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Antologie dell’ultimo Novecento (di Valentino Fossati)

Ieri mi è capitato a scuola, durante una lezione facoltativa pomeridiana, in cui tentavo di fornire agli studenti una visione d’insieme del Novecento letterario, di far riferimento alle molte antologie che attraversano e modellano il secolo. Quasi ogni decennio è stato segnato da importanti riflessioni che hanno condotto alla compilazione di repertori: pensiamo per esempio a Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi (1920), a Scrittori nuovi di Falqui e Vittorini (1930), Lirica del Novecento di Anceschi e Antonielli (1953), a Poesia del Novecento di Sanguineti (1969) e ai Poeti italiani del Novecento di Mengaldo (1978).

Ovviamente, le esigenze didattiche hanno vincolato il discorso al Novecento più storicizzato (ci saranno comunque altre lezioni in cui si cercherà di arrivare a uno sguardo sul presente), ma l’occasione mi offre l’opportunità di riprendere un saggio comparso sul n. 25 di Atelier. Può servire come materiale di lavoro per completare il discorso e cominciare ad avvicinarsi

Su alcune antologie dell’ultimo Novecento

di Valentino Fossati

Se prendiamo come arco di tempo, più o meno arbitrariamente, gli ultimi trent’anni del secolo appena trascorso e come oggetto di riflessione le antologie di poesia italiana, il quadro appare ad un primo sguardo molto sfaccettato, talvolta confuso. Un punto di riferimento iniziale abbastanza preciso, comunque, c’è ed è l’antologia Poesia italiana del Novecento curata da Edoardo Sanguineti. Si tratta probabilmente del riferimento più significativo perché è il lavoro che, sul finire degli Anni Sessanta (siamo appunto nel ’69) compone il primo panorama interpretativo di un secolo che in quel periodo presenta già tutti i tratti necessari per essere rappresentato come un insieme compatto e, soprattutto, per contenere in sé l’idea del presente e i futuri sviluppi.

Nella crestomazia di Sanguineti si tenta di proporre un’immagine abbastanza precisa e organica di un passato, di un presente e di un futuro; viene creata insieme una tradizione del Novecento e una tradizione del “nuovo”. Senza entrare nel merito dei giudizi di valore o delle critiche strutturali, è possibile, proprio attraverso Poesia italiana del Novecento indicare alcuni caratteri fondanti e di orientamento rispetto al genere antologico in sé, almeno come incomincia a delinearsi specificamente nell’ultimo Novecento.

La scelta-discrimine di questo lavoro rispetto alla Letteratura dell’Italia unita di Contini (di un anno anteriore) non è casuale e non è nemmeno dettata da ragioni di gusto. È vero, infatti, che quest’ultima opera ha una portata in qualche modo rivoluzionaria, perché sposta i criteri dell’antologizzazione dalla poetica (si pensi alle operazioni critiche e antologiche di Anceschi) allo stile come modalità di “incarnazione” e di valutazione del testo inteso come “realtà” e unità irriducibile, legato solo di sbieco alle correnti e alla storia letteraria intesa come “grande narrazione”. Sicuramente l’antologia di Mengaldo del ’78, Poeti italiani del Novecento, è, in questo senso, assolutamente continiana e lo studioso, proprio sulle tracce di Contini, si distaccherà ancora più esplicitamente e radicalmente da Sanguineti rifiutando, per l’inquadramento e la struttura della sua opera, il presupposto di un assoluto storico (il Novecento con la “n” rigorosamente maiuscola) spostando l’asse storico-interpretativo sull’individualità poetica, sulla sua specificità linguistica e, trasversalmente, psicologica. È, comunque, altrettanto vero che Poeti italiani del Novecento, senza l’antologia di Sanguineti o, meglio, senza la critica severa e sostanziale che Mengaldo fa a Sanguineti [1] probabilmente sarebbe stata profondamente diversa.

Le antologie sono leggibili e criticabili non tanto (o non solo) in se stesse quanto a partire dal confronto attento con altre antologie, anteriori o posteriori, spesso anche senza l’ausilio, purtroppo a volte fuorviante, di una letteratura critica specifica. Talvolta esse implicitamente o esplicitamente nascono, si spiegano e si affermano come “risposta” o critica – sul piano dove si sovrappongono struttura e ideologia, – ad un altro analogo lavoro. Si potrebbe guardare in quest’ottica, oltre al caso Mengaldo-Sanguineti, l’accostamento fra I Novissimi del ‘61 e il Manuale di poesia sperimentale del ’66 o anche fra Il pubblico della poesia del ’75 e La parola innamorata del ’78.

Simile discorso si potrebbe fare, usando insieme i termini dell’opposizione e della complementarietà, confrontando e analizzando il rapporto tra l’opera di Mengaldo, sistematica e positivamente “museale” e l’antologia a-gerarchica e volutamente (anche se solo in apparenza) a-valutativa Poesia degli anni Settanta (1979) di Antonio Porta, dove il trait d’union è rappresentato dalla centralità del lettore chiamato a interagire attivamente, a riannodare, integrare e interpretare i fili di una storia che da un lato si mostra come insieme discreto di “individui”, dall’altro come pura orizzontalità cronologica, come fenomenologia “aperta”.

I caratteri fondanti di orientamento cui alludevo riguardano alcuni concetti chiave con cui ogni antologia, che si può definire “forte” e che nasce da un’elaborazione critica organica e “necessaria”, dovrebbe fare i conti, in accordo o in antitesi, sia che proponga un panorama complessivo del secolo sia che proponga un panorama più circoscritto (un ventennio o un trentennio), una nuova tendenza, una nuova fascia generazionale e così via.

Il primo concetto che possiamo indicare è quello di “tradizione”, riferendoci innanzitutto al significato etimologico della parola che rimanda appunto al latino tradere, “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno affinché lo conservi” (è un termine che all’origine, non bisogna dimenticarlo, era legato al diritto romano e precisamente al corpus di leggi che regolavano l’eredità).

Il secondo concetto è quello di “canone” usato in questo caso non tanto nel senso di “modello” (che sarebbe più pertinente se parlassimo delle antologie dell’antichità, come l’Antologia Palatina), quanto nel senso, sempre originariamente giuridico, di “norma”, criterio normativo, oppure nel senso più ampio di “valore” riconosciuto come caratterizzante e fondante (al di là di qualsiasi recinto cronologico, geografico o generazionale).

Il terzo concetto riguarda il “nuovo”. In un’antologia come quella di Sanguineti il concetto è deducibile dal corso stesso, in linea retta e univocamente orientata, della storia letteraria, a partire da un passato (sostanzialmente il primo Novecento “con” e “dopo” Pascoli e D’Annunzio e a partire da Lucini, Gozzano e i Crepuscolari) il cui “nuovo” si manifesta come diretta e naturale discendenza. In antologie come La parola innamorata del ’78, ad esempio, o come Nuovi poeti italiani contemporanei del ’96, il “nuovo” è, invece, individuato e affermato o in opposizione polemica ad un passato o secondo un rapporto storicamente indicato (anche senza intenti polemici) di discontinuità, di alterità.

L’ultimo, fondamentale, concetto è quello di “Storia” (l’uso della “s” maiuscola è, in questo caso, puramente indicativo): “Storia” come assoluto, come “grande narrazione” appunto (Sanguineti, ma anche Porta, in maniera più problematica e già sensibilmente spostata verso l’ottica critica e interpretativa dei «sentieri del lettore»); “Storia” (letteraria e non) come irriducibile parzialità, come concetto discreto (Contini, Mengaldo, Berardinelli, Galaverni). Potremo parlare anche dei casi limite (si veda la recentissima, sconcertante antologia Il pensiero dominante curata da Davide Rondoni e Franco Loi) in cui la Storia (o storia) viene in qualche modo rimossa (o censurata) in nome di un assoluto di diversa specie, magari di un assoluto teologico messo in rapporto diretto, senza mediazioni, con il gesto poetico, ma si tratta in fondo del rovescio (ideologico e magari politico) della stessa medaglia. Questi quattro concetti di riferimento rappresentano le coordinate chiave per mettere in prospettiva, analizzare e valutare le antologie, sempre partendo dalla comparazione (come lo stesso Mengaldo insegna), dalla lettura in filigrana degli intrecci e degli incroci di punti di vista critici e interpretativi che si stabiliscono tra un’antologia e l’altra a partire dalla formazione, dal metodo e dal gusto dell’antologista (o degli antologisti).

