Philippe Jaccottet
Fedele alla luce dell’inverno
Philippe Jaccottet è fra gli scrittori più seguiti e apprezzati dai giovani poeti in Italia. Non è un caso che siano in particolare Fabio Pusterla e Antonella Anedda ad aver contribuito a colmare la lacuna di conoscenza di quest’autore (nato nella Svizzera Romanda nel 1925 ma residente in Francia), peraltro assiduo frequentatore della nostra cultura: si ricordano infatti le traduzioni anzitutto di Ungaretti, e poi di Cassola, di Montale, di Sereni, di Luzi, di Bigongiari, di Bertolucci, di Caproni, di Erba e di altri ancora. E la dispersione editoriale che caratterizza le opere rese finalmente a disposizione del lettore meno disorientato, sarà dovuta probabilmente sia al ritardo con cui l’autore è stato accolto nel nostro Paese sia alla mediazione di scrittori che, nella difficile condizione in cui attualmente è costretta la poesia dalle maggiori case editrici, si trovano a lavorare in situazioni spesso precarie.
Jaccottet è dunque nome legato anche editorialmente alle vicissitudini delle nuove generazioni che, tuttavia, si rivolgono a lui soprattutto per affinità intrinseca, di valore poetico. Leggendo i suoi libri, infatti, si intuisce quanto sarebbe stata poco congeniale la proposta della sua opera in Italia nel clima che caratterizzava gli ultimi decenni, quasi esclusivamente dominati dall’avanguardia e dalle poetiche che a essa si opponevano. Solo ora che si profila una rivalutazione dei parametri di chiarezza e di riconoscibilità formale, oltrepassate le sirene ideologiche e linguistiche che spingevano la ricerca in acque disabitate, la voce di Jaccottet può acquisire forza dalla sua stessa moderatezza e precisione, interagendo in profondità con l’elaborazione poetica che, a partire dai suoi stessi traduttori, contraddistingue la recente poesia italiana.
Assai pertinenti si rivelano, in proposito, le parole con cui Jean Starobinski delineava il profilo di Jaccottet in occasione della pubblicazione delle Poésie 1946-1967 presso Gallimard nel 1971, parole tradotte in appendice al doppio volume, comprendente Il barbagianni e L’ignorante (Einaudi 1992), con cui Fabio Pusterla ha dato il via alla “scoperta” del poeta: «Una fiducia si desta nell’accostarsi a queste poesie. Una parola leale, una parola che ha sede nel senso, così come la voce esatta dimora nella melodia, si spiega davanti allo sguardo che la percorre. Nessuna finzione, nessuna affettazione, nessuna maschera. E possiamo accogliere senza astuzia interposta, questa parola che s’offre a noi con franchezza».
Portatore di una parola umile, il poeta è tale per via di spoliazione: nella sua voce sedimentano solo immagini necessarie, a lungo decantate; ogni ornamento (formale, psicologico, simbolico) è bandito. Anche l’emblematicità frontale, la folgorazione più immediata cede il passo a una luce diffusa e morbida, come quella dell’alba, momento topico del paesaggio esplorato da Jaccottet. Ma questa umiltà non va fraintesa: è povertà iniziale, disposizione alla metamorfosi, veglia paziente della propria disponibilità all’ascolto. Il poeta non si vieta nessuna verità, semplicemente non ne presume alcuna. Si muove da una condizione di indigenza, segue la temperatura dello stile per dire soltanto ciò che corrisponde alla frequenza del suo ascolto: non tenta mai una soglia ulteriore rispetto alla potenza del proprio sguardo, alla fedeltà del proprio sentire. Egli è l’ignorante della poesia che dà il titolo alla raccolta: «Più invecchio e più io cresco in ignoranza, / meno possiedo e regno più ho vissuto», perché «Come il fuoco, l’amore splende solo / sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…». Perciò potrà trovarsi spesso nella condizione di dover partire dalla prosa, dall’annotazione diaristica, non da un verso “donato dal cielo”: per compiere così il lento passaggio dal buio al crepuscolo, dal crepuscolo alla luce, dalla luce alle cose, lasciando spirare, attraverso le membrane permeabili che distinguono questi passaggi, il senso altrimenti indicibile.
Quella di Jaccottet è una voce, dunque, che non si sottrae al mondo per abitare un luogo assoluto e da lì cogliere il segreto dell’esistenza, ma una voce che asseconda il paesaggio e le sue movenze, segue il tempo bruciando il richiamo della perfezione per commisurarsi con la vita. Implica perciò uno sguardo, un volto pienamente umano che la sostenga: non parte da un vuoto di identità, non sgorga dal buio o dalla luce vertiginosa di un’assenza. Per ottenere fiducia, si approssima delineando i contorni confortanti di una presenza, di una promessa d’incontro e di dialogo. Non disorienta il lettore per carpirne il consenso. Il poeta non lascia disabitata la sua opera, e nel momento in cui non si nasconde e perde in essa, si rende sempre più trasparente, lasciando che la propria storia (le tracce dell’io) svaniscano a poco a poco, perché l’ospite non si senta estraneo, ma chiamato a condividere un destino. Per dirlo con sue affermazioni: «Parola-passaggio, spazio aperto al soffio. E così noi amiamo le valli, i fiumi, i cammini e l’aria. Perché rivelino il soffio. Nulla è compiuto. Occorre far sentire questa esalazione, far sentire che il mondo è soltanto la forma passeggera del soffio».
