Una catabasi purificatrice (di Giancarlo Pontiggia)
Leggo solo ora questa recensione di Giancarlo Pontiggia, apparsa sulla rivista “Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica”, n. 86, Nuova Serie, a. XLIV, luglio-dicembre 2023, pp. 138-140. L’amore e tutto il resto chiude una prima fase della mia ricerca letteraria: ora il “vissuto” potrà finalmente sciogliersi nel “flusso delle forme e delle storie”, per dirla con le parole stesse di Pontiggia. Bene. Mi sembra che questo intervento critico sia il sigillo perfetto del percorso compiuto, per cui lo ripropongo interamente qui.
L’amore e tutto il resto, recensione di Giancarlo Pontiggia
Al suo terzo libro, Andrea Temporelli continua a restare il poeta che abbiamo conosciuto fin dalle prime apparizioni in plaquette, riviste e antologie: un poeta di scelte rigorose e appartate e di meditate ragioni critiche, aperto al flusso delle forme e delle storie, eppure profondamente concentrato sul proprio vissuto.
Ci si interroghi di nuovo sullo sdoppiamento dei nomi assunti: Marco Merlin, che è il nome anagrafico, al quale è stato assegnato fin dalle origini un compito di natura esclusivamente critica, spesso aspra, polemica; e Andrea Temporelli, che è invece il poeta, misuratissimo e interiorizzato, dei versi che leggiamo. E lo è non nel segno di un distanziamento dalla propria avventura umana, ma al contrario di uno sprofondamento nelle proprie origini familiari, se è vero che i due nomi rinviano alle figure del fratello (Andrea) e della madre (Temporelli), entrambi scomparsi precocemente, e che continuano a popolare fin dagli esordi il suo immaginario. Una scelta radicale, che il poeta testimonia fin dai titoli dei due libri precedenti: Il cielo di Marte (2005), dove nel nome del dio è già incorporato quello di Marco, e il suo destino di combattente; e Terramadre, che sposta la prospettiva dal piano celeste a quello terrestre nel segno della presenza materna.
Ma Temporelli è poeta singolare, nel panorama poetico attuale, almeno per due ragioni, che riguardano sia le scelte compositive dei singoli testi che quelle di costruzione e di realizzazione delle raccolte. Basterà guardare all’indice di L’amore e tutto il resto per constatare come la metà delle poesie provengano – e in egual misura – sia dal Cielo di Marte che da Terramadre: ma con una riorganizzazione dei testi in nuove sequenze che conferiscono loro un significato nuovo, già annunciando il carattere riepilogativo (non sappiamo se conclusivo) di un’intera stagione poetica.
Ancora più singolare è che l’autore, fin dai primi esiti, abbia sentito l’esigenza di un’armatura strofica congegnata secondo rigorosi schemi metrico-ritmici, con una consistente presenza di rime e un utilizzo quasi esclusivo di settenari e endecasillabi, che riconducono alle grandi canzoni delle origini. Strutture sempre originali, che tendono però a mimetizzarsi, dando a volte l’illusione di trovarsi in un ambito di scrittura di fondo prosastico. Temporelli crede insomma in una disciplina costruttiva e nella forza protettiva degli organismi metrico-ritmici, necessari per arginare (come, azzardiamo, nell’esempio pascoliano) la tensione traumatica dei materiali psichici e biografici. Qualche esempio, anche per indicare la varietà degli esiti: La canzone di Sergio (pp. 31-33) è composta di quattro strofe secondo lo schema AbCbaEDfGhiGhlMm e una presenza non indifferente di rime sdrucciole e ipermetre. L’uso delle rime, nella raccolta, è spesso di natura difficile, e contempla in alcuni componimenti anche spericolati esempi di rima composta, come in Monologo del dittatore (pp. 113-114), che è una sestina provvista di congedo, nella quale «comete» può riapparire nella forma «come te», «cantico» nella forma «canti con». Nella varietà delle forme strofiche, il poeta può dar vita a un componimento di cinque quartine, la quinta delle quali è formata con il primo verso della prima quartina, il secondo della seconda, e così via (cfr La scienza degli umani, p. 38; La somiglianza, p. 110; Epoca, p. 115). Né mancano esiti sperimentali, come Preghiera (p. 42), che nasce dall’accostamento, a specchio, della preghiera classica dell’Angelo di Dio con versi nuovi del poeta, che a volte rimano con i versi della preghiera, a volte dialogano in virtù di analogismi fonici («Angelo»: «gelo», v. 1; «sei»: «sai», v. 2).
