Rompere lo Specchio (in fraterna vigilanza). Lettera aperta a Davide Brullo
Caro Davide,
se scrivi qualcosa su di me, un dato è certo: non sei credibile. Lo stesso vale, ovviamente, per quello che io scrivo di te. Ci vogliamo bene e ci stimiamo e, purtroppo, a queste latitudini ciò si tramuta in una prova provata di partigianeria preconcetta. Peggio: siamo anche due irregolari, politicamente scorretti e tendenzialmente solitari, quindi apparteniamo alla razza peggiore: i cani sciolti che fanno pericolosamente branco, le rare volte che. Mi tocca pure ribadirlo in tutte le occasioni, per rovesciare il problema (ci pensi?, se in Italia le raccomandazioni fossero “pubbliche”, ovvero chi promuove qualcuno ci mettesse la faccia e si giocasse davvero la propria credibilità, il paese entro un paio di generazioni si sarebbe rigenerato).
Questa volta, però, compirò un passo in più. Mentre a distanza ci annusiamo felici come belve in modo più continuo, ora che anche tu abiti ufficialmente uno spazio nella melassa del web (ma perché “uno” spazio? Tu hai scelto di abitare addirittura un’ideale Pangea), dovremo dimostrare anche agli altri là fuori (reali o presunti) di che cosa è capace questa stima reciproca. È giunto il momento, caro Davide, di combattere apertamente: lo intuisci tu stesso, lo affermi quasi incidentalmente. Ti invito pertanto, ogni volta che avrai la bontà di chiamarmi in causa, ad azzannarmi, a saggiare la mia resistenza. Io prometto di fare altrettanto. Giacché non siamo nati per lisciarci il pelo a vicenda, ma per far leva l’uno dell’altro, per metterci alla prova, per concederci la morte e l’eventuale rinascita.
So che stai capendo benissimo quello che intendo. Sei uno dei pochi rimasto fedele (forse l’unico) a quel “farci la guerra per amore” che doveva diventare il motore dell’opera comune.
Per me tu sei, attualmente, il solo avversario degno. Ma questo non significa che siamo talmente idioti da sentirci superiori agli altri: di giganti ce ne sono, eccome, anche nel nostro tempo di nanetti da giardino (e per fortuna sulla tua Pangea ne segnali spesso il passaggio) e noi al loro cospetto siam pargoli con tanto di latteo rigurgitino. Tu però, per me, sei un avversario degno anche, semplicemente, perché sei uno dei pochi che è in grado di colpirmi, di rispondere al mio attacco. Se insomma mi permetto di spernacchiare Lo Specchio mondadoriano, io per primo avverto il disagio della sproporzione. Capisci? Butto giù dalla torre persino Ungaretti, ma se lo faccio è perché mi so fuori dall’inquadratura in cui gli altri, invece, mi infileranno: non sono il povero pitocco che alza la voce e cerca il bersaglio grosso apposta per godere di luce riflessa. Ho già doppiato le mie frustrazioni: sono libero. Semplicemente: osservo e prendo atto.
Dunque, ti considero alla mia altezza, perché capisci tutto questo. Della credibilità ce ne infischiamo. Siamo oltre i commerci mondani, abitiamo la foresta infida, a nostro stesso rischio. Appena riconosciamo in una superficie riflettente il nostro volto, lo distruggiamo, per restare liberi. Scriviamo dando corpo al nemico, generiamo opere che ci tagliano il fiato. Abbiamo paura di noi stessi, perché intuiamo le tentazioni che a ogni passo ci solleticano la nuca. E, pur diversissimi nello stile, abbiamo capito questo, l’uno dell’altro, e tanto ci basta per sentirci fratelli.
Bene, veniamo al dunque. Anzitutto, lascia che tutte le prime righe di questa lettera cadano nell’oblio. Rompiamo subito lo specchio. Non costruiamoci alcun mito, non abbiamo il privilegio di ri-conoscerci. Non siamo lupi, non ci sono foreste infide. Tutto quello che ho scritto è già diventato falso. Quello che conta e che darà un senso a tutto è ciò che deve ancora diventare parola: conta solo il verso successivo, la capriola esistenziale che seguirà l’a capo.