La dimensione poetica che viene inquadrata da queste riflessioni, sembra a tratti aderire perfettamente alle opere di Pusterla e di Anedda, così come a quelle di Scarabicchi, di Fiori e di molti altri poeti usciti recentemente alla ribalta. In particolare, è l’esatta dimensione che riesce a darsi in essa la figura del poeta, l’io che interviene nel testo, a risultare d’esempio. E l’antologia di prose e poesie Appunti per una semina curata da Anedda, si apre proprio con questa semplice e perfetta presa di coscienza del poeta francese: «L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro diventano trasparenti di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa. Così l’anima è davvero trasformata in uccello». La spinta lirica che invita alla scrittura non è dunque tradita, ma il miracolo della poesia si compie quando le intenzioni del poeta non prendono il sopravvento e la sua figura si fa leggera, mentre le cose da lui pronunciate valgono per tutti, non si affannano a identificare e dare un posto nel mondo al loro autore. E questa lezione di stile non sarebbe nulla di più di una poetica, se non mostrasse infine la nitida valenza etica che assume: «la difficoltà – afferma Jaccottet nella Semaison. Carnets 1954-1979 – non è scrivere, ma vivere in modo tale che la scrittura nasca naturalmente». A questo movente profondo, il poeta francese è rimasto sempre fedele, a partire dalla decisione di lasciare Parigi e il suo ambiente letterario nel 1953, ripudiando con esso la sua produzione giovanile, per trasferirsi in un piccolo paese, Drôme, nel sud della Francia.
Fonte quasi esclusiva della sua poesia, affinata dall’esperienza assai vasta di traduttore, diventa così il paesaggio, e attraverso di esso tutti gli avvenimenti, gli oggetti, le presenze, i pensieri che scandiscono un’esistenza che trae la propria verità di voce dalla modestia di chi guarda «verso l’altro da sé, senza tuttavia nessuna prospettiva metafisica o salvifica, senza neppure la presunzione di parlare a nome di» (Pusterla).
Il punto in cui questa disposizione poetica rischia maggiormente la crisi non è la riduzione dell’io a pellicola trasparente dentro la propria opera, ma piuttosto la prossimità della morte, della concreta dissoluzione del corpo e del dolore. Al cospetto di un simile evento, «quella trasparenza espressiva, quella semplicità del dire che avevano consentito alla luce di manifestarsi, devono essere verificate […]. Sapranno resistere? La luce, o almeno qualcuno dei suoi raggi, potrà farsi strada attraverso ciò che sembra negarla trasformando l’essere in un grumo di cupa disperazione?» Con questi interrogativi Pusterla avvia alla lettura dell’opera in cui Jaccottet si offre a quest’impresa decisiva, Alla luce d’inverno (composto da due “libri di lutto”, Lezioni e Canti dal basso, seguiti dalla sezione di testi che detta il titolo complessivo), già apparsa nel 1977 e riproposta per i tipi di Gallimard nel 1994 in un volume che accoglie integralmente anche Pensieri sotto le nuvole, pure precedentemente pubblicati nel 1983.
«Tempo fa», esordisce il poeta in questa raccolta, «io, l’impaurito, l’ignorante, che vive appena, / coprendomi gli occhi di immagini, / pretendevo di guidare i morenti ed i morti. // Io, poeta al sicuro, / risparmiato, che soffre appena, / spingermi a tracciare strade fin laggiù! // Ora, lampada attonita, / mano più errante, che trema, / adagio ricomincio dentro l’aria». E infatti il poeta ricomincia, nelle Lezioni si sente uno scolaro che impara dall’anziano la pazienza e scopre giorno dopo giorno di non poter valicare il muro e partecipare al dolore altrui. In questi frangenti, la poesia di Jaccottet assume movenze ungarettiane (dell’Ungaretti più raziocinante), come se in prossimità della sofferenza la pronuncia dovesse necessariamente farsi lenta, ridotta all’essenziale, scavata nell’abisso. Non c’è verità da affermare risoluti, ma interrogazioni e ipotesi che accompagnano il sentimento del corpo, non una figura mentale e trasfigurata dell’agonia, ma la carne dura e pulsante. Finché il passaggio si compie nel modo più concreto e discreto: «Nessun respiro più. // Come quando il vento del mattino / ha avuto ragione / dell’ultima candela. / Dentro di noi c’è un così profondo silenzio / che una cometa / diretta verso la notte delle figlie delle nostre figlie, / la sentiremmo».
Con la sua voce abrasa, il poeta nomina le cose senza obliquità gratuita, dice ‘cadavere’, ‘marciume’. L’unico strappo, l’unico moto risentito di rifiuto è nella volontà di riporre ordine e allontanare, pudicamente, il corpo privo di respiro: «Ah, sia ripulito questo luogo». Finché nel poeta, che, scavato internamente come un tronco, può accogliere e modulare le più sottili vibrazioni dell’aria, questa nuova e più profonda capacità di ascolto coglie, tra i vivi, la permanenza di quel «modello di pazienza e di sorriso, / simile al sole sulla nostra schiena ancora / che rischiara la tavola, e la pagina, e l’uva». Al passaggio dell’uomo sopravvivono le cose e i segni che recano le sue impronte: a tali cose, per lo stesso amore dei morti non più visibili, il poeta deve rimanere fedele.
Restare fedele alla luce dell’inverno e a ciò che si vede: se la stagione muterà, non sarà per merito delle sue parole. Jaccottett rivela, con la sua poesia, l’osso di gioia che pure resiste dentro questo pensiero infinito.
Bello questo articolo… Adoro Jaccottet.
Hai ottimi gusti in poesia