Mezzo secolo di antologie
Dal privilegio dei sessantottini all’evaporazione del canone, per chiudere con i criteri per un’antologia autorevole, che ancora manca
O tutti o nessuno
In una società capitalistica in cui la produzione di libri (a fronte, peraltro, almeno in Italia, di un numero esiguo di lettori) ha raggiunto livelli non più sostenibili, e in cui il frenetico tentativo di emergere da parte di una moltitudine di autori testimonia l’angoscia del canone attuale, i repertori generali rispondono a una necessità quasi fisiologica.
Le antologie sembrano rispondere anche alla rimarcata crisi della critica per cui, con gli assetti interni al campo letterario in continua ridefinizione, pare che la narrazione della letteratura contemporanea debba passare per forza attraverso di esse. Ce ne sono di ogni genere, se ne stampano ogni anno, e tutte le volte l’unico dibattito che si scatena è sugli esclusi. Ogni volta il castello eretto subisce un assedio che ha come obiettivo la delegittimazione e la conquista delle rovine. Qualsiasi ipotesi di canone scatena il terrore degli autori contemporanei. Il risultato è il perpetuarsi della lamentatio intorno alle sorti neglette della poesia, mentre i poeti sono in preda a una chiara schizofrenia: da una parte si ingegnano per risultare presenti in ogni occasione, dall’altra sono pronti ad annichilire le medesime velleità di altri in ossequio al proverbio secondo cui mal comune è mezzo gaudio. Così i repertori si fanno troppo inclusivi e, sfruttando le risorse del web, si ipotizzano “atlanti” aperti per mappare integralmente il contemporaneo. L’angoscia della moltitudine detta un motto sottaciuto ma chiaro: o si salveranno tutti o non si salverà nessuno.
Già la storia del Novecento è stata scandita, quasi a ogni decennio, da celebri scelte d’autore. Citiamo, giusto per rendere l’idea, Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi (1920), Scrittori nuovi di Falqui e Vittorini (1930), Lirica del Novecento di Anceschi e Antonielli (1953), Poesia del Novecento di Sanguineti (1969) e Poeti italiani del Novecento di Mengaldo (1978). Proprio le ultime due, in chiara competizione fra di loro, rappresentano le colonne d’Ercole all’ingresso del mare magnum della nostra contemporaneità frenetica e multiforme. Quella di Sanguineti ridisegnava la tradizione novecentesca tracciando linee di percorrimento generali, non senza eclatanti novità (celebre, dopo l’omaggio ai “padri del Novecento” Pascoli e d’Annunzio, la riproposta di Gian Pietro Lucini). Quella di Mengaldo prescindeva dalle radici ottocentesche e giustapponeva autori trattati rigorosamente con profili individuali, nobilitando anche la produzione in dialetto, del tutto integrata a quella in lingua. Così Sanguineti, malgrado l’alto profilo accademico, per il proprio ruolo di poeta, per giunta schierato apertamente sul fronte neoavanguardista, a conti fatti si trovò ben presto superato dal lavoro di Mengaldo, più centrato nell’analisi di un secolo ormai compiuto nella propria cifra costitutiva e aggiornato sugli sviluppi dei maggiori interpreti. La sua antologia è l’ultimo autorevole repertorio in grado di delineare un canone attendibile.
Tuttavia, non era affatto sbilanciata, rispetto al proprio tempo. Anzi, il critico, senza assumere posizioni pessimistiche nei confronti del nuovo, manteneva un prudente distacco rispetto ai molti esordi importanti degli anni Settanta. E non poteva essere altrimenti. Ciò spiega, però, la necessità avvertita, al compimento anagrafico del secolo, di aggiornare quel canone, magari ritagliando soltanto il “Secondo Novecento”, così da mettere ben in risalto quelle voci altrimenti condannate a restare ancora all’ombra degli ultimi maestri riconosciuti e certificati (Sereni, Zanzotto, Luzi, lo stesso Sanguineti), pur così centrali anche nella metà del secolo a noi più prossima. Per uno sguardo ampio su questo periodo e sui suoi repertori principali, si rimanda al saggio di Valentino Fossati Su alcune antologie dell’ultimo Novecento.
Ma il genere dell’antologia si è nel frattempo ampliato e ingloba ora un arcipelago piuttosto variegato di repertori, che non andrebbero confrontati senza prima comprenderne le differenze di intenti e di impostazione. È il caso allora di tratteggiarne alcune tipologie, senza pretese di completezza, per rendere meno confuso il discorso su tali strumenti di analisi del contemporaneo.
Volumi collettivi
Intanto, si escludono dal discorso i volumi collettivi, cugini primi delle antologie, ma differenti per la serialità con cui si sviluppano e per gli intenti da cui muovono. I casi più celebri sono rappresentati dai Quaderni italiani di Poesia contemporanea (editi da Marcos y Marcos sotto la regia anzitutto di Franco Buffoni), espressamente dedicati alla promozione delle giovani leve poetiche, e i Nuovi poeti italiani usciti nella collana “Bianca” di Einaudi, più sporadici, meno intelligibili nei presupposti, ovvero meno legati (come del resto è tipico della collezione che li accoglie) a una poetica o a uno sguardo critico e autoriale. Riguardo a questi ultimi, ci si dovrà tuttavia chiedere se sia in corso un cambiamento paradigmatico: mentre i primi volumi della serie apparivano senza preavvisi secondo imperscrutabili criteri, quasi fossero, più che una sottolineatura di valori emergenti, una valvola di sfogo per la pressione delle proposte a fronte degli esigui spazi editoriali disponibili, gli ultimi mostrano un carattere ben marcato e sono firmati da due curatori, Giovanna Rosadini e Maurizio Cucchi. La crestomazia di Rosadini raccoglie dodici voci femminili, per cui rientra di diritto nella schiera dei repertori di genere, di cui diremo in seguito; quella di Cucchi seleziona cinque poeti, per cui si accosta alle antologie con cui un autore affermato promuove voci presumibilmente affini o comunque sodali (tanto più in questo caso specifico, con poeti non certamente giovani che andrebbero ormai considerati nel pieno della maturità).