Pur in sintesi, posso accennare qualche esempio. L’antologia di Mengaldo e, in generale, il pensiero del critico, soprattutto per quanto riguarda il concetto di Storia e il rapporto tra individuo (opera) e società sono molto legati a Fortini, anche se tali concetti vengono messi in gioco dallo studioso con un’attenzione maggiore al versante linguistico e formale. La celebre introduzione di Berardinelli al Pubblico della poesia, acuta diagnosi epocale operata con gli strumenti della critica della cultura, della sociologia e della critica letteraria, deve molto ad uno sguardo fortiniano e viene esplicitamente utilizzata e citata come riferimento da Mengaldo quando traccia nell’introduzione alla sua antologia un rapido e significativo schizzo dell’epoca presente.

Un altro filo rosso che percorre l’antologia di Mengaldo è Pasolini, il Pasolini di Passione e ideologia, ma non tanto a partire dall’uso di alcune categorie storico letterarie che il poeta propone (e dalle quali il critico ha sempre preso, più o meno con forza, le distanze) come “espressionismo” o “realismo”, quanto piuttosto a partire da alcune scelte prospettiche sostanziali come la drastica riduzione valutativa operata rispetto ai poeti del cosiddetto Ermetismo fiorentino, la vigorosa valorizzazione dei poeti dialettali (che nell’antologia di Sanguineti erano del tutto assenti, ma scarseggiavano curiosamente anche in quella di Contini) e infine – in linea con l’individuazione di una costante “antinovecentesca” della poesia italiana – la profonda (e in certi casi, come quello di Bertolucci, innovativa) lettura e valutazione come poeti di prima fila di figure come Penna, Bertolucci appunto e Caproni.

Il nodo che lega storia, società, ideologia (etica) e poesia (che caratterizzava in toto personaggi come Fortini e Pasolini nelle loro scelte e nella loro militanza letteraria, nonostante il forte antagonismo che li caratterizzava) rappresenta un nodo cruciale per capire il grande dibattito sulla letteratura e la cultura nel secondo Novecento, un dibattito e una meditazione attraverso cui le voci di maggior spicco hanno lasciato un solco profondo nella nostra letteratura e soprattutto un’“eredità”, che si può definire tale non perché dogmatica o assoluta, come spesso si è creduto e ancora si crede, ma, al contrario, perché sostanzialmente proteiforme, a volte fecondamente contraddittoria o paradossale (si pensi soprattutto a Pasolini): un’eredità di cui alcuni nodi, conflitti, e radicali aperture sono ancora pienamente da riconoscere e da attraversare. Proprio un personaggio come Fortini, mai nominato esplicitamente ma sicuramente tenuto in considerazione, poteva rappresentare (o era effettivamente) uno dei bersagli della polemica che stava alla base della Parola innamorata. L’antologia di Pontiggia e Di Mauro propone il “nuovo” sulla base di un rifiuto deciso e polemico della cultura poetica imperante tra la fine degli Anni Sessanta e gli Anni Settanta, dominata da un lato dai soffocanti imperativi neoavanguardisti riguardo al fare poesia (e con questi alludo soprattutto alle teorizzazioni di Sanguineti, dei “compagni di strada” accademici come Curi, Dorfles, Barilli, in parte Eco ecc. e dalla “prassi” diventata quasi una moda dell’unico vero poeta integralmente “neoavanguardista” del Gruppo ‘63: Balestrini) e dall’altro lato dalla presenza, quasi obbligata nel campo del produrre letterario (come se fosse un discrimine valutativo), dell’elemento ideologico-militante. Era quasi una norma l’appello all’impegno, anche all’interno dell’orizzonte tematico dei testi, la necessità imprescindibile di un confronto con la condizione sociale del tempo, con le lotte politiche.

Per quanto riguarda questo secondo aspetto (il primato culturale dell’“ideologico”) Fortini poteva essere ritenuto dai curatori della Parola innamorata, soprattutto da Pontiggia, militante nella rivista «Niebo», una sorta di “padre” ingombrante. Questo rifiuto avveniva fondamentalmente per una giusta causa (l’abitudine della Sinistra marxista più ortodossa di considerare la poesia e la letteratura come delle sovrastrutture, perennemente subordinate e funzionali alla prassi politica e alla lotta di classe), ma con una prospettiva ingenua, semplificatrice e sostanzialmente errata rispetto a quelle che effettivamente erano le aperture (non poche e non indifferenti) del pensiero fortiniano (che non era certamente ortodosso rispetto al marxismo, ma drammaticamente critico, conflittuale, eretico), soprattutto quando toccavano verticalmente (nelle stesse sue poesie d’altro canto) il problema dell’interpretazione della storia, dell’individuo e della società come tragica presa di coscienza della condizione umana. Se comunque si accetta genericamente la semplice constatazione della presenza negli Anni Settanta di un clima opprimente creato appunto dal primato dell’“ideologico” inteso come inaccettabile limite censorio alla libertà espressiva, ecco che l’“ideologico” viene proposto immediatamente come il termine radicalmente e negativamente opposto a “poetico” con il rischio (per lo meno in via teorica, data la varietà e difformità di voci che viene di fatto ospitata nell’antologia) di porre “poetico” come termine assoluto, astorico, “ontologico”, slegato concettualmente e con un radicalismo un po’ ingenuo da ogni vincolo con la realtà.

Il poeta allora esordiente Gianni D’Elia nella prefazione, in forma di lettera a Roberto Roversi, al suo primo libro di versi Non per chi va [2] scriveva: «È una poesia privata, a volte anche del privato, spesso sentenziosa, piena di premesse e citazioni strutturaliste e linguistiche (da post-avanguardia mitica?) piena di Bataille, Lacan, Blanchot, di “Figlia del sole e di Perseide”, di Adone, di Pasifae ecc. È una poesia dell’ideologia quante altre mai poiché il suo motivo è il motivo di ogni autarchia: la poesia dell’ideologia che dice io sono figlia mia, mia figlia, figlia mia». Se l’approccio di Pontiggia (l’introduzione alla Parola innamorata è sua, anche se firmata da entrambi i curatori) era un po’ ingenuo e implicava dei rischi, la critica di D’Elia non è del tutto condivisibile (e letta adesso sembra anticipare, anche se posta con termini argomentativi precisi e raffinati, la vulgata critica sull’antologia che tiene testa ancora oggi, il luogo comune che associa ancora Parola innamorata e Neo-orfismo e addirittura vede in essa, secondo una prospettiva assolutamente erronea, un precursore del Mitomodernismo), se si tiene conto che non viene tanto mossa (inconsapevolmente) all’antologia in sé, presa come corpus di testi molto eterogenei e organizzati di fatto senza nemmeno l’ombra di una poetica egemone o di una tendenza in atto, al di là di tutte le etichette che una storiografia (e una critica) letteraria spesso pigra, chiusa, inerte e troppo compromessa ideologicamente (in senso negativo) non si è ancora presa la briga di cancellare del tutto [3]. D’Elia critica più l’aspetto legato alle premesse, a ciò che viene dichiarato da Pontiggia nell’introduzione rispetto alla poesia “che dovrebbe essere” e rispetto alla volontà di riacquistare il primato del “poetico” come istanza di libertà (rischiando appunto di cadere in contraddizione passando dal rifiuto dell’ideologia politica e delle sue ingerenze nella poesia all’affermazione di un’altra ideologia, quella della poesia o, meglio, del “poetico”).

Se questa posizione, come ho detto, può essere rischiosa e covare effetti devianti, la condanna di D’Elia della poesia “autarchica” in sé (sì, quella che dice «sono figlia mia») è discutibile e sembra, allora come oggi, inglobare la persistente idea di certa Sinistra che, non senza un fondo di terrorismo culturale pur moderato, non concepisce l’idea (e anche il rischio perché no?) di una poesia che proclami la propria autosufficienza in nome della “libertà”, libertà che non è soltanto, come si vorrebbe, evasione (nel mito? nell’illusione incantatoria? nell’assenza congenita di contenuti?) disimpegno, individualismo, autoreferenzialità egoistica, ma anche libertà (non obbligo programmatico) di calarsi nel reale, nel civile, di fare i conti con la storia e con la propria esistenza, magari intrecciandole, di riconoscere e parlare del Tempo, del Male, magari guardandolo in faccia o eludendolo (come si definirebbe in questa prospettiva la poesia, per esempio, di Penna o di Bertolucci?).