L’amore e tutto il resto è composto di IX sezioni senza titolo, ma ciascuna dotata di una ben precisa connotazione tematica. La prima sezione si apre con una poesia, Un ritrovo (pp. 9-10), che subito definisce un paesaggio morale: c’è un «qui» (v. 2), che si ripeterà spesso nel corso del libro, a designare una condizione dell’anima che non vuole evadere dalla realtà delle cose; un «noi», e dunque una dimensione corale – non solitaria, né individualistica – di questo stare; una mancanza (tra le occorrenze del componimento) che segna la vicenda esistenziale; e una «promessa di vincere il tempo», che il poeta fa ai suoi lettori, prima ancora che agli amici spesso evocati nel seguito del libro. A quale paesaggio si alluda soccorrono – nelle poesie successive – tre espressioni che si integrano l’una con l’altra: «terra marcia» (p. 13), «terra vilipesa» (p. 15), «Paese piagato» (p. 18). E i riferimenti saranno al «paese guasto» di Dante (Inf. XIV, 94), che è a sua volta la fonte – a cominciare dal titolo – di The Waste Land di Eliot, cui qui si rinvierà anche per la figura del Re Pescatore e il paesaggio arido («the arid plain»), che nel poemetto eliotiano si fa correlativo oggettivo di una civiltà spiritualmente e moralmente ferita. L’interpretazione pare confermata dall’allusione al mito di Parsifal-Perceval, nell’etimologia francese «colui che penetra / la valle senza dubbi e senza fede» di Grammatica contrastiva (p. 88). Ma la poesia più potente di questa sezione d’esordio è Fronte del bene comune: una sorta di sacra rappresentazione di tema cristologico, cui sono convocati – con un calco dantesco – gli amici più cari (e amicizia risulterà il lemma più pregnante dell’intera raccolta).
Le due sezioni che seguono costituiscono un vero e proprio racconto delle origini: storie di padri e figli (e la prima poesia della seconda sezione si apre sul mito fondativo di Enea che porta il padre sulle spalle, p. 25), di una piccola guerra narrata in sette micro-episodi (pp. 28-30); di un fratello-custode e di una madre. «Vetrofanie di futuro passato», come si legge – con un fulminante paradosso che sovverte le leggi del tempo: e sarà questo il compito della poesia – nel finale di Le lagune (p. 37). Ma un compito che deve giungere a una limpidezza di forma e di cuore (p. 41), come ci ammonisce un titolo estratto da una delle più memorabili poesie di Luzi. E le coordinate per leggere questo libro – che vuol essere una meditazione sullo stato delle cose poetiche, e insieme una sorta di catabasi purificatrice nella materia enigmatica delle nostre origini – saranno state ormai gettate. Se Terramadre (sezione IV del libro) sembra voler chiudere nella misura dei suoi endecasillabi sciolti questioni private e poetiche, la necessità di «dare voce / all’impresa comune» (p. 54) e di «onorare i morti» (p. 55), dunque di entrare nel profondo della vita, il poeta potrà man mano aprirsi alla materia dell’amore (V), guardata nella varietà di tutte le sue umane forme, al tema pedagogico, a lui così caro, al rapporto fra io e mondo, e dunque al fluire sempre più oscuro dei fatti storici, contemplati in una prospettiva in cui la storia stessa sembra svaporare, farsi altro (VI-IX), assumendo anche contorni inquietanti e minacciosi. Ed è singolare che un libro così centrato su una materia privata e familiare, sui corili della propria infanzia, sappia aprirsi con tanta forza a ciò che è altro da noi, «sprofondando di spalle nel futuro» (p. 110), aprendosi alla vastità di «tutti gli orizzonti» (p. 118)

foto di Mak_jp, a uso gratuito, da Pexels.com

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