Antologie “militanti”
Dunque, le antologie.
Una prima tipologia, ampia e frastagliata, si potrebbe definire “militante” o espressione di una precisa idea letteraria. L’oggetto di indagine per tali antologie è un frangente specifico della tradizione (un decennio o un più ristretto giro d’anni) che mette a fuoco, prevalentemente, una generazione di scrittori. Temo si tratti di un filone ormai estinto, che affondava le radici in anni di forti ideologie, contraddistinti da spinte confuse e velleitarie che si rispecchiano, con il senno di poi, proprio nell’assemblaggio dei poeti di volta in volta eletti. (Sia detto per inciso: personalmente, non vedo nel concetto di simili operazioni nulla di male. La cultura è conflitto – sano – e trovarsi interlocutori – non nemici – con cui confrontarsi è naturale; anzi, è preferibile rispetto alle logiche del pettegolezzo, del lavoro sottobanco tra premi, festival, sedi editoriali. Si ha un’idea esclusiva della poesia? La si espliciti e si porti avanti la battaglia, ma in modo non subdolo. Ma temo che oggi valga invece la regola del silenzio: “Non sei dei miei? Non ti considero, semplicemente”. Così la tradizione è diventata la somma di monologhi tra sordi).
L’antologia campione fra quelle “militanti”, espressione di un gruppo, fu I Novissimi. Poesie per gli anni ‘60, curata da Alfredo Giuliani: da questo repertorio nacque in seguito la Neoavanguardia. Alla fine di quel decennio, come detto, Sanguineti sancì poi il radicamento dell’avanguardia stessa nella tradizione e nell’accademia, con la citata antologia dedicata al secolo ancora in corso.
Per una reazione da parte delle generazioni successive, si dovette attendere una strana coppia di crestomazie: Il pubblico della poesia, curata dai critici Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, e La parola innamorata. Poeti nuovi 1976-1978, firmata dai giovani poeti Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro. La prima, rifiutando la prospettiva storicistica e quindi una logica di contrapposizione e superamento generazionale, registrava non solo una vivacità disomogenea e forse persino contraddittoria nella poesia di quegli anni, ma anche e soprattutto una deriva, di natura anzitutto sociale e quindi, di conseguenza, letteraria. Semplificando, diremmo che si stava consumando l’addio della centralità della lirica nel campo letterario e persino, considerando un certo distacco al limite del fastidio da parte degli stessi curatori del volume, la dismissione di qualsiasi mandato critico, di analisi filologica o di militanza, rispetto all’esplosione proteiforme della poesia. Il crollo del palco del Festival Internazionale di Poesia di Castelporziano nell’estate del 1979 divenne l’emblema della fine di un’epoca, ma evidentemente tutto si era già consumato, occorreva soltanto prenderne atto. L’antologia di Pontiggia e di Di Mauro è diventata invece il punto di partenza di una presunta linea neo-orfica, sigla poetica che ha resistito per qualche decennio. L’esaltazione giovanile della prefazione, del resto, e l’esito di quel progetto di lancio di “poeti nuovi”, ha travolto gli stessi autori. Se Di Mauro è poeta ormai ai margini della scena, Pontiggia ha attraversato una lunga fase di silenzio, prima di riemergere e chiarire quanto “classica”, persino “antiromantica”, fosse la sua idea di poesia. La temperie di quegli anni ha prodotto dunque diversi abbagli, e basti accostare autori come Conte, De Angelis, Magrelli, Scartaghiande o Viviani per comprendere come non ci fosse, fra i poeti dell’antologia, una visione letteraria comune. Accanto al Pubblico della poesia e alla Parola innamorata si ricorda solitamente anche l’antologia Poesia degli anni Settanta, curata da Antonio Porta. Tuttavia tale carrellata di testi, suddivisa per anno (muove dall’emblematico 1968 per chiudersi con la sezione Verso gli anni Ottanta), fu un’operazione ibrida, attraverso la quale un poeta (prima della introduzione di Porta, compariva però anche una prefazione di Enzo Siciliano) conferiva prestigio e ordine a un decennio certo vitale ma ancora del tutto da intendere, nelle sue dinamiche letterarie e nei suoi futuri sviluppi.