D’Elia chiama in causa soprattutto uno dei due autori centrali dell’antologia, Giuseppe Conte, e il suo lavoro sull’incarnazione del mito nella poesia. A mio avviso, il riferimento a questo poeta come emblema dell’“ideologia del poetico” contiene una certa parzialità, se non un vero e proprio fraintendimento. La poesia dell’autore ligure, anche all’altezza dell’Ultimo aprile bianco, non può essere interpretata solamente come tentativo di dar vita a una poesia ”neoclassica” fatta di mitologia e contraria, come avrebbe affermato in altra epoca Leopardi, al sentimento del “vero”. In Conte il mito, al di là delle ridondanze dannunziane ed estetizzanti delle prime opere, è strumento euristico proprio del reale e del “vero”, come dimostrerà più limpidamente a partire dalle Stagioni e la sua, se mai, si può definire celebrazione della realtà attraverso la riscoperta della forza interpretativa del mito, non celebrazione della poesia tout court dal momento che in lui la figura mitologica, più che metafora, è il segno costante di una “presenza”. A parte questa mie precisazioni, la critica di D’Elia in considerazione del contesto in cui è stata formulata e della peculiarità per cui proprio la poesia dell’autore marchigiano in quel determinato momento voleva porsi in un rapporto di differenza con quella che sembrava essere effettivamente una tendenza in via di consolidamento, è una critica plausibile, che ha le sue ragioni.

Il suo appunto, al di là della sua discutibilità, è storicamente importante non tanto per la (scarsa) pertinenza all’oggetto Parola innamorata quanto perché le sue parole lanciano come un ponte verso il futuro, su una nuova fase della poesia, su un momento ulteriore e ancora agli albori. Il futuro e il “nuovo” che D’Elia dichiara e reclama nel 1980 verrà poi, sedici anni dopo, criticamente e sistematicamente riconosciuto come tale (anche nei termini, non bisogna dimenticarlo, dell’individuazione di una nuova generazione poetica rimasta per parecchio tempo in ombra o dispersa) in quella che è sicuramente la più bella e significativa antologia degli ultimi vent’anni: Nuovi poeti italiani contemporanei a cura di Roberto Galaverni. In quest’opera, fondamentale per reinquadrare l’ultimo ventennio di poesia italiana, a riaffermarsi è nuovamente, con forza, il concetto di “nuovo”, il riconoscimento di una specificità della poesia di un certo periodo e di una certa generazione rispetto a quella precedente (leggasi la generazione del Pubblico della poesia). Alcuni autori privilegiati (come Pagnanelli e Salvia), è necessario ricordarlo, sono già presenti e giustamente valorizzati nell’interessante Una strana polvere, antologia del 1994 curata da Paolo Lagazzi e da Stefano Lecchini che presenta un’impostazione originalmente tematica, anche se la disposizione interna e la scelta degli autori sembra talvolta un po’ casuale e poco rigorosa, che si incentra sui motivi della “terra” come richiamo all’origine e al ritorno (un po’ come avverrà per la più tarda e comunque molto più dispersiva e ininfluente antologia-calderone Melodie della terra di Plinio Perilli) e del “dolore” come condizione imprescindibile dell’esistenza e della poesia. È, comunque, solo con l’opera di Galaverni, con lo sforzo di una lucida sistemazione epocale e generazionale, che si arriva fare luce su un periodo confuso e tutt’altro che accertato nei suoi valori (almeno come si presentava la situazione negli anni tra il ’94 e il ’96), a creare intrecci, rapporti, prospettive critiche talvolta inediti. È grazie anche a questa antologia se il panorama della poesia italiana negli Anni Ottanta e Novanta può vantare una specificità e una riconoscibilità che non aveva ancora anche a causa, di nuovo, della cecità e delle prese di posizione “di potere” di molta critica, spe cialmente di provenienza accademica. Resta, in ogni caso, il principio, sempre valido, quando si parla di antologie forti, che inclusioni ed esclusioni possono sempre essere discusse o ripensate, così come potrebbe essere parzialmente aggiustata la periodizzazione o, al limite, la scelta singola. Il valore, nel caso di Nuovi poeti italiani contemporanei, risiede principalmente nella forza, nell’intelligenza e nell’affermatività del gesto critico e della struttura, ma non devono certo essere sottovalutati due aspetti importanti come la profondità e la nitidezza dei cappelli introduttivi e l’acume nella scelta dei testi, volta, insieme alle introduzioni, a illustrare puntualmente il percorso di un autore «la direzione del suo lavoro», partendo da ricorrenze e variazioni di nuclei tematici, figurativi, stilistici, arrivando ad ipotizzare in certi casi aperture future, sempre però partendo dalla concretezza, dalla “carne” del testo, mai dalle poetiche astratte.

Non è scorretto, almeno non mi pare, parlare dell’antologia di Galaverni anche per rileggere e rivalorizzare (in senso storico, non certamente qualitativo) l’antologia di Mengaldo. La forza ulteriore di Nuovi poeti italiani contemporanei (e tutto questo sia detto per inserire in una prospettiva più ampia, verticale, il mio giudizio sull’antologia del ’78) è ravvisabile nel fatto che l’opera curata da Galaverni è, a ben vedere, l’autentica erede dell’antologia di Mengaldo. Si tratta di un’eredità profonda, non solo riconducibile alla scelta dell’ordinamento e alla struttura. Quando parlo di eredità, ovviamente non parlo a rigore di “seguito”. In via del tutto logica Nuovi poeti italiani contemporanei potrebbe essere il vero “seguito” di Poeti italiani del Novecento solo se includesse gli autori che nel ’78 erano giovani promesse, ma che furono esclusi da Mengaldo perché autori unius libri e non sufficientemente formati a livello di percorso personale.

Sarebbe illecito fare un’antologia che si proponesse esplicitamente di essere la continuazione più o meno ideale di Mengaldo e che non includesse Cucchi, De Angelis, Conte, Viviani ecc. Comunque non era questo l’obiettivo di Galaverni e, se per assurdo l’avesse fatto, sarebbe stato incoerente con la sua premessa fondamentale, cioè che i poeti da lui antologizzati si distinguevano “anche” per la discontinuità rispetto ai poeti dei Pubblico della poesia e della Parola innamorata (escluso il caso un po’ anomalo di Magrelli che comunque esordisce con Ora serrata retinae nel 1980). Il problema del “seguito’” e della continuazione dell’antologia di Mengaldo è piuttosto spinoso e controverso e riguarda soprattutto, in via per lo più negativa, Poeti italiani del secondo Novecento di Cucchi e Giovanardi (sempre 1996), l’altra importante antologia che considererò più avanti.

L’asse Mengaldo-Galaverni è riconoscibile in alcune scelte di fondo, prima di tutto in quella di mettere in risalto le singole individualità poetiche fuori da ogni schema, partizione o discriminazione connessa alle poetiche. Non ha alcuna rilevanza il fatto che questo procedimento in Mengaldo fosse legato al carattere “secolare” della sua antologia e che si opponesse alle scelte strutturali di un’altra antologia dallo stesso tipo, quella di Sanguineti. Nel Sesto quaderno di poesia contemporanea curato da Franco Buffoni per la Marcos y Marcos, operazione di per sé alquanto meritoria, vengono usati sistematicamente ordinamenti per gruppi, tendenze, istanze stilistiche o di poetica. È legittimo che Buffoni sostenga il puro carattere orientativo e non rigoroso di tali suddivisioni (in effetti il panorama presentato è assai fitto e non facilmente ordinabile), ma ciò non toglie che il fatto in sé di raggruppare e classificare dei poeti per tendenze e categorie sia riduttivo e in alcuni casi mortificante (a meno che, per esempio, l’appartenenza al gruppo degli autori “mitici” o al discorso cosiddetto neo-neoavanguardista sia, da parte del singolo poeta, programmatica, vissuta orgogliosamente e assunta come fattore distintivo). La scelta di operare “per individui” prima in Mengaldo, poi in Galaverni tocca, ovviamente la sfera della “tradizione” (e come viene concepita), ma soprattutto tocca la sfera del “canone”. Mengaldo sceglie di storicizzare e di antologizzare non a partire da “un” canone o da una poetica ritenuta unificante e dominante, bensì a partire da “canoni ristretti”. I “canoni ristretti” indicano il predominio di ciò che emerge compiuto, significativo e valorizzabile dall’esperienza di ogni singolo poeta (unito agli altri dai fili intricati della storia, ma inteso sostanzialmente come unicum, esemplare in se stesso) al di là di qualsiasi concetto predefinito di poesia, del tutto fuori da qualsiasi modello di tipo anceschiano. Il concetto di canone ristretto è legato alla validità e all’esemplarità di ogni singolo autore, sempre da valutare e da verificare attentamente. Ogni poeta responsabilmente scelto nella più compiuta realizzazione di sé e nella configurazione del suo percorso si può definire “canonico”, quando (e questo è il caso soprattutto di Mengaldo) l’espressione “antologia di tendenza” non riguarda più il riconoscimento di un orientamento stilistico condiviso e dominante ma il “giudizio di valore”. Il “giudizio di valore” si pone ad un livello superiore rispetto al giudizio di gusto: tende all’oggettività o, meglio, “rischia” l’oggettività, anche nel senso della scommessa. Se nell’antologia di Mengaldo il senso della scommessa è meno forte e evidente sia per il carattere della sua antologia sia per il fatto che il critico si muove, in linea di massima, su un territorio di valori letterari già relativamente consolidati, in Galaverni il senso della “scommessa” è fondamentale, vissuto in modo viscerale, come una vocazione. Non bisogna, inoltre, dimenticare come Mengaldo, oltre che rispetto a Sanguineti, compia un passo in avanti anche rispetto al Contini antologista del Novecento (legato in maniera vistosamente idiosincratica alle sue preferenze per l’oltranza formale, nel segno dell’espressionismo letterario) e isoli nella piena libertà delle loro voci, senza ricondurli riduttivamente né all’Ermetismo né ad altra categoria, poeti grandi e determinanti nel secondo Novecento come Bertolucci, Sereni, Caproni, Luzi. È anche giusto e significativo che sia poco più che una traccia storica, nel cappello introduttivo a lui dedicato, il “neoavanguardismo’”, del tutto trasversale e anomalo, di un autore come Elio Pagliarani.