Al fondo di questo dirupo, senza sapere chi sono, rileggo l’immagine che tu mi restituisci (per comodità, riproduco qui sotto le righe con cui introduci un paio di miei articoletti):
Parere mio. Saldo su rocche oggettive. Marco Merlin è il critico letterario – meglio, il bombarolo poetico – più intelligente del millennio. E Andrea Temporelli – che è il lato oscuro (o quello luminescente, non l’ho capito, di certo quello ‘marziale’) di Marco Merlin – è il poeta più colto e incompreso di questa fetta di secolo. Temporelli, il poeta, ha pubblicato Il cielo di Marte (Einaudi, 2005) e Terramadre (Il Ponte del Sale, 2012), poemetto di conturbante nitore, oltre a un romanzo, Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, 2015), che è un abisso feroce, meriterebbe Strega, Campiello e Viareggio tutti assieme, non fossimo il paese di intellettuali leccaculo e paraculo che siamo. Merlin è il cofondatore della rivista Atelier, ha scritto un bel po’ di roba critica, dissezionando i poeti di ieri e di oggi con anatomica severità (esempio: Poeti nel limbo e La tentazione del metodo, ma a me piace tanto Nodi di Hartmann, libri comunque così necessari da essere eretici nell’accademia dei tronfi), e con un paio di collane editoriali (‘Parsifal’ e ‘Macadamia’) ha pubblicato alcuni dei più interessanti poeti ‘nuovi’. Detto questo, di Temporelli/Merlin non si butta via niente perché tutto trasuda intelligenza polemica e vivacità estetica. Ora ritiratosi nel bunker del sito personale, Pangea ha deciso di fare la lotta con lui, da alpestri esploratori dell’impossibile, là dove l’altezza tronca il respiro in gola, costringe a comprimere le convenzioni e a imparare la levigata levità dei falchi. Insomma: ogni tanto condivideremo alcuni contributi. Partiamo con una stupefacente ‘stoccata’ inferta alla collana nobile della poesia italiana, ‘Lo Specchio’ Mondadori. Con consecutiva pars costruens. (d.b.)
Ebbene, fratello mio, sei oggettivamente un cretino se pensi che possa cadere nel trabocchetto iniziale. So bene che l’esagerazione è una strategia giornalistica utile, oggidì, per tentare di far passare qualcosa, nel frastuono generale. Dunque, servirà pure al lettore l’amorosa iperbole con cui mi passi da una parte e poi trapassi dalla parte opposta, nome e soprannome, critico e poeta. Ma non pensare minimamente che il miele avvelenato che mi offri mi attiri. Le tue definizioni sono macigni lasciati cadere sul mio capo, ma io non accetto queste responsabilità e mi scanso. Ho avuto la fortuna di pubblicare per Einaudi: non sono un poeta incompreso. Sono semmai un poeta che non si autopromuove, per cui come mi è capitato di entrare dalla porta aurea ne sono ugualmente uscito. Con totale naturalezza. Capisci? Ho lasciato che tutto accadesse. Si aspettavano da me altro, oltre la scrittura. Io invece sono totalmente irresponsabile rispetto alla gestione delle mie opere; cerco, semmai, di rispondere personalmente di ogni parola che scrivo – solo di quello.
Forse è per questo che mi attribuisci la parte del porco, di cui alla fine non si butta niente: cerco effettivamente – anche se non è mai abbastanza – di contenermi, di buttare via da solo ciò che non mi pare essenziale. E sia: altro che falco. Grufolo nel fango. Tutto quello che ho scritto e che tu elenchi potrà forse un giorno acquisire un senso se mi sarà dato di dare una forma, per via di scrittura, a ciò che in nuce m’ingravida da sempre, e che a tratti mi sembra di indovinare. Altrimenti, per favore, evita a me e a te stesso ogni patetico tentativo di riscattare le mie opere. O esse parlano da sole, o trovano il loro tempo, oppure marciscano, diventino humus buona per chi verrà.
Con il romanzo, in ogni caso, mi hai stanato, mi hai costretto ad andare oltre (in un momento in cui avrei probabilmente ceduto definitivamente al silenzio) e adesso con questa tua epigrafe, fintamente innocente, buttata lì di passaggio come una strizzatina d’occhi nel viavai del tuo sito, mi provochi definitivamente. Molto bene, accetto la sfida. L’idea di deluderti, di non essere all’altezza della tua stima, mi obbliga alla reazione.
Anch’io, dunque, pescherò dalle tue pagine qualche ciocco fiammante dei tuoi, prima o poi, ma sappi che non lo farò per celebrarti. Lo farò, semmai, per costringerti apertamente a restare parimenti responsabile di quello che tu osi scrivere. A me, quel ciocco, servirà per stendere le mani al caldo per un istante, ma solo per riprendere quanto prima il viaggio.
Insomma, caro Davide, non tentarmi mai più con le tue lusinghe. Esploriamo il dilemma di questa assurda, non credibile fratellanza. È giunto il momento. Non diamoci consolazione. Non mettere davanti ai miei occhi altri specchi. Io sono il tuo nemico e la tua salvezza, come tu lo sei per me. Se sei, come sei, un poeta vero, affila i tuoi versi sui miei. Non ho altri – vicini, viventi – con cui poterlo fare.
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