I libri non sono saponette (lettera aperta a Paolo Di Paolo)
“Non facciamo gli ingenui: i libri, in fondo, sono saponette”
Antonio Manzini, Sull’orlo del precipizio
Caro Paolo,
mi sono imbattuto nella tua lettera a un ipotetico scrittore esordiente e ho finito per leggerla, malgrado la noia che solitamente mi prende di fronte al genere letterario, ormai logoro, della lamentazione culturale, che del resto è inevitabile, per chi in ambiti culturali si muove. La decadenza è un dato di fatto secolare, se non addirittura qualcosa di intrinseco alla letteratura, fin dalla notte dei tempi. Baudelaire è appena nostro nonno. E anch’io ho più volte stigmatizzato la desolazione del nostro contesto, per cui, nel tentare di rispondere alla tua provocazione, mi avvalgo della mia posizione decentrata. Sto tenendo palla e tentando un movimento interessante mentre è chiaro a tutti, anche a me stesso, che parto in fuorigioco: ho esordito da poco come narratore, ma, appunto, ho la ventura di essere invecchiato di un anno in un mese, e di non risultare in ogni caso un autore di primo pelo. I conti con la giovinezza sono già stati chiusi da un pezzo e ciò che ho scritto ha quantomeno avuto su di me gli effetti sperati: scrivo per evolvere umanamente, in fin dei conti, e quindi sono certo di aver trovato, per via di scrittura, il punto di equilibrio interiore che mi permette di tentare l’avventura senza dover introiettare la tirannia del Mercato. Questo punto di pace interiore mi aiuta a gestire il naturale disappunto che trapela quando in libreria si viene sommersi da valanghe di carta stampata e da copertine patinate che è sufficiente guardare a tre metri di distanza per capire che compongono un cielo di cartapesta, da cui stare alla larga, per preservarsi da fastidiose reazioni allergiche. Nel contempo, so gestire i meccanismi consolatori del genio autoriconosciutosi tale proprio perché misconosciuto, della supponenza rintanata degli scrittori-lupi affamati nel sottobosco (io, della stessa razza, mi sono esiliato da ogni branco). So prendere sul serio le mie carte, come fossero il lascito di un altro (tanto che le firmo, come un altro), e sorridere bonariamente di me. Non mi lamento, in definitiva, anzi, mi ritengo molto fortunato. E responsabile del mio percorso.
Sento però il bisogno di rispondere alla tua lettera perché mi ci sono rispecchiato troppo. C’è qualcosa che non va, in questo, mi sono detto. C’è troppa saggezza condivisa. In fondo, tu rammenti come una volta il manoscritto di uno scrittore venisse giudicato da autori che erano indubitabilmente dei maestri – e ce n’era per tutti i gusti, per cui la diversità stessa era mantenuta in vita da un sistema che generava anche scontri, lotte, «sacrosante risse», ma non sottraeva mai valore agli avversari. Eppure, non osi con questo sconfessare l’operato degli onesti manager che, semplicemente, sono consapevoli del fatto che l’editoria sia un mercato e obbediscono ad amministratori delegati che «di solito mostrano per la letteratura la stessa sensibilità di un televisore o un frigorifero». Nemmeno io lo farei: a parte Antonio Franchini, di cui ho letto, e anche piuttosto apprezzato alcuni libri, non conosco gli altri nomi che metti a girare nel valzer del libromercato (sì, come il calciomercato di riparazione che impazza in questi giorni) e non avrei ragione di dubitare che siano persone intelligenti e competenti – anche se, appunto, sentirmi “rifiutato” da qualcuno di loro non mi farebbe né caldo né freddo, in quanto non posso presupporli come maestri, dal momento che non mi sento, come scrittore, in dialogo con loro. Tra l’altro, considerata la quantità incredibile di pretendenti, è ovvio che la lettura dei manoscritti venga ‘subaffidata’ a qualche stagista uscito dall’ultima scuola di narrazione attendibile. Il problema, ripeti, è che una volta il mercato librario era più lungimirante, puntava su un autore, sulla sua crescita costante, sul confronto che sapeva condurre con un pubblico che progrediva insieme a lui: c’era il «progetto», affermi, si puntava su un percorso, mentre oggi non conta lo scrittore ma il singolo romanzo, il congegno usa-e-getta che «funzioni» nella stagione in corso. Come non essere d’accordo? E offri la soluzione:
«Ma tu scrivi romanzi, giusto? Ecco, allora puoi dimenticare per un po’ tutto questo, concentrarti sulla storia che vuoi raccontare, sulle parole giuste per raccontarla»,
suggerendo però che un occhio al mercato occorre pur darlo. Bisogna farsi un po’ furbi, insomma; arrivare a uno stile sufficientemente personale, ma non troppo lontano dallo standard. E coltivare un po’ i social, cercando interlocutori seri, negli anfratti in cui si celano per sopravvivere alla macchia, mentre impazza, ora come ora, il tornado “Mondazzoli”.