Non sono cose da poco, alla fine degli Anni Settanta, rispetto al ruolo poco più che marginale dato ad alcuni di questi autori da Sanguineti (Bertolucci è addirittura assente, così come Zanzotto, mentre Sereni e Luzi sono trattati fondamentalmente come epigoni dell’Ermetismo), ma anche dal maestro Contini.

Il concetto di canone ristretto, inoltre, si lega in maniera determinante alla “democraticità” della poesia, alla sua libertà impagabile di incarnare un destino, una “visione” irripetibile che si realizza non fuori (è necessario ribadirlo), ma “dentro” la storia collettiva. Quando la riflessione si approfondisce, si allarga e diventa generale, storica, sul sempre più rilevante rapporto (osmotico, mai disgregante, con una non trascurabile componente etica alla base) tra la poesia e la narratività, tra la poesia e la prosa (già a partire dai vociani, da Saba e Montale in primis, ma soprattutto nell’area del Secondo Novecento) non si tocca soltanto un punto relativo all’evoluzione della forma poetica, non si compie la semplice registrazione di un fatto stilistico [4]. La predilezione di Mengaldo per l’istanza “esistenziale” della poesia novecentesca italiana ed europea (per l’“esistenzialismo storico”, come avrebbe detto Fortini che teneva sempre presente, come Mengaldo, il modello di Montale soprattutto tra gli Ossi e La bufera) rispetto all’istanza “orfica” è a riguardo illuminante. Si intuisce come dietro alla predilezione di Mengaldo per l’istanza “esistenziale” ci sia la coscienza di un rapporto tragico, lacerato, con la Storia. E quando Mengaldo parla di “narratività” e di “prosa” indica appunto qualcosa di più profondo di un fatto formale. La narratività, anche quando si esprime nei modi più strettamente autobiografici e nelle mitologie private (la donna-angelo di Montale, i morti di Sereni) è una forma alta, vertiginosa, di apertura al mondo (in positivo o in negativo), alla Storia o, come si sarebbe tentati dire, alla “prosa” del mondo. Questa apertura radicale è frutto di una costante e drammatica tensione etica, di un “impegno” continuo (tanto più lacerante quanto più la nuda esistenza si incontra – e si scontra – con la libertà “ontologica” della poesia, tanto per chiarire e motivare ulteriormente la critica che ho fatto precedentemente a D’Elia) che attribuisce un senso più alto, morale, al fare poetico: l’autore più emblematico in questa prospettiva – e amato da Mengaldo – nel secondo Novecento è, non a caso, Vittorio Sereni. Proprio sulla base di queste osservazioni e tenendo presente il riflesso fondamentale che l’opera (e non mi riferisco solo all’antologia) di Mengaldo ha avuto su Galaverni, ritengo che quello di Mengaldo, come maestro, rappresenti ancora il modo più forte e più libero di leggere, nel senso più profondo, la poesia. È un modo che dovrebbe rappresentare ancora un modello attuale anche tenendo presente i naturali mutamenti di contesto, le necessarie (e feconde) prese di distanza e i superamenti. Galaverni, in questo senso, “supera” Mengaldo nella fiducia più radicale che accorda ad una funzione rabdomantica, quasi medianica della critica.

Non credo assolutamente che, quando si parla di “ideologia” (unita soprattutto alla “passione”, nel senso pasoliniano più autentico e non per nulla molto ammirato da Mengaldo), si tocchi necessariamente un punto a sfavore rispetto alla democraticità dell’espressione o alla libertà. La perplessità nei confronti di D’Elia non nasce da una più o meno condivisibile ideologia, ma dal concetto di libertà, dal momento che la prima arriva a intaccare la seconda (ma non è affatto naturale che questo accada sempre, i due termini non si annullano a vicenda anche se, storicamente parlando, possono essere in conflitto). Troppo spesso il termine “ideologia” viene inteso in senso genericamente e superficialmente polemico, quando si sovrappone senza appello “ideologia” all’idea non di una prospettiva necessaria, quando non teme le aperture, alla lettura e all’interpretazione della realtà, ma all’idea di una prospettiva tout court riduttiva e tirannica.

Talvolta è proprio il (finto) azzeramento di questa posizione che fa tutt’uno con la passione, con le motivazioni storiche ed esistenziali (e con la consapevolezza dell’impossibilità e della pericolosità di una lettura univoca e totalizzante del mondo) a creare più subdole ideologie, questa volta davvero totalizzanti (non ultima quella che arriva ad assolutizzare acriticamente la stessa realtà intendendola come totalità ontologica e inattaccabile emanazione divina), che arrivano ad annichilire o per lo meno ad appiattire valori, percorsi, individualità, creando rispetto all’individualità stessa (e alla storia), un forte processo di rimozione. Non mi sto distaccando dall’oggetto del mio discorso penso di esserne al cuore. Le ideologie (mascherate) cui alludo prediligono, paradossalmente ma neanche tanto, panorami fatti di zone grigie e inerti: certe antologie più o meno recenti (quella di Perilli, Melodie della terra, o in maniera estrema quella sovracitata di Rondoni e Loi) o che è dire poco definire “paludose” lo testimoniano in pieno. Solo nella piena e costante valorizzazione dell’individuo, del suo cammino esistenziale e poetico, nell’interpretarlo a partire dall’unicità del suo percorso (come nell’interpretazione di un destino) e dalla sua rilevanza formale e storica, dalla forza dei suoi conte nuti e del suo linguaggio, si possono lanciare i ponti verso altri contesti e dimensioni (come quella storica, sociale e religiosa) e dare vita a gesti critici, in questo caso specifico ad antologie, che abbiano un valore autentico, capacità di resistenza al tempo, necessità d’essere. Anche in antologie apparentemente più schierate e di “tendenza” (questa volta nel senso più vulgato del termine), ovvero più legate ad una certa idea di poesia, il percorso critico dovrebbe sempre essere fatto a partire dall’“interno” degli autori, dei testi, della “situazione”, anche, paradossalmente, quando si vuole affermare l’ottica della “deriva” (come accade nel Pubblico della poesia), la difficoltà di scrivere versi e di costruirsi un percorso in una situazione dispersiva e scoraggiante. Il pubblico della poesia, antologia sperimentale, quasi d’avanguardia, antologia-mappa estremamente aperta e incline per certi aspetti più alla sociologia della letteratura (o alla critica della cultura) che alla critica letteraria, anche se si presenta appunto come un semplice “registratore” della deriva, testimonia al suo interno la vitalità, lo spirito di resistenza, i tentativi di costruirsi un’identità solida degli allora giovani autori che non rinunciavano, al di là del contesto sfavorevole, a far sentire la propria voce, magari a protestare o a rifugiarsi nel ”privato”, a farsi talvolta poeti di una disperata vitalità e di una fede nella poesia non sopita.