Un’occasione persa e un passo falso
Non ottenne il successo che forse avrebbe meritato il lavoro di Ermanno Krumm e Tiziano Rossi: Poesia italiana del Novecento (ma i due poeti si affidarono per le schede critiche anche ad altri studiosi), magari anche soltanto per la collocazione editoriale (Skira ed.). Ma il secolo, nel 1995, aveva ormai davvero compiuto la propria parabola (l’anno successivo cominciò il suo percorso anche la rivista “Atelier”) e trovare il bandolo della matassa e concepire una narrazione del contemporaneo era un bisogno acuto del mondo editoriale stesso o, più propriamente, di quei poeti che, in quel frangente, avevano raggiunto la consacrazione editoriale, ma non erano stati ancora legittimati dalla critica. Ricordiamo, tra i tanti fattori da tenere in considerazione per cogliere il problema, lo scollamento che si ebbe a un certo punto tra l’ambito accademico e quello letterario e giornalistico, in seguito, in particolare, alle vicende del Sessantotto. Il dato non va estremizzato; si potrebbero indicare varie eccezioni, ma è anche vero che quella che Giovanni Raboni definì la “generazione del ‘68” ebbe
«il privilegio di godere della nuova o rinnovata attenzione ai fenomeni letterari seguita alla caduta del fervore politico e ideologico del periodo sessantottesco. I maggiori o più rilevati talenti di questa generazione hanno potuto fruire, così, al momento del loro esordio, di una ribalta insolitamente illuminata: sono, non dimentichiamolo, gli anni in cui i giornalisti inventano il cosiddetto “boom della poesia”, gli anni delle letture pubbliche di versi, di antologie fortunate e tempestive».
Insomma: perso contatto con l’Accademia e i suoi ancora autorevoli rappresentanti (come Mengaldo), diversi poeti «nati fra il 1944 e il 1948», godettero di privilegi editoriali impensabili per chi, negli anni Ottanta, dovette fare i conti con una «stretta senza precedenti» (Stefano Giovanardi). Esordire, negli anni Settanta, in una casa editrice maggiore era relativamente facile e trovare attenzione presso giornali e nell’opinione pubblica non era difficile. Gli ultimi “figli” del Novecento, una generazione di anarchici e autolesionisti (formula di un importante saggio di Cesare Viviani) che non ha dovuto confrontarsi ad armi pari con le generazioni successive, necessitavano tuttavia di una legittimazione critica autorevole: un’antologia espressamente dedicata al Secondo Novecento, che dopo un rapido omaggio ai maestri riconosciuti, ma pure ingombranti, desse risalto al loro percorso. Rispose perfettamente a questa attesa il lavoro di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Poeti italiani del Secondo Novecento. 1945-1995, Mondadori.
(Apro qui una seconda parentesi, breve quanto importante. La lettura dei fatti appena esposti ha inflessioni polemiche. Tuttavia, mi sembra abbastanza oggettiva. È bene in ogni caso chiarire che non vuole surrettiziamente trasformarsi in un giudizio: riconoscere i privilegi editoriali goduti da una generazione di poeti e asserire che gli stessi non sono stati adeguatamente seguiti e anche incalzati dalla critica “accademica”, non significa imporre su di loro valutazione negativa. Potranno essere anche tutti riconosciuti come maestri di alta levatura, nel lento formarsi del canone contemporaneo, ma di fatto, nel contesto di allora e di oggi, spiccano e detengono posizioni di privilegio e persino di possibilità di determinazione delle fortune dei loro successori sulla base di circostanze storiche anche fortuite, non necessariamente per meriti conclamati).
Le attese per una simile antologia erano alte; la collocazione nei Meridiani impose naturalmente un paragone, che a questo punto si sarà capito essere fuorviante, con la precedente opera di Mengaldo. Fin dalla duplice curatela che accostava un poeta e un critico, l’operazione di Cucchi e Giovanardi risultava ibrida, con l’adozione di categorie che nascevano dall’incrocio di criteri letterari con altri di mero appoggio sociologico se non addirittura prettamente editoriale: basti ricordare il capitolo dedicato ai Narratori poeti o agli Anni Ottanta. Anche gli apparati critici risentivano di una certa difformità: alcuni profili parvero poco più di note adatte a risvolti di singoli libri. Nell’aprirsi al contemporaneo (non si dica a registrarlo precocemente, ma almeno a suggerirne contezza), Giovanardi, al termine della sua introduzione, ammetteva sì una «stretta editoriale senza precedenti, che ha via via falcidiato le collane nazionali di poesia portando alla loro soppressione o drastica riduzione», ma non indugiava nel parlare della generazione dei nati fra il ‘40 e il ‘50 come dell’«ultima complessivamente attestata e individuata», alla quale sarebbe «subentrata una devastante aridità». Chi scrive ha dedicato gran parte della propria attività saggistica in quegli anni per dimostrare che le generazioni successive non erano affatto più aride, ma semplicemente dovevano confrontarsi con un contesto ben differente. Nel volume Poeti nel limbo ho, credo, documentato la ricchezza poetica di chi ha esordito negli anni Ottanta e Novanta. Nel complesso e lento processo di valutazione degli scrittori, lungo l’intero loro percorso e ancor più a seguito della risonanza che otterranno nel tempo a venire, il lezioso confronto fra due o più generazioni perde di valore; tuttavia, assumere un epifenomeno (ovvero la ridotta visibilità editoriale) come dato indicativo della qualità letteraria di un’epoca è capzioso. Fronteggiare la quantità eccessiva dei testi poetici, dirottati verso sedi editoriali minori, è indubbiamente un problema concreto per qualsiasi studioso, ma sussumere il criterio del prestigio editoriale come prova di qualità è un atto di falsificazione a priori. Eppure, i curatori non ebbero remore nell’ammettere di aver preso in considerazione soltanto autori che avessero fino a quel momento pubblicato almeno una raccolta con un editore a diffusione nazionale. Ora, a parte il fatto che stabilire un confine netto fra editoria maggiore e editoria minore non era e non è semplice, specialmente in un ambito, come la poesia, in cui a partire da quegli anni diverse sigle editoriali “medie” si specializzarono tanto da costruire nicchie di sopravvivenza per molti autori, in seguito poi riconosciuti anche dall’editoria maggiore – a parte ciò, dicevamo, con l’antologia di Cucchi-Giovanardi veniva rimosso il cuore del dilemma letterario, ossia il riconoscimento del valore di un’opera alla luce della propria specificità. Da quel momento, il valore letterario veniva spostato dall’opera in sé alla sigla editoriale, legittimando i meccanismi più subdoli con cui si sviluppano “carriere” poetiche. Tradotto in termini ancora polemici, ma chiari, il messaggio andrebbe tradotto: «Ci potrebbe anche essere da qualche parte un novello Rimbaud, potrebbe anche aver scritto un capolavoro comunque rimasto orfano di critici autorevoli, potrebbe persino aver venduto e essere letto più di tutti, ma, se non ha pubblicato “da noi”, non conta nulla».