Accidenti a te: mi hai rimesso in gioco. Sì perché chi, come me, dalla poesia è passato alla narrativa; chi ha ideato e portato avanti per anni una rivista cartacea e cercato un discorso generazionale; chi ha infine scelto di defilarsi per trovare la pace del cavaliere Jedi, prima di accettare le nuove regole comunicative e aprire un sito, interfacciato come conviene ai vari social, non può certo nascondersi dietro un dito. Mi hai rimesso in gioco: mi tocca tentarla, un’azione palla al piede. E servirebbero davvero «entusiasmo» e «talento», cioè le doti che tutti, ma proprio tutti, in fondo si riconoscono. Ebbene, sai che ti dico? Che non è vero niente, non sono più d’accordo con te e con me stesso. Gli squali travestiti da pesciolini rossi sono veramente pesciolini rossi. E la letteratura non è governata dal Mercato, perché ciò che adesso riempie gli scaffali dei supermercati e foraggia le discussioni buone per i quotidiani non è letteratura. E cercare di personalizzare i libri-saponetta con un po’ di colore e di profumo non è la strada giusta. Perché non si scrive per compiacere il lettore, ma per attraversare sé stessi e sbucare dall’altra parte, facendo marameo allo spettacolo e persino al successo, alle comodità, all’inerzia del mestiere e della propria identità consacrata. La letteratura è ancora questa scelta etica fondamentale. Direi anzi che non è nemmeno una scelta, perché altrimenti la scrittura si intossica da sola: è una predisposizione naturale, un’adesione spontanea. Se si può intercettare un pubblico, si dovrà riuscire insistendo in questa direzione. Capisci? Il pubblico ti deve leggere per sbaglio: la partita è solo con certi interlocutori che tu stesso ti sei eletto: una squadra di vivi e di morti che è più importante della sigla editoriale, dello sponsor che ti promuove, del procuratore che ti assicura la carriera. Anche l’editore insomma, quando possibile e tutte le volte che è possibile, va sfruttato come un equivoco favorevole.
Capisci che cosa sto combinando? Ho chiesto il pallone direttamente ai tuoi Capote ed Hemingway, mi concedo una finta un palleggio un tocco esagerato e… sì, mi lancio in rovesciata. Come finirà? Solleverò dagli spalti la più grassa risata, oppure combinerò qualcosa di buono? Ma non è questo il punto! Gli spalti seguono la partita, sono appesi all’istante e al suo risultato; qui in campo, invece, si gioca. Qui si è parte di qualcosa di più grande. E, per quel che mi riguarda, gli spalti non ci sono nemmeno.
L’entusiasmo e il talento si provano così, credo: se ci sono, si palesano sia nel grande stadio sia nel campetto di provincia. Anni fa, tanto per dire, ho dribblato sicuramente diverse pile di libri-saponetta per trovare il tuo Raccontami la notte in cui sono nato.
Ecco, vedi? Ho rilanciato indietro il pallone proprio a te. Che tipo di partita, e con chi, vorrai giocare adesso?
Con simpatia,
Andrea Temporelli
La discussione è stata ripresa anche da Alessandro Canzian, qui