Le prospettive di Berardinelli e Cordelli, dei poeti e del lettore, si intersecano talvolta accomunandosi, talvolta fraintendendosi o contraddicendosi, ma individuando chiaramente (e questo segna anche l’importanza dell’antologia) la forza di un’operazione intelligente e onesta, proprio nelle sue molteplici sfaccettature e aperture, dove i singoli autori (specialmente Bellezza, Alesi e i poeti dell’ultima sezione: Come credersi autori) e i testi arrivano nella loro singolarità a “travalicare” la diagnosi sociologica, per quanto acuta e illuminante. Sono proprio queste caratteristiche d’insieme che impongono Il pubblico della poesia come modello (il prototipo va cercato piuttosto negli Anni Venti, nella celebre e recentemente riedita da Crocetti Poeti d’oggi a cura di Papini e Pancrazi) delle cosiddette “antologie di situazione” dominanti nell’ultimo Novecento (a cui appartengono, anche se in modi differenti e con anche altre implicazioni, La parola innamorata, l’antologia di Porta, Poesia italiana oggi di Lunetta, La furia di Pegaso, Lune gemelle di Broggiato. Antologie come Una strana polvere e I sentieri della notte hanno un impianto più “filosofico” che situazionale o generazionale).

Visibilità dei contesti, visibilità dei percorsi, individuazione, pur nelle diversità, di terreni comuni, tenuta e forza delle ipotesi critiche (tanto più necessarie quanto più la situazione da circoscrivere è caotica e confusa) che non dovrebbero mai sovrapporsi in maniera soffocante all’evidenza delle voci, possibilità per il lettore di molteplici prospettive e di ricostruzioni attraverso le comparazioni, l’individuazione di intrecci e incroci tra i percorsi, la necessità di un progetto che “punta in alto”: questi sono alcuni dei principali criteri operativi e valutativi in cui vengono messi in gioco la “tradizione” (che ogni autore contribuisce con l’unicità della sua voce ad inventare), il “canone”, il “nuovo” e la “storia” intesi come indicatori paradigmatici.

La rara antologia curata da Giovanni Raboni nel 1981, Poesia italiana contemporanea, cerca di ricostruire il panorama del Novecento secondo fasce generazionali e di mettere a fuoco, anche a partire dagli orientamenti poetici e di gusto del poeta-critico che si andavano delineando con una certa precisione a quell’altezza cronologica, una “classicità”, una tradizione già in qualche modo sedimentata nella poesia italiana del Novecento, un punto in cui è ancora possibile individuare un’unità (formale e non solo) nell’esperienza poetica del secolo. Questo trova significativamente uno dei fuochi più rappresentativi (il primo è sicuramente il Rebora dei Frammenti lirici) nell’ampia antologizzazione dei “chiusi” e compatti Mottetti montaliani, ritagliati come esemplari rispetto alla produzione Montale da Satura in poi, ma anche rispetto alle ancora visibili informità e contraddizioni presenti negli Ossi di seppia. Già nel lavoro di Raboni viene ridotto radicalmente il peso della Neoavanguardia definito fenomeno interessante che, però, non sposta più di tanto il panorama della poesia del Novecento rispetto alla novità vera che era già emersa negli Anni Sessanta dal lavoro di Sereni, di Luzi e, contemporaneamente, di Giudici [5]. La rottura operata dalla Neoavanguardia è vista da Raboni più come un’azione astratta e velleitaria. Questa posizione, oggi come oggi, può anche essere condivisibile, ma non si deve dimenticare come certe istanze neoavanguardistiche, soprattutto quella teorica di Sanguineti e quella poetica di Balestrini abbiano rappresentato un oggettivo e necessario oggetto di scontro per molti giovani e meno giovani poeti operanti tra gli Anni Sessanta e gli Anni Settanta, proprio per la loro presenza all’epoca egemonica e sostenuta – talvolta ancora oggi – in sede accademica e politica.

Al di là di queste precisazioni, il discorso sulla riduzione della Neoavanguardia e su una rivalutazione radicale delle novità espressive emerse in altre zone negli Anni Sessanta attraverso poeti come Sereni, Luzi e Giudici, rappresenta uno dei più importanti fuochi dell’altra importante antologia comparsa nel 1996, Poeti italiani del secondo Novecento curata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi. A distanza di più di quattro anni dall’uscita di quella antologia si riescono a vedere più chiaramente da un lato i suoi meriti e le sue aperture, dall’altro lato i suoi limiti, le contraddizioni, le idiosincrasie (e, in certi casi, le chiusure).

Molte critiche di segno negativo sono state rivolte all’antologia in base a un punto che già anticipavo prima: la falsa continuità con l’antologia di Mengaldo. Ciò che può avere creato fraintendimenti e contrasti è stato legato, ad un certo livello, più alla sede editoriale dell’antologia (I Meridiani Mondadori) che alle scelte e alla struttura interna, su cui comunque tornerò.

Al di là del successo, anche in termini commerciali (è arrivata di recente alla terza edizione), si insinua il sospetto che proprio la sede del Meridiano (così “monumentale”, così necessariamente legata, al di là di qualsiasi programma, all’antologia di Mengaldo di cui quella di Cucchi-Giovanardi, aggiungendo solo la specificazione cronologica, riprende anche il titolo) abbia in parte nuociuto e contribuito alla sua non piena riuscita. L’antologia del ’96 può essere considerata sostanzialmente da tre angolature, due delle quali rispecchiano dei nuclei storico-critici importanti che però, invece di armonizzarsi con l’insieme, ne minano, per eccessiva parzialità o per esuberanza, l’armonicità, tanto da far pensare, per assurdo, alla fusione (mancata) di “antologie nell’antologia”. In primo luogo troviamo antologizzati autori appartenenti ad un arco cronologico che per forza di cose si sovrappone a quello considerato da Mengaldo: a partire dai “maestri” che vengono raggruppati in un capitolo autonomo e che, più che come autori antologizzati, vengono presentati come una sorta di stella polare, pilastri indiscutibili e imprescindibili per leggere il secondo Novecento, poeti grandi che, più o meno esplicitamente, guidano e influenzano attraverso la parabola delle loro opere gli autori più giovani, a partire da quelli nati negli Anni Venti. Fino al ponderoso capitolo intitolato Il pubblico della poesia si può trovare una buona parte di autori già presenti in Mengaldo. Cucchi e Giovanardi colgono, spesso a proposito, l’occasione per integrare autori che in Poeti italiani del Novecento erano assenti. Tanto per fare qualche esempio segnalerei Scotellaro, la Spaziani, Roversi, Majorino, Cesarano, Rossi, Piccolo, Calogero, Bandini, Ranchetti (ricordo che nell’intervista che Cucchi mi aveva rilasciato [6] il suo accento polemico era in particolar modo caduto, non a torto, sull’assenza in Mengaldo di Roversi e Majorino). La prima angolatura attraverso cui si può guardare, anche se con una certa semplificazione, Poeti italiani del secondo Novecento è quella dell’“integrazione” rispetto alle diverse esclusioni che Mengaldo aveva compiuto di autori più vicini alla zona cronologica trattata dagli altri due curatori. Non sarebbe nemmeno necessario specificare che, dato il carattere più “parziale” dell’antologia del ’96, fosse, in qualche modo, implicita la necessità di una documentazione più ampia sul periodo. Il parlare di “integrazione” può sembrare certo riduttivo, ma ho scelto volutamente di porre un particolare accento sul problema dei controversi rapporti fra i due Meridiani tralasciando il discorso sulla competenza specifica, sull’ampiezza dei materiali e della documentazione che comunque, nell’ultima antologia, complessivamente non sono in discussione. Al di là di tutto, il fatto che la sede editoriale e la collana fossero le stesse dell’antologia del ’78 (di qui l’idea della possibile continuità) ha portato, nella “sovrapposizione” che si è invece creata più confusione che chiarezza anche rispetto al lettore. La confusione che può effettivamente nascere deriva non tanto dai nomi messi in gioco quanto dalla dimensione progettata. Era difficile entrare nella misura di quel tipo di volume avendo sotto mano soltanto la produzione poetica, mettiamo, tra il ’76 e il ’95 a partire da autori nati negli Anni Quaranta. Ripeto, questo è un problema strettamente legato alla natura dell’operazione editoriale e parlare di correttezza o scorrettezza, di buona o di cattiva fede sarebbe inutile e insensato. Il problema diventa concreto quando ci si accorge di quanto siano incommensurabili il disegno, la struttura, gli intenti legati all’antologia del ’78 rispetto a quella del ’96. L’antologia di Cucchi-Giovanardi è già profondamente diversa a partire dall’ordinamento che non viene predisposto per individui, ma secondo una partizione in capitoli (meno “forte” comunque rispetto a quella fatta da Sanguineti) che distingue generazioni, linee di tendenza, categorie discutibili come il “dialetto”, altre categorie non ben classificabili come “Narratori poeti” e “Quattro percorsi appartati” o che si appellano a pure indicazioni cronologiche, “Anni Ottanta”, con l’eccezione del rilievo dato a due individualità di spicco come Giudici e Zanzotto. Al di là del fatto che Giudici e Zanzotto (Pasolini, Pagliarani, la Rosselli ecc.) fossero già in Poeti italiani del Novecento, ciò che muta sostanzialmente, oltre alla definizione cronologica di “secondo Novecento”, sono il progetto interno dell’antologia, il disegno, l’orchestrazione, la prospettiva storiografica. Dal punto di vista dei concetti che ho esposto all’inizio dell’intervento, vediamo che nell’introduzione di Giovanardi viene immediatamente messa in gioco la nozione di “canone” e non più di “canoni”. Questo implica già un forte rovesciamento di prospettiva. Ciò che Giovanardi vorrebbe individuare, sulla base di un ragionamento di tipo storicistico, è un nuovo “canone” (quello, appunto, del Secondo Novecento) che, come nelle epoche passate, si affermerebbe alla metà del secolo risultando “vincente” su quello che lo ha preceduto. Si capisce immediatamente, anche considerando le scelte dei testi dei singoli autori, che il suddetto canone è strettamente legato ad una radicale istanza realistica e “prosastica”, istanza che poco per volta, a partire già dagli autori di “Quarta generazione” si impadronirebbe della lingua poetica eliminando da essa, per gradi, ogni residuo di linguaggio sublime, post-ermetico, ogni scoria dell’analogismo di marca simbolista affermando la priorità, nei temi e nel linguaggio poetico, del “quotidiano”, della nuda realtà. Pur nella necessaria schematizzazione di un’argomentazione, non si può non indicare questo come punto discriminante: l’individuazione come canone di un linguaggio orientato “orizzontalmente” sulle cose rispetto a un linguaggio “verticale”, basato sulla parola.