Nuove antologie di critici autorevoli
Ma davvero, dopo Mengaldo, non abbiamo più avuto antologie di critici autorevoli, che abbiano tentato coscienziosamente l’aggiornamento del canone novecentesco? Per fortuna, qualche tentativo credibile c’è stato. Se l’antologia Anni ‘80. Poesia italiana, curata da Luca Cesari nel 1993, non poteva guadagnare particolari crediti per il fatto di documentare un’area ristretta alla linea neo-orfica e mitomodernista, pur con qualche necessaria acquisizione di altri nomi autorevoli, subito a ridosso dell’antologia di Cucchi e Giovanardi uscì nel 1996 il lavoro di un giovane studioso, Roberto Galaverni, che poteva sembrare una pronta smentita alla denuncia di aridità poetica degli anni Ottanta e Novanta esposta nel Meridiano. Il suo Nuovi poeti italiani contemporanei presentava diciotto autori che, con l’esclusione di Ferruccio Benzoni e Umberto Fiori, entrambi classe 1949, costituivano una buona campionatura proprio dei nati dopo il ‘50. Sovrapponendosi in parte ad alcuni dei più giovani autori inseriti nei Poeti italiani del Secondo Novecento. 1945-1995 (D’Elia, Magrelli, Mussapi, Valduga), Galaverni ne proponeva altri che, pur non essendo ancora pubblicati da un editore “a diffusione nazionale”, erano già ampiamente riconosciuti nel settore. Alcuni di essi (Fiori, Anedda, Riccardi, Rondoni) saranno in effetti poi inclusi nell’edizione 2004, aggiornata, dell’antologia Cucchi-Giovanardi, licenziata negli Oscar Mondadori. Insomma, l’antologia di Galaverni, capace anche di qualche scelta coraggiosa, risultava sufficientemente aperta su più fronti poetici (sebbene, va riconosciuto, restasse meno sensibile agli scrittori dai tratti marcatamente sperimentali) e si proponeva come un appropriato aggiornamento alle proposte di canone secondonovecentesco. Peccato che dopo quel precoce lavoro il critico si sia sempre più defilato dalla temperie del contemporaneo, ritirandosi in zone di osservazione maggiormente tranquille, nel canone già certificato. A quel che mi risulta, le sue sortite rispetto ai compagni di viaggio e ai più giovani autori si limitano ormai a considerazioni e interventi privi di valutazioni nette, sempre difficili da gestire nel piccolo e nevrotico mondo della poesia, così saturo di malumori e risentimenti.
Considerando che l’antologia di Galaverni era dedicata quasi a una generazione, o comunque si soffermava solo sugli autori ultimi, la sfida di ripensare integralmente il secondo Novecento era ancora ricusata. Tentarono l’impresa i lavori di Enrico Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, e di Daniele Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi. Le caratteristiche comuni ai due volumi sono evidenti: sono firmate da accademici apprezzati (il secondo, ben più giovane, vantava già allora una caratura filologica di prim’ordine), che tuttavia sono anche poeti; si occupano, in pratica, del medesimo periodo storico, e automaticamente verrebbe da considerarle quali ideali espansioni proprio dell’antologia di Mengaldo. Eppure, le scelte compiute nel repertorio furono alquanto divergenti, a dimostrazione, se vogliamo, dell’estrema complessità del panorama. Al netto dei “classici” Sereni, Caproni, Luzi, Bertolucci, Fortini e Zanzotto, da cui Piccini prescindeva, ovviamente senza metterne in discussione la grandezza, soltanto tredici poeti furono inclusi in entrambe le rassegne e, considerando l’ampiezza delle voci accolte da Enrico Testa (ben quarantatré), si tratta di un numero esiguo di nomi: Erba, Giudici, Pagliarani, Sanguineti, Porta, Rosselli, Raboni, Loi, Baldini, Cucchi, De Angelis, Scataglini e Magrelli. La maggior parte di questi autori, tuttavia, era già annoverata nell’indagine di Mengaldo (così come ne faceva parte Albino Pierro, tra le scelte qualificanti di Piccini ed escluso, invece, da Testa): le sole novità su cui i due critici concordarono si riducono, quindi, solo agli ultimi cinque dell’elenco. La difficoltà di aggiornare in modo convincente il canone mengaldiano si palesa anche da questi dati.
Tali antologie si rivolgono soprattutto agli esperti: ma la società letteraria non esiste più, non c’è più alcun filtro “aristocratico” possibile. La crisi della critica è acclarata, l’editoria è sempre meno interessata alla poesia, i sistemi stessi di valutazione, per quanto in mano a filologici mossi dai migliori intenti, conducono a risultati divergenti.
