Medioevo prossimo venturo

Lo spirito del tempo

Se c’è un’epoca negletta, nei racconti con cui tramandiamo la nostra cultura occidentale, è quella che fa da ponte fra l’antichità (il mondo classico, greco-romano) e il Medioevo. Dopo secoli che ancora percepiamo come bui, a un certo punto sbocciano, come dal nulla, le letterature volgari. E tra queste, prepotente, quella italiana, con il genio di Dante che osa persino, per il suo capolavoro, passare dalla lingua universale, il latino, a quella locale, il fiorentino. Ma senza rinnegare il maestro da cui trasse lo bello stile che gli procurò l’onore. Giusto per ribadire che milletrecento anni, in letteratura, sono un battito di ciglia.

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Crisi, crisi, crisi. Da quanto tempo non parliamo d’altro? Crisi sociale, crisi politica, crisi religiosa, crisi occidentale, crisi educativa, crisi economica. Non ci rendiamo più conto che abbiamo svuotato di senso la parola stessa.

«Je suis l’Empire à la fin de la décadence, / Qui regarde passer les grands Barbares blancs / En composant des acrostiches indolents / D’un style d’or où la langueur du soleil danse». Non saranno trascorsi milletrecento anni da quando Verlaine scrisse questi versi contemporaneissimi (del resto L’Ottocento in cui viviamo è il sottotitolo di un libro di un fine interprete del nostro tempo, Zaccuri), ma centotrenta sì.

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Dunque, siamo ormai dentro a una nuova epoca, anche se il suo spirito non si lascia raccontare. Per sua stessa natura. E chiamiamola pure, quest’epoca, modernità liquida, come vuole zio Bauman, a ben vedere il maggior poeta della nostra epoca, visto che dobbiamo a lui la metafora migliore per descriverci.

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Il Novecento ha avuto i suoi campioni, le Voci della crisi: Joyce, Woolf, Proust, Mann, Kafka, Pirandello, Eliot, Rilke e via dicendo. Noi, dopo la voragine, siamo destinati all’epigonismo, all’epoca dell’oblio. La rimozione è già cominciata. Anche per questo il canone si è dissolto, in infiniti rivoli antologici, in slavine di repertori. Oggi il valore letterario è dettato dal mercato, almeno alle nostre latitudini. Perché la partita si è fatta globale, ormai, e anche a questo livello contano talvolta più i muscoli (dell’immaginazione) che la raffinatezza (dello stile). Quindi, abbiamo ancora molto da dimenticare. Migranti, alleggerite gli zaini, il viaggio che ci attende è lungo.

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Medioevo prossimo venturo? No, le parole e le categorie da cui proveniamo pregiudicano la comprensione del futuro. Forse ci attende un’epoca luminosa (e tale del resto fu, almeno in parte, lo stesso Medioevo), ma sicuramente occorrerà trovare una sintesi tra elementi che ancora ci paiono inconciliabili. Come l’epoca di Dante coniugava la cultura classica, il cristianesimo e la forza barbarica, così noi vedremo andare d’accordo l’ateo e il religioso, l’umano e l’artificiale – e tanto altro ancora.

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Se proprio occorre una data per definire quando, per noi italioti, è cominciata l’Era di Transizione, suggerirei il 1980. Con la pubblicazione del Nome della rosa anche la nostra lingua ha trovato il proprio bestseller, facendo piazza pulita di tutto un Novecento di sperimentazioni e tornando dritto all’Ottocento, con tanto di manoscritto manzoniano come lasciapassare. Un bel libro, a conti fatti, ma frutto di pregevole ingegneria narratologica. Anche la patina metafisica che avvolge il testo è un espediente. Splendida rosa ottobrina, senza più profumo.

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La letteratura italiana, con buona pace di tutti i sovranismi residui, diventerà tanto marginale quanto la cultura di uno qualsiasi dei nostri dialetti. Ma ci vorranno ancora secoli. Un battito di ciglia. Il prossimo Dante, verosimilmente, compirà comunque la scelta opposta e per il suo capolavoro, anziché l’italiano, sceglierà l’inglese.

 

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