Veniamo alla seconda “angolatura”. L’operazione che darà origine al Meridiano si aggancia ad un progetto anteriore di Cucchi, un progetto legato a uno dei principali oggetti della sua militanza critica: l’individuazione di un forte baricentro di sperimentazione formale e linguistica, estraneo e alternativo alla Neoavanguardia, nella poesia degli Anni Sessanta, soprattutto nella poesia lombarda (ma sarebbe più corretto dire milanese). Cucchi parte con l’intenzione di istituire un nuovo assetto storiografico della poesia di quegli anni e di mettere in primo piano non tanto un’ideale prosecuzione della “linea lombarda” anceschiana, quanto il ruolo fondamentale della “cultura lombarda” intesa, nella sua forza, come continua «ebollizione di tensione etica che interviene sul linguaggio, lo stravolge e lo modifica» (etica, linguaggio e realtà: ecco le tre istanze che hanno come capisaldi autori come Giudici, Zanzotto – ma anche Erba, Risi – e i principali autori di area milanese tra gli Anni Sessanta e gli Anni Settanta). La poesia di autori come Raboni, Rossi, Majorino, Cesarano (Neri, anche se incluso nel gruppo, è il poeta forse più estraneo al discorso sul “quotidiano” [7]) raggruppati nella sezione L’etica del quotidiano svolgono un lavoro di sperimentazione formale, di escursione lessicale, di strutturazione delle forme decisamente più potente e significativo rispetto ai seguaci di Sanguineti. Viene comunque il dubbio che un autore come Pagliarani, al di là della sua militanza nel Gruppo ’63, fosse paradossalmente più adatto a comparire in questa sezione che non in quella dell’Avanguardia, anche se il rilievo quantitativo e qualitativo che gli viene dato, rispetto per esempio a Balestrini, è significativo. Stesso discorso potrebbe essere fatto, a maggior ragione, per Loi: spesso le partizioni, come in questo caso, non chiarificano il disegno, ma lo confondono, lo intorbidano. Se tralasciamo questi dubbi, che rivestono, comunque, una certa importanza, il vero fulcro dell’antologia sarebbe stato questo, tenendo presente che la poesia di questi autori forma appunto un bacino di sperimentazione (ma non solo) che si dirama in avanti e che assorbe istanze e novità espressive dal passato: in primo luogo da Sereni (vero capofila). Questo poteva essere, a ben vedere, il nucleo di un’antologia fortemente militante e orientata criticamente che avrebbe avuto ragione di esistere per se stessa e che, al di là del successo commerciale del Meridiano, avrebbe rappresentato certamente un gesto critico più compatto, organico, armonico e necessario (anche se più “parziale”, ma la parzialità non è certo un criterio qualitativo). Confondendosi in parte con un disegno più “globale” e complesso (ma non perfettamente dominato) con la necessità di stabilire un canone generale e “vincente”, di dare ragione a movimenti e figure del tutto diverse, obbedendo ad un’esigenza, nel caso specifico del Meridiano comunque più che legittima, di completezza di documentazione, questo nucleo centrale non ha perso la sua rilevanza critica (che rimane, anzi, uno dei punti di maggiore forza e interesse dell’antologia), ma si è molto indebolito in evidenza e trasparenza.

La terza angolatura problematica riguarda la sezione Il pubblico della poesia. È il punto in cui il discorso critico di Giovanardi necessariamente si incrina, si sgretola, in quanto le istanze del canone “realista”, quotidiano, nell’essenziale pluralità e diversificazione delle voci (il salto epocale tra gli Anni Sessanta e la seconda metà dei Settanta è vertiginoso: siamo già in piena epoca post-moderna o, meglio, per dirla con Beck, nella seconda modernità) si offuscano, si biforcano, si rendono sempre più problematiche e inafferrabili. Era necessario, nella prospettiva di Cucchi e Giovanardi dare grande rilievo e giusta sistemazione agli autori di quella generazione a costo anche di provocare, per lo meno a livello quantitativo, un vistoso (e forse eccessivo) sbilanciamento. Si può parlare a questo punto di un disegno mancato, risolto solo in parte o di un quadro, dal punto di vista critico, consapevolmente incoerente? Fatto sta che la quantità di autori di quel periodo così fecondo, eterogeneo, per certi versi anomalo e “speciale” della poesia italiana, segnato allo stesso tempo da derive e da bagliori mitici, da intimismi sofferti e da grida civili, difficile da documentare in tutta la sua pienezza, poteva diventare veramente, anche qui, con la stessa compattezza e necessità un’antologia diversa, separata.

Intendiamoci, il discorso sulle “antologie nell’antologia” può sembrare paradossale e, per certi versi, assurdo (so benissimo che serve a poco lavorare con i “se”), ma serve sostanzialmente a due scopi: primo, cercare di “radiografare’” meglio, secondo un’ottica un po’ diversa, il corpo dell’antologia così com’è, la sua ossatura un po’ disarmonica, le sue saldature spesso abnormi o troppo fragili e, fuor di metafora, i suoi squilibri strutturali; secondo, cercare di capire (in positivo), proprio a partire da questi squilibri, quelle che si possono definire come le potenzialità irrisolte dell’opera, ma anche le sue aperture feconde, gli spunti originali e purtroppo i suoi limiti intrinseci. Questi risiedono soprattutto nella struttura debole e spesso inadeguata e nel mancato riconoscimento di una generazione successiva e diversa rispetto a quella del Pubblico della poesia, considerata ancora, erroneamente, come l’ultima significativa generazione di poeti in Italia.

Quest’ultimo punto rappresenta la chiusura più vistosa dell’opera: in questo senso Mussapi, la Valduga, Magrelli e D’Elia, che appartengono già a una generazione “altra”, sembrano inseriti quasi come dei corpi estranei, quasi per un semplice dovere documentativo. La stessa vaghezza della dicitura “Anni Ottanta”, puramente cronologica e neutrale, la dice lunga. La generazione individuata proprio nello stesso periodo da Galaverni è quasi assente e, in ogni caso, non riconosciuta come tale. Mancano nell’ultimo capitolo figure importanti come quella del notevole poeta marchigiano Remo Pagnanelli, di Ferruccio Benzoni, di Beppe Salvia, di Alessandro Ceni. È troppo lungo l’elenco di autori “di buon livello” segnalato alla fine dell’introduzione per non far venire il sospetto che sia stata fatta qualche omissione di troppo (si pensi per esempio a De Signoribus, poeta certo non di seconda fila e trascurabile). L’omissione più clamorosa, proprio perché all’interno di un capitolo così rilevante come il penultimo, è quella di Umberto Piersanti che è stato uno dei primi a proporre, già all’epoca della contestazione sessantottesca, un discorso poetico radicalmente alternativo che incarna originalmente nella sua poesia il tema del mito (un mito molto diverso da quello di Conte che si affermerà dopo, un mito radicalmente laico, totalmente privo di elementi mitologici e pagani, di matrice pavesiano-bertolucciana, più intimistico, ma venato nel profondo di afflati epici, come testimonia il controcanto della sua produzione in prosa) nell’esperienza poetica. Il già notevole Il tempo differente è del ’74; il disomogeneo ma estremo (e fortemente controcorrente) L’urlo della mente è del ’77, ma il suo percorso organico, anche se eterogeneo nelle forme espressive adottate, arriva al suo esito più alto proprio nel 1994 con I luoghi persi, libro decisamente importante, forse una delle opere più significative scritte tra gli Anni Ottanta e Novanta e proprio da un autore di quella generazione.