Il caso tuttavia più interessante, fra le antologie firmate da critici stimati, fu Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra i due secoli. La novità era duplice: da un lato l’analisi, condotta ancor più a ridosso della contemporaneità, si sarebbe detta inclusiva, considerato l’alto numeri dei poeti ospitati; dall’altro, tale indagine fu condotta da un team di otto giovani studiosi (nati fra il 1966 e il 1973; gli autori considerati sono nati invece fra il 1945 e il 1975). Vale la pena ricordare i nomi dei curatori: Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli, Paolo Zublena. All’opposto dell’operazione di Cucchi-Giovanardi, questo tomo, giusto dieci anni dopo, rivendicava la centralità del fatto letterario rispetto al prestigio editoriale, tant’è vero che la crestomazia non ebbe timore d’inserire autori ancora giovani, che avevano pubblicato i primi libri presso editori minori, e che tuttavia erano ritenuti validi. Forse la risposta alla multipolarità delle esperienze e alla produzione poetica ipertrofica poteva essere il lavoro di squadra, da parte di più esperti, capaci di coniugare militanza e competenza accademica. Peccato che, a conti fatti, la pluralità delle firme si fosse tramutata in una coesione poetica di fondo, a tutto vantaggio solo di un’idea specifica di poesia, che definiremo sommariamente “di ricerca”. La mappatura più inclusiva finora tentata in modo autorevole si era trasformata in un’operazione di squadra che dava credito anzitutto a una precisa linea poetica.
Antologie generazionali
Nel frattempo, però, era esplosa una vasta costellazione di nuove antologie, espressamente generazionali. Come se, all’improvviso, dopo l’imbuto di quella stretta editoriale senza precedenti denunciata da Giovanardi si fosse aperto un nuovo spazio di vitalità, come se l’aridità poetica denunciata accanto a quel mutamento di paradigma sociale fosse stata improvvisamente rovesciata da una nuova generazione, ecco che gli autori “nati negli anni Settanta” venivano battezzati con una serie impressionante di crestomazie. A elencarle tutte, si arriverebbe forse a una trentina di titoli. Le principali furono, in ordine cronologico: L’opera comune di Giuliano Ladolfi (1999), I cercatori d’oro. Sei poeti scelti di Davide Rondoni (2000), I poeti di vent’anni di Mario Santagostini (2000), Dieci poeti italiani di Maurizio Clementi (2002), Nuovissima poesia italiana di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi (2004; addirittura Mondadori!), Oltre il tempo. Undici poeti per una metavanguardia di Gian Ruggero Manzoni (2004), Samiszdat. Giovani poeti d’oggi di Giorgio Manacorda (2005), Il miele del silenzio di Giancarlo Pontiggia (2009). L’elenco è ampiamente lacunoso e basterebbe retrodatare di qualche anno la data puramente pretestuosa del 1970 per accogliere svariati altri repertori. Questa serie di antologie ebbe anche persino qualche seguito all’estero, con traduzioni o iniziative analoghe.
Che cosa stava succedendo? Forse davvero una nuova generazione (grosso modo, peraltro, coincidente con quella degli otto critici della Parola plurale) entrava prepotentemente sulla scena, lasciando riaffiorare una creatività che nei lustri precedenti era stata sommersa? Fu solo una moda, un fuoco di paglia? Un’occasione perduta?
In quanto parte in causa, sia come poeta incluso in alcune delle opere citate sia come promotore dell’Opera comune (la scelta degli autori spettò a me), preferisco non ripetere qui analisi e riflessioni più volte proposte già in altre sedi. Lascio dunque risuonare le domande, inquadrate adesso nella cornice complessiva di questo discorso.
Antologie di genere
Un’altra tipologia di repertori che ha preso sempre più piede nei nostri anni è quella delle antologie di genere, in particolare di donne (ma si ricordi anche Il senso del desiderio. Poesia gay dell’età moderna, curata da Nicola Gardini e pubblicata da Crocetti).
L’avvento dei collettivi di sole poete è stato un fenomeno salutare e in gran parte dovuto. Si trattava di rinnovare lo sguardo, di dar voce a una presenza spesso trascurata per naturale insufficienza da parte dei responsabili delle scelte, per lo più uomini ovviamente, che nelle Accademie e nelle sedi editoriali, anche non sempre in malafede, vedevano ciò che risultava a loro congeniale o comprensibile. In aggiunta alle varie retrospettive sul secolo, abbiamo già menzionato la curatela di Giovanna Rosadini per Einaudi, che portava l’istanza di una maggiore attenzione alle voci femminili direttamente sul contemporaneo, cercando nuove proposte poetiche esclusivamente fra le donne. Ma già nel 1976 Biancamaria Frabotta curò un’antologia di Donne in poesia, comprensiva di ventisei autrici. Metteva così a nudo le lacune dei repertori precedenti e rendeva per la prima volta giustizia al valore di poete ingiustamente trascurate: le più giovani di allora, Cavalli e Lamarque, ora si considerano nel canone del nostro tempo.
