge, in alcune poesie, delle poche che ho letto a dire il vero, la scelta di alcuni a capo. Cioè su quali basi, in questa poesia specifica per esempio, lei ha interrotto un verso e lo ha proseguito in quello successivo. Desidero capire. Vado ai versi specifici ( non tutti, ma il senso mi pare chiaro) tenendo presente, quale unità di misura della mia comprensione, che il ritornello iniziale, se si chiama così, le prime quattro righe in parole povere, vanno a capo come ci andrei io se le avessi scritte io.
–
…col concime più nutriente. Ventre
sempre benedetto, mentre la puerpera
che sperpera i suoi doni
non verrà perdonata.
–
ecco, perché la parola Ventre e poi a capo?
perché non:
…col concime più nutriente.
Ventre sempre benedetto
mentre la puerpera che sperpera i suoi doni
non verrà perdonata.
o ancora:
…Ma il debito alla patria non è mai
saldato e dal mio piccolo
popolo, Ivo mi ha lasciato in pegno
le giovani marmotte.
perché a capo dopo “mai” e dopo ” piccolo”?
perché non:
Ma il debito alla patria non è mai saldato
e dal mio piccolo popolo
Ivo mi ha lasciato in pegno
le giovani marmotte
etc.
La mia incomprensione per questo aspetto, davvero, mi affligge da anni quando lo trovo. Mi viene da fare un taglia e incolla. Proprio non so come affrontare quell’ultima parola che rimane come sull’orlo di un precipizio. Non so se leggerla come una pausa, non so se è per darle rilievo, ho ovviamente pensato al ritmo, ma davvero e cosa cambia se la metto a capo? Non ottengo un verso “compiuto”? E’ più banale forse? e perché? E’ forse un problema di impaginazione, cioè esteticamente ci si può trovare con una riga più lunga e sproporzionata rispetto alle precedenti o a quelle che seguono? Se anche così fosse, e sarebbe comprensibile, perché lo stesso preferire questa parola che di fatto è un’immagine spezzata?
Se fosse in vita Montale, che mi piace abbastanza, e ne avessi la possibilità come quella che mi offre lei adesso, gli chiederei anche a lui il motivo di questa scelta che di tanto in tanto trovo irritante. Per esempio nella poesia Fumo che io, accettando anche di essere deriso e compatito per osare tanto, riscriverei in altro modo, e non tanto perché mi piaccia di più, ma perché, in alcuni punti, mi pare non perda nulla, o forse, barbaro come sono, non mi accorgo della differenza che gradirei mi chiarisse se le fosse possibile.
Montale, Fumo:
Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando, comprando giornali innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una
sottrazione. Scrutavo le carriole
dei facchini se mai ci fosse dentro
il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo.
poi apparivi, ultima. È un ricordo
tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita.
–
perché non:
Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia.
Passeggiavo tossicchiando
comprando giornali innominabili fumando Giuba
poi soppresse dal ministro dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione
oppure una sottrazione.
Scrutavo le carriole dei facchini
se mai ci fosse dentro il tuo bagaglio
e tu dietro, in ritardo.
Poi apparivi, ultima.
È un ricordo tra tanti altri.
Nel sogno mi perseguita.
–
Grazie.
Caro Massimiliano, direi che possiamo darci del tu, se a te non dispiace. La domanda che poni è fondamentale e nella sua semplicità chiama in causa davvero molteplici ragioni. Se mi permetti, vorrei risponderti un po’ meglio in qualche articolo, che scriverò quanto prima, appena ne avrò la possibilità. Ti dirò subito un paio di cose, comunque.
Intanto, tecnicamente, la poesia che oscenamente vado a squartare pubblicamente è composta di endecasillabi e settenari. Non sono versi classicamente perfetti: ce ne sono alcuni con accento in quinta posizione, per esempio, e si possono trovare altre piccole forzature metriche qua e là ma, per rendere l’idea, ti dico che sono (almeno per me, per i miei orecchi) il modo moderno di interpretare il repertorio classico. Ovviamente, non ho del tutto risposto alla domanda, perché ribadire una ragione così esterna, puramente metrica, non esaurire il senso, il bisogno di concepire un testo entro quella misura specifica, quella gabbia. Tuttavia, io stesso mi chiedo: perché i pittori scelgono (quasi) sempre quadrati o rettangoli per contenere le loro opere? Cercherò di svolgere meglio il ragionamento, comunque.
Altra, e per ora ultima, riflessione con cui comincio a risponderti è questa (è più sottile, più vaga, ma non tutto è sempre razionalizzabile): perché il passo di una persona è diverso (nella falcata, nel ritmo, ecc.) di un altro? Suppongo tu mi abbia inteso, nella provocazione. Uno scrittore sperimenta, si educa, si ribella alla propria educazione, continua insomma a cercare le proprie misure e rifondarle, dopo averle magari sfondate – ma in tutto questo procedere c’è in qualche modo un suo fiato naturale, un suo modo di sentire l’energia che passa attraverso il proprio apparato respiratorio e fonatorio. Che sia goffo, diverso, elegante, sgraziato, difettoso, particolare o del tutto privo di originalità, in fondo è secondario, rispetto all’accorgersi che è, in definitiva, il suo specifico timbro, la sua voce. Non ti è mai capitato di riconoscere in quel modo particolare di porsi di una voce qualcosa che sì, sarà anche diverso dal tuo modo di parlare, ma ti sembra davvero giusto, conforme alla persona che, attraverso quella voce, si è esposta? Sono gli amabili difetti di uno stile.
A questo punto, comunque, bisognerebbe davvero confrontarsi e mi piacerebbe risponderti ricorrendo a qualche registrazione vocale. Chissà, magari lo farò. Intanto, grazie per essere entrato nell’esperimento.
Io credo che in un mondo dove si ostenta la propria bravura, fare due passi indietro e parlare di sé e di ciò che si scrive al momento giusto non sia sbagliato. Lo trovo discreto e sensato. Sbandierare ai quattro venti non è sinonimo di apprezzamento. C’è a chi non importa nulla degli scritti altrui.
Il punto è proprio questo. Qualche volta parlare di sé è pura vanità, qualche volta un passo necessario per far comprendere che si sta trattando qualcosa di vero, che ha pertinenza con la nostra vita. Qualcosa di personale, che ci riguarda personalmente.