Il problema rimosso dall’opera di Cucchi-Giovanardi, alla fine, è proprio quello del “nuovo”. Se Mengaldo si preoccupava in qualche modo del “nuovo”, della nuova generazione che si stava affacciando alla ribalta, ma non ne proponeva esempi testuali date le premesse e il carattere della sua antologia, in Cucchi e Giovanardi, rispetto ad un ipotetico “nuovo”, più che un atteggiamento di cautela sembra prevalere un atteggiamento di sfiducia. È da qui, forse, che deriva anche il mancato riconoscimento di una genera zione nuova di poeti nati tra la fine degli Anni Cinquanta e gli Anni Sessanta. L’unico riconoscimento rispetto a questa fascia generazionale di autori compiuto da Cucchi, che sembra attuare attualmente un fitto (e certamente meritorio) lavoro di riconoscimento generazionale – quasi ricercando un implicito legame di “paternità” – più con i poeti giovanissimi nati negli Anni Settanta, riguarda singole individualità, valga per tutte quella di Antonio Riccardi. È significativo il finale dell’introduzione di Giovanardi: «La poesia italiana di secondo Novecento pare disporsi a delibare quest’ultimo scorcio di secolo in un silenzio più di rinuncia che di attesa; o forse sono le proiezioni apocalittiche di fine millennio a forzare la mano e a dipingere la situazione più nera di quella che è. Se sia stadio definitivamente terminale, momentanea sospensione o fertile incubazione del nuovo non è dato sapere. Non resta perciò che stare ai fatti, accantonare i progetti, e scrutare sempre più inquieti il cielo in cerca di segni» [8].

Il 1996 è un anno chiave per le antologie di fine secolo, soprattutto per l’uscita di Nuovi poeti italiani contemporanei e di Poeti italiani del secondo Novecento. Non ci sono soltanto antologie importanti o di eccellenza, ma anche antologie minori, per così dire “di sfondo” che per una ragione o per l’altra non hanno avuto la forza di spostare di molto il baricentro critico e il panorama che si erano delineati tra la fine degli Anni Settanta e i primi Anni Ottanta. Ne prenderò in considerazione due non tanto per dovere documentativo, quanto per indicare ulteriori elementi di novità, attraverso il confronto, nelle opere più significative (mi riferisco soprattutto a Galaverni). Un’antologia “di sfondo” che esce sempre nel ‘96, ma che non si sposta molto dagli autori della generazione del Pubblico della poesia è La furia di Pegaso curata da Marco Tornar per i tipi di Archinto [9]. Mi sembra opportuno leggere le dichiarazioni del curatore nell’ampia e chiara introduzione, per quanto legittime, come specifiche dell’identità unica e irripetibile di una generazione formatasi nel cuore e verso la fine degli Anni Settanta piuttosto che della totalità di quasi un trentennio di poesia (gli “estremi” sono rappresentati da Invettive e licenze del’71 e da Corsia degli incurabili del ’95). Tornar abbraccia nuovamente l’ottica della “deriva” diagnosticata da Berardinelli e Cordelli nell’antologia simbolo di quella generazione e si collega, condividendola, all’idea di Cordelli sulla “morte eroica” della poesia degli Anni Ottanta. Sulla base di questa discutibile premessa storica, il curatore auspica il rafforzarsi di una valenza politica della poesia, l’affermarsi del poeta come figura di dissidente, contro il “sistema”, contro l’annichilimento della società di massa e del consumismo. La poesia deve essere “dissidenza” e il punto di partenza, in questo senso, non può che essere l’opera di Bellezza. Giusto è l’aver riconosciuto la legittimità di ogni singolo percorso poetico senza calcare troppo la mano, in sede di critica, con l’idea della “dissidenza” e del “civile” anche se, si capisce, siamo ancora nell’ambito di una riflessione incentrata più sul problema della “parola” che sul problema della “realtà” (anche, paradossalmente, quando si invoca il coinvolgimento “civile”) senza riuscire ancora ad entrare profondamente nel merito del loro rapporto. È il rapporto parola/realtà, insieme al problema della nuova identità del soggetto poetico, a rappresentare la vera problematica nodale, per lo meno della poesia degli ultimi vent’anni, più che il rapporto dicotomico e “guerrigliero”, se si può dire così, tra parola e Società. Va bene caratterizzare e ritrarre una generazione mediante determinate categorie e dicotomie, meno bene, forse, assumere questi punti di vista (dissidenza, battaglia) come diaframma per leggere e interpretare tutta la poesia di un trentennio, scartando nuovi e fondamentali nuclei problematici (e probabilmente nuovi autori, visto che siamo nel 1996). Non si tratta assolutamente di negare valore a un concetto, implicita mente coinvolto, come quello di “resistenza”, ma sarebbe necessario ampliarlo e integrarlo, oltre le biforcazioni Parola/Società, Individuo/Società. Si profila, e va bene, un’antologia di tendenza e (con qualche approssimazione) di generazione dove le scelte dei testi, anche se con molte approssimazioni, rispondono agli assunti teorici di base, ma perché escludere D’Elia (in questo caso l’esclusione è evidentissima) quando se ne parla ampiamente nell’introduzione e viene citato proprio in virtù della componente civile del suo fare poetico? E perché di Cucchi antologizzare solo testi tratti dalle Meraviglie dell’acqua? Molti altri testi, tratti da altre raccolte, sarebbero stati pertinenti al discorso e soprattutto più esemplari di un percorso complessivo tutto sommato abbastanza in sintonia con l’impostazione di Tornar. La poesia di Cucchi tende sempre ad un sofferto e lucido intimismo, anche nei momenti più “oggettivi” e la sua opera è costantemente sorretta, quasi come se fosse una premessa non esplicitata ma umanamente forte, da una consistente base etica e civile: inoltre, soprattutto se si guarda al Disperso, è poesia della “dissidenza” quante altre mai. Questi mi sembrano i sintomi, rispetto ai testi, di un criterio di antologizzazione piuttosto vago e non sufficientemente solido.

È importante, a mio avviso, proporre osservazioni di questo tipo, anche se criticabili finché si vuole, soprattutto perché nascono dal confronto con altre prospettive e con altri esiti più esemplari. Proprio Galaverni, nell’antologia coeva, al di là di un più radicale e militante discorso sul “nuovo”, mette in gioco, meno di sfuggita e con più rigore altre prospettive, più fertili da un lato e più attuali, meno anacronistiche dall’altro (senza comunque negare o contraddire le premesse di Tornar). In Nuovi poeti italiani contemporanei viene messo in gioco, attraverso un’angolatura nuova, il rapporto con la “storia” vissuto non solo dall’individuo-poeta come rapporto di “posterità”, ma, più radicalmente, vissuto attraverso la percezione, tragica e liberatoria al tempo stesso, dell’“essere postumo”. Sempre in questa antologia vengono implicate altri nuclei problematici importanti che l’attraversano come tanti fili rossi: il deciso, netto distacco generazionale («Improvviso, mi libero del padre e della madre» è un verso di D’Elia che potrebbe essere posto come epigrafe di tutta l’antologia); il rapporto, attualissimo, fra parola poetica e soggetto, la ristrutturazione, il ricomponimento di un io da troppo tempo frantumato e scisso; il rapporto, ormai non più trascurabile, tra la poesia e l’istanza del reale, tra la parola e la realtà non più visto, come capitava anche in altre apparentemente più radicali poetiche del “reale”, in funzione oppositiva («Mai si dirà la nostra ansia dell’oggetto, / del guardare le cose con parole / così attenti alle parole del linguaggio»: sono altri versi di D’Elia, sempre tratti da Non per chi va, che potrebbero rappresentare un’ulteriore epigrafe). Il Dopo che dà il titolo alla prima raccolta di uno degli autori più emblematici dell’antologia, Pagnanelli, è appunto il “dopo” della storia, dove ognuno riconosce la propria condizione non solo di essere, rispetto alla storia, “postumo”, ma di vivere già come “su un’altra riva”, forse solo, ma di nuovo libero, anche nella solitudine, di dare parole al mondo e dire il proprio destino, di riconoscere nuovamente radici e luoghi, di prendere coscienza nuova e salvifica del proprio radicamento in qualcosa o, magari, del proprio sradicamento.