Il lavoro più recente in questo solco è firmato da Isabella Leardini e si intitola Costellazione parallela. Presenta sedici “poetesse” non per disegnare un controcanone, ma per ricordarci la presenza di voci femminili finora relegate ai margini o del tutto ignorate. La curatrice è consapevole del rischio di perpetuare l’idea di un canone di genere: tant’è vero che, se è lecito esprimere anche qui un’opinione in merito, credo che, ora come ora, siano più efficaci repertori che non selezionano in base all’identità di genere, del resto scarsamente definibile e non certamente binaria, ma che mettono alla prova i singoli autori rispetto al panorama complessivo. Pur nella consapevolezza che l’attività di riscoperta e di rivalutazione è tutt’altro che terminata, non ritengo nemmeno dovuto che, a priori, ci debba essere una proporzione a cui uniformarsi, tra eventuali parti in causa. Il criterio primario resti sempre il valore letterario e il significato che l’opera assume rispetto ai parametri selettivi adottati.
Antologie tematiche
Una possibile strategia per raggirare le polemiche intorno al canone è quella di ritagliarsi un tema. Se tuttavia l’argomento non è sufficientemente circoscritto e chiama in causa il presente, il risultato si fa confuso, se non scopertamente malandrino. Per esempio, nel 1998 Plinio Perilli, per le edizioni di Nicola Crocetti, licenziò Melodie della Terra. Il sottotitolo, Novecento e natura, diventava una sigla vaga e il repertorio si apriva eccessivamente, in un goffo tentativo di includere o quantomeno citare, nelle quasi seicento pagine, più autori possibili, specialmente viventi. Meglio, allora, quella curata da Salvatore Ritrovato nel 2006, Dentro il paesaggio. Poeti e natura, con soli undici autori, non tutti magari della stessa levatura, ma comunque in grado di definire uno specimen sensato.
Quando invece simili antologie riescono a definire una nicchia sufficientemente pacificata, tenderanno a diventare espressamente commerciali (dai florilegi con le più belle poesie d’amore a quelle dedicate agli alberi o ai gatti) e insignificanti rispetto all’acquisizione di crediti nella competizione per il canone. Meglio, a questo punto, concedersi riletture erudite e sfiziose, magari legate ad altre epoche storiche, come nel caso di Letto, latrina e cantina. La poesia verista in Italia, a cura di Giuseppe Iannaccone.
Antologie d’autore
Possiamo definirle così quelle che hanno senso soprattutto in riferimento alla nomea del curatore, già consolidata o in fieri. La prospettiva di senso è infatti duplice. La sigla indica anzitutto quei repertori utili a chi li firma per ribadire il proprio prestigio e puntellare un’area di riferimento, soprattutto se si tratta di un poeta. In questo caso, si presume che gli inclusi siano autori più giovani, ma abbiamo già citato il collettivo di Cucchi (ancora lui), comprensivo di cinque autori. Notiamo che si tratta sempre di voci ascrivibili alla generazione dei nati negli anni Settanta, quella che era stata battezzata da molteplici antologie, anche dallo stesso Cucchi. Due autori su cinque, anzi, erano già presenti nel volume del 2004: possibile che in tutto questo tempo non ci si potesse spendere, di fronte a poeti ritenuti meritevoli, per un loro libro autonomo? La stretta editoriale si è trasformata, per molti, in un’incubatrice e, editorialmente parlando, nascere resta oggi, anche per chi ha cinquant’anni e più, un’utopia.
All’opposto, certe antologie, promosse da giovani critici o poeti, che danno spazio ad autori più o meno consolidati e comunque dal ricco percorso letterario, sembrano offrire, più che uno strumento utile a un eventuale pubblico, una prima forma di riconoscimento per il curatore stesso. Nella volontà di trovare comunque il modo di profilare un proprio canone privato, sopravvive una genuina propensione militante, che riconosce ormai nelle antologie e nella loro martellante riproposta un’arma, una forma residuale di potere; oppure, il sogno di rilanciare una forma d’arte tanto praticata quanto misconosciuta. Questo è il caso, probabilmente, di Poesia d’oggi, un florilegio di sessanta poeti di diverse generazioni che Paolo Febbraro ha prima accolto in una rubrica del «Sole 24 Ore» e poi accorpato in un volume, che ha la grazia di sottotitolarsi (si noti l’articolo indeterminativo) Un’antologia italiana.
Repertori divulgativi
Legate espressamente ai gusti del curatore, con il dichiarato intento di proporre anzitutto un florilegio di bei versi, possono considerarsi quelle antologie che si dichiarano esplicitamente divulgative, rivolte dunque al grande pubblico che talvolta (come l’esperienza della rivista «Poesia» di Crocetti ha dimostrato) si affaccia persino alla vetrina della poesia. Proprio Nicola Crocetti firma le due operazioni più eclatanti, in questo senso, di recentissima stampa. Con Poesie da spiaggia (2022), curata insieme alla popstar Jovanotti, si è ottenuto un successo editoriale forse insperato. Non conosco direttamente l’antologia, per cui non entro nel dettaglio dei contenuti, ma presto fede alla disposizione di Jovanotti a sfruttare la sua notorietà per favorire la riscoperta di tale genere letterario da parte chi bazzica più nei territori del poetico (ovvero della poeticità più trita) che della poesia vera e propria. Il repertorio comprende, immagino, sia versi ben attestati nella tradizione, diciamo pure scolastici, sia scelte meno scontate. In ogni caso, si tratta di affrontare la poesia senza troppe remore, come suggerisce il titolo provocatorio e furbo, quasi impudente.
