L’opera genera l’autore
Con un po’ di competenza e di impegno si può fare lo scrittore, e persino, tassello su tassello, costruirsi una carriera. Ci sono strategie raccomandabili, per questo, che offrono buone garanzie di successo.
Ma per essere autori è necessario che l’opera prenda il sopravvento rispetto alle stesse intenzioni di partenza. Come se si fossero attivate inconsapevolmente energie impreviste della lingua, come se lo scavo nell’immaginario avesse liberato risorse ancora intatte, lo scrittore in questi casi si sente travolto – e forse persino stravolto dall’opera.
Non è detto che un tale evento produca un capolavoro. L’opera generata da una potente ispirazione (così nominiamo solitamente questa onda energetica che ci trascina) si sporge sul margine di una possibilità, che potremmo definire: “innovazione” o “invenzione”. Ma perché l’innovazione generi un capolavoro, deve avere una ricaduta nella storia, deve incistarsi nella tradizione, deve stringere un nodo e mostrare la propria resistenza nel tempo. Un nodo: ovvero un punto di passaggio ad altre voci, che rilegge, intercetta e devìa queste stesse voci.
All’interno della “rete” della tradizione, l’energia non passa per gli stessi nodi. Ecco dunque l’alterna fortuna, nel corso dei secoli, di alcune “linee” rispetto ad altre – per esempio la linea poetica petrarchesca vs quella dantesca. Ecco autori che per decenni sembrano dettare legge, e poi improvvisamente si spengono, come stelle obliate da nuove costellazioni, più brillanti – Carducci, per esempio, e, per me, lo stesso Ungaretti, che pure è un autore a noi ancora abbastanza vicino.
Uno scrittore può ambire a riempire gli spazi definiti dalla rete. Può seguire i temi della sua epoca e, come un buon artigiano, seguire le indicazioni del maestro, e completare le campiture dell’affresco. Anche questo lavoro è prezioso.
Lo scrittore genera, senza dubbio, la sua opera. La progetta con sapienza. La conosce fin nei minimi dettagli. Può attribuirsene la paternità e, perciò stesso, si sentirà “scrittore” sempre.
L’autore, invece, è generato dalla sua stessa opera. Tenderà, maldestramente, a spiegare come essa si sia formata, a un certo punto, suo malgrado: non per merito suo, ma attraverso di lui. Lo scrittore si è trasformato in uno strumento, perché le potenzialità della lingua e dell’immaginario si manifestassero. Sembra un’opzione mistica, si tratta invece di un’esperienza umana, che ha che fare con la maestria e con il talento. Dopo aver compiuto l’opera, chi l’ha scritta non si sente un autore, perché non ha affatto la certezza di poter ancora creare. Può affermare semmai di essersi sentito un autore, in quel particolare stato di grazia in cui la sua attività si è armoniosamente congiunta al talento, in un contesto favorevole. Il suo merito è quello di aver lavorato lungamente per essere pronto a cogliere quell’occasione.
Così Eudora Welty*:
La scrittura è espressione della particolare personalità dell’autore, e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, leggendo i classici uno sente che l’opera finita trascende l’elemento personale. Tutti gli scrittori, grandi e piccoli, devono aver sentito a un certo punto che erano divenuti parte di quel che avevano scritto, ancor più di quanto ciò rimanga parte di loro.
(*) Eudora Welty, Una cosa piena di mistero. Saggi sulla scrittura, Roma, Minimum Fax, 2009, pp. 88-89
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