Un passo ulteriore è stato compiuto con l’opera successiva, che osa riferirsi nel sottotitolo alla poesia universale (non si pone infatti limiti né cronologici né geografici) e che porta un titolo altrettanto sfacciato: Dimmi un verso anima mia. Accanto a Crocetti figura questa volta non una popstar, ma un garibaldino agitatore del mondo letterario, Davide Brullo, da sempre abituato ad attraversare lande poetiche di ogni latitudine. Due curatori diversi per età e formazione, che assemblano un regesto esorbitante, di oltre milleduecento pagine. È ovvio che l’intento non può essere canonizzante: gli inclusi vengono accolti in una folla tanto vasta e varia che il loro profilo scompare nell’affresco immane, e fanno sorridere le rimostranze, anche in questo caso, di chi pilucca l’indice alla ricerca degli esclusi. Dal punto di vista della letteratura italiana e di tutti i ragionieri della tradizione, questa antologia avrà il medesimo impatto della precedente: non conterà nulla. Potrebbe, semmai, avere anch’essa una buona ricaduta sul pubblico: e perché non augurarglielo?
Antologie di poeti o di poesie?
Le antologie tematiche e le antologie divulgative appena citate suggeriscono un sottile slittamento, di cui si appropriano anche altri repertori, ambiguamente accampati fra divulgazione e analisi storica. Lo slittamento a cui alludiamo è quello che pone l’accento più sui testi che sugli autori.
Già nel 2001 Il pensiero dominante, compilato da Franco Loi e Davide Rondoni (ma non si dimentichi il sottotitolo: Poesia italiana 1970-2000) dichiara, nella scelta di oltre cento autori, di aver privilegiato le poesie prima ancora delle firme. L’utilità di simili cataloghi per la definizione del canone è, ancora una volta, pressoché nulla: sono troppo inclusive e non argomentano in merito al valore di un percorso poetico, ma propongono solo un testo o poco più. Si spera dunque che almeno riescano anch’esse a raggiungere e incuriosire un pubblico oltre la riserva degli addetti ai lavori.
Prende in esame il medesimo periodo storico del Pensiero dominante, estendendosi nell’analisi anche alle decadi compiute del terzo millennio, la recente antologia firmata da Tommaso Di Dio, Poesie dell’Italia contemporanea. 1971-2021. Anche in questo caso si proclama di aver raccolto i testi più rappresentativi di cinquant’anni di poesia italiana. La prima sembianza sotto cui il libro si presenta è ancora disinvoltamente divulgativa: l’opera è anzitutto di un florilegio di belle poesie. Ma si precisa anche che nasce decenni di viaggi e di ricerche tra biblioteche, archivi privati e colloqui con autori: lo studioso ci offre dunque, diviso per decadi, uno strumento di analisi del contesto, un catalogo di poesie che valgono “anche” come documenti per raccontare un’epoca. Infine, la novità del volume è l’indicizzazione di vari percorsi tematici di lettura, seguendo i suggerimenti del curatore stesso: per esempio, spiega la nota stampa di lancio del volume, seguendo il percorso delle poesie facili e di quelle difficili, o quello delle poesie civili e incivili. La linearità del libro occhieggia alla rete: il testo ambisce a diventare anche un ipertesto, forse per apparire più utile o venire incontro alle presunte esigenze del lettore odierno. Rispetto a quest’opera, che ho solo sfogliato, rimando alla recensione di Gianfranco Lauretano.
Prima di tentare delle conclusioni generali, vorrei però soffermarmi sul dilemma che abbiamo reso esplicito: ma si compilano antologie di poeti o di poesie?
Ovviamente, entrambe le opzioni hanno le loro ragioni. Ma è chiaro che le prime implicano l’idea di un canone; le seconde si affidano a un tema o all’espressione di un gusto (avvicinandosi, in questo caso, ai repertori “d’autore”). Il sospetto, tuttavia, è che talvolta gli intenti suggeriti non coincidano con le reali ambizioni del lavoro e che permanga un’ambivalenza di fondo.
Intanto, i poeti dovrebbero essere diventati voci autorevoli proprio in virtù delle loro opere. Insistendo sui testi, smarcandosi dalla presunzione autoriale, forse si sta ammettendo che, ai nostri tempi, non è esattamente così. Tuttavia, ci sono impliciti meno maliziosi da portare a galla: anche poeti minori o non ancora universalmente riconosciuti, ci viene suggerito, hanno scritto testi memorabili. E ancora: il grande pubblico ha bisogno di testi più godibili, non imbalsamati, scolasticamente, entro il profilo di un autore “da studiare”. E così via. In ogni caso, alla fine sembra di trovare qui un’ultima conferma alla dismissione di autorevolezza critica: siccome nessuno può canonizzare un poeta contemporaneo, limitiamoci a parlare delle poesie. Il rischio, però, è anche quello di trasformare i testi in pretesti, in didascalie di un’epoca, in cammei fini a sé stessi. Chiunque potrebbe scrivere un pugno di versi felici e meritarsi il paradiso di una simile antologia, mentre non bastano due o tre poesie ben riuscite per qualificare un autore.
Riflessioni conclusive
Siamo partiti considerando fisiologica la proliferazione di antologie, all’interno del contesto caotico e multifocale che ci incornicia, il cui contenuto, finora, nessuno sguardo critico ha saputo compiutamente descrivere. Il canone evapora non appena si tenta di coglierne il profilo. Eppure, anche solo per inerzia, in qualche modo persino la nostra epoca lascerà traccia, asseriscono i più. Poco male se si tratterà di una narrazione sommaria: il canone resta sempre aperto a interpretazioni innovative (ogni nuovo poeta, idealmente, ridisegna la tradizione: dopo Eliot, per rendere l’idea, anche Dante è stato riletto in modo diverso) né dunque si può credere che un canone sia mai “giusto”. Inoltre, il presente non è in grado di descriversi: ai posteri spetterà perciò l’onere. Eppure, dall’ipertrofica produzione odierna è fondamentale ricavare una prima cernita, pur ampia e inclusiva, per limitare ab origine gli errori e le ingiustizie, sostengono altri. Le antologie restano imprescindibili proprio per vincere l’inerzia e rispondere, colpo su colpo, alle logiche di autoconservazione editoriale che gli autori privilegiati perseguono.
Tuttavia, prima di accostare indiscriminatamente le antologie più significative, attraverso le quali forse si potrà mappare il complesso territorio della contemporaneità, è bene riconoscerne le differenze di natura e di impostazione. È quello che abbiamo tentato di fare con questa rassegna, ridotta (non è un’affermazione ironica) ai minimi termini.
Oggidì, più che offrire una guida, le antologie disorientano il lettore e lo studioso, ma discernere, all’interno di esse, le più utili, non è poi così arduo. L’importante è non bruciarle al fuoco fatuo delle reazioni immediate, sempre piuttosto nevrotiche e semplicistiche, come ricordato.
A questo punto, proviamo ad avanzare alcuni criteri di massima a cui si dovrebbe attenere un’antologia credibile, che lavori con coscienza nell’ottica di certificare le voci significative del nostro tempo.
1) Anzitutto, un’antologia autorevole non è mai il frutto di una sola intelligenza. Anche se non si costituisce un pool di esperti che si organizza per l’esplorazione del presente, un critico non può prescindere dal lavoro degli altri esperti; non solo perché egli non sarà in grado di leggere tutto, ma perché avrà bisogno di prospettive diverse per mappare la sua epoca. Ogni dato sarà infine incardinato al suo gusto, ma non avrà compiuto una selezione a priori, escludendo ciò che non era percepibile dal suo cono ottico.
2) In seconda battuta, dovrà tenere un margine di sicurezza rispetto al presente. In un’antologia che tenti di segnalare le voci più meritevoli, andranno considerati solo gi autori giunti, se non alla fine del loro percorso, a un’evidente maturità espressiva. Ciò non toglie che si debba altresì dimostrare consapevolezza persino dell’attualità, ma basteranno gli apparati critici predisposti per citare i poeti lasciati sulla soglia e persino, se il critico vuole arrischiarsi a tanto, per menzionare gli esordi perentori o i titoli recenti ricchi di prospettive.
3) Uno studioso onesto è in grado di riconoscere anche la statura degli autori meno in linea con i suoi gusti. Ci sono scrittori che per il consenso ottenuto, se non unanime, sufficientemente ampio, o per la forte rappresentatività di un’area o una tendenza, o per il sostegno da parte di altri critici prestigiosi e non pigramente compiacenti, o per altre ragioni ancora, non possono essere esclusi dal racconto di un’epoca. Ciò non significa che il critico non debba esprimere le proprie riserve, anzi, è fondamentale che lo faccia. Così, per esempio, non è arduo capire se le simpatie di Mengaldo propendano per Luzi o per Sereni: eppure i due poeti svilupparono un percorso a loro modo analogo (mi ero anche divertito, in una divagazione saggistica, a dimostrare come l’analisi mengaldiana dell’uno potesse sostituirsi a quella dell’altro).
4) Un critico deve rendere ragione preliminarmente dei propri parametri di valutazione e dei capisaldi della propria poetica. Deve dimostrare di saper riconoscere il valore letterario andando oltre le sigle editoriali, il successo di pubblico, il clamore mediatico, il credito dei riconoscimenti, la presenza nel dibattito letterario, sebbene talvolta anche questi elementi concorrano a determinare l’importanza di un autore. L’inserimento discreto e non forzato, ma per ciò stesso ancor più significativo, di qualche voce appartata, addirittura di qualche scoperta, è un sintomo prezioso di coraggio, di libertà, di responsabilità.
5) In un’antologia, il numero degli autori deve essere equilibrato. Non esiste un numero prestabilito: ci possono essere stagioni più ricche e corali e altre con meno talenti (ma magari di grandezza assoluta maggiore). Spetterà dunque al critico stabilire il punto di equilibrio perché l’indagine risulti corrispondente alla realtà e allo stesso tempo selettiva. Poi, il resto lo compirà davvero il sedimentarsi della tradizione, con gli smottamenti, le riscoperte, gli affossamenti che il progressivo distanziamento dal presente favoriranno.
Non ho inserito, tra i criteri, due condizioni comunque auspicabili: che la responsabilità spetti a un critico “puro”, e che si tratti di persona di comprovata competenza. Restano, secondo me, prerequisiti augurabili, ma non è detto che anche un poeta non possieda la statura morale giusta per farsi interprete imparziale del proprio tempo (né un critico “puro” garantirebbe di per sé tale risultato); inoltre, la credibilità e l’autorevolezza si conquistano, alla fine, sempre sul campo, con la forza degli argomenti e dello stile.
Dunque quelli indicati, ce ne rendiamo conto, sono criteri di puro buon senso; ciò non significa che non restino opinabili. D’altro canto, forse la soluzione a determinate situazioni di impasse necessita, più che di buon senso, di un po’ di sana follia: quella che non mancherà a chiunque avrà ancora l’ardire di firmare l’ennesima antologia. Magari, proprio quella di cui si avverte ancora oggi l’urgenza.
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