Ecco come le prospettive si possono incastonare, criticare, ampliare, correggere continuamente, anche a partire da un puro confronto degli oggetti, ma sempre con la necessaria libertà di adottare degli oggetti privilegiati, per valore o significato, degli oggetti “modello”.

Tra le antologie “minori” uscite sempre nello stesso periodo si segnala sicuramente per il suo rigore teorico e la sua serietà I sentieri della notte curata da Gualtiero De Santi e pubblicata da Crocetti. Si tratta di un lavoro che prende le mosse da profonde riflessioni sulla condizione della poesia e dell’individuo nella contemporaneità e che si riallaccia ai massimi scrittori e pensatori del Novecento. Purtroppo non mi è possibile addentrarmi come vorrei nelle questioni sollevate nell’introduzione dal curatore, mi pare, tuttavia, importante segnalare alcuni punti fondamentali per l’interpretazione dell’intera antologia: la questione della ricerca incessante dell’“origine”, della “nostalgia dell’originario”; l’idea, già tutta incarnata nel cuore del Novecento, dell’esperienza di un mondo frantumato e diviso (con la conseguente frantumazione di un’individualità che appunto nella ricerca dell’essenza, dell’origine tenta, anche tragicamente, di ricomporre il proprio senso); l’individuazione del ritorno al “mito” come “uno dei grandi eventi della nostra cultura europea (De Santi prende, però, con discrezione le distanze soprattutto da alcune tesi estreme del Mitomodernismo nostrano e ribadisce il profondo legame tra l’esigenza del mito – come origine, ritorno – e la figura del “nomade”, dell’esiliato che cerca senza tregua identità e radici stabilendo implicitamente un cortocircuito tra alcune istanze “pagane’” del pensiero mitico e una sensibilità profondamente ebraico-cristiana). Il curatore mette giustamente in luce la presenza non tanto di “un” linguaggio della poesia italiana, ma di “linguaggi” facendo riferimento non tanto alle “scuole’” o ai gruppi quanto alla «vitalità delle singole esperienze e personalità, in una situazione attuale ancora problematica e in movimento». Egli riprende nuovamente il tema dell’io decentrato e frantumato dal quale ricompare l’idea di una «soggettività antagonistica». Questo problema è, comunque, sempre da discutere, per il fatto che, se fino agli Anni Settanta-Ottanta era quasi scontato parlare in questi termini tanto da farli diventare quasi dei luoghi comuni (io frammentato, funzione antagonistica della soggettività “superstite” e della poesia ecc.), oggi la questione appare molto più problematica e sfumata, poiché è proprio lo statuto della realtà a modificarsi incessantemente. Da un lato l’io nell’epoca della seconda modernità e della globalizzazione rischia un’ulteriore ridefinizione nel senso dell’appiattimento, dell’annichilimento (più che della frantumazione), dall’altro lato proprio l’istanza della realtà “globalizzata”, estesa all’infinito nello spazio e nel tempo come un fantascientifico deserto, sembra legittimare, più o meno paradossalmente, forse per reazione, ma anche per fattori più sottili, il rinascere di un io non tanto più forte o più integro, affermativo, quanto un io che prende coscienza del proprio smarrimento – a livello territoriale, politico, esperienziale, filosofico – che cerca segnali e senso (autoaffermazione, ricerca di identità: l’ipséité, per dirla con Bauman che deve «essere costruita e ricostruita, e costruita ancora, e costruita di nuovo» [10]) nella realtà, per quanto fluttuante e dispersa, proprio a partire dalla coscienza di una sua intrinseca libertà e unità nate, come il fiore nel deserto, dalla solitudine, dalla paura e dall’incertezza (da più lati, soprattutto da parte di certo integralismo politico-religioso in voga anche sul fronte culturale e letterario, si parla, sostanzialmente in maniera superficiale, approssimativa e denigratoria, di cultura “individualista” e viene lanciata «una continua lotta all’individualismo, ad ogni livello esso si annida»). Il fatto forse più pregnante riguarda proprio quel daimon, quel “destino” che si vive e si realizza proprio “nella” realtà e non “contro” di essa e forse ciò che può sembrare ancora oggi (e sempre) più appropriato a definire un possibile antagonismo del soggetto (poeta e no) rispetto al reale non è tanto il reale in sé quanto l’inesorabile percezione del Male.

Al di là di queste osservazioni è comunque chiaro che l’antologia di De Santi, anche se non offre un panorama nuovo e criticamente rischia poco, tanto da risultare alla fine dei conti poco influente e di secondo piano, riprende seriamente temi e riflessioni cruciali per la poesia della fine del secolo appena trascorso riconducendola alle sue più profonde radici di pensiero e soprattutto non demonizzando l’aspetto “nichilistico” che ha lasciato la sua impronta, in positivo o in negativo, in gran parte del pensiero novecentesco e in molte espressioni dell’arte, spesso non semplicemente (come grossolanamente ogni tanto si sente dire, anche da personaggi “illustri”) per legittimare il “brutto”, ma anche, in forma di paradosso, per dare vita a “visioni” universali (come quella di Montale) che nascono proprio, di rovescio, a partire dalla presa di coscienza del buio, del “vuoto” e dell’inconsistenza della realtà e che non hanno avuto eguali nella storia della poesia novecentesca, non solo italiana (a meno che non si voglia ridurre, come spesso si fa, la visione nichilistica o quanto meno scettica del mondo all’opera delle Avanguardie storiche o delle Neoavanguardie).

Il limite intrinseco di questa antologia, e in generale di certi approcci critici alla letteratura e all’arte in genere, mi pare quello di non riuscire, al di là di qualche rilievo puntuale, a entrare veramente nello specifico di un autore e del suo percorso, nella sua “carne”, come se un’impronta esclusivamente filosofica impressa al discorso letterario non fosse alla fine in grado di produrre aperture o prospettive illuminanti sull’unicità dei singoli autori e nemmeno sul loro accostamento in un contesto antologico, come se la filosofia egemonizzasse (e alla fine appiattisse riducendo in buona parte le differenze) il discorso sulla materia prima dell’antologia: i testi, gli autori, la necessità della loro presenza e della loro particolare disposizione.

In questo excursus su alcune antologie dell’ultimo Novecento, costituito per lo più di note e riflessioni, non ho volutamente abbozzato una storia, ma ho parlato principalmente di quelli che mi sono apparsi evidentemente i punti di riferimento, i criteri, per valutare, sia per quelle che ci sono sia per quelle che ci saranno, le antologie “forti” e necessarie. La loro effettiva importanza e propulsività sono diventate ormai patrimonio della critica; per quelle più recenti, invece, il discorso rimane aperto. Sono solo il tempo, l’uso, i contesti spesso così mutevoli che potranno “parlare”, ma le loro dinamiche non si limitano al settore letterario.

Mi si potrà certo obiettare, per esempio, che la mia lettura predilige, in linea di massima, le antologie che presentano un certo grado di sistematicità (questo vale ad esempio per Mengaldo, ma soprattutto per Galaverni che unisce militanza pura, scoperta del nuovo, ricerca di una nuova tradizione e sistemazione rigorosa). È stato detto da qualche parte che la sistematicità appiattisce, che la sistematicità è «cosa da accademici» oppure che «non sbaglia mai», perché non rischia. Quest’ultimo punto è palesemente falso, a meno che non ci si trovi di fronte a qualcuno che crede ancora nella possibilità di un’operazione sistematica assolutamente esaustiva e neutrale. Anche il più ordinato e sistematico dei discorsi presuppone, parlando in questo caso di antologie, una “visione”, un’orchestrazione (una tendenza ideologica, perché no?), un’angolatura che portano su di sé il rischio di una lettura e di una prospettiva criticabili, il rischio dell’omissione, della riduzione o del non riconoscimento (nel caso di autori o, se vogliamo, di movimenti letterari o di generazioni). Anzi, talvolta il rischio maggiore può annidarsi, paradossalmente, nelle operazioni più rigorose e compatte.

Al contrario, rischiano molto meno le antologie (che già prima definivo “palude” e così ben rappresentate dal Pensiero dominante, antologia di cui sarebbe utile parlare soltanto per capire quanto aberranti siano certi attuali e striscianti “discorsi” sulla poesia) che a partire da un’idea generica che si presuppone forte o vincente da imporre come fondante, rimuovono tutte le differenze (e lo stesso concetto di differenza); mettono dentro un po’ tutti come in un gran calderone, non dando la minima idea del valore e del percorso dell’autore (come se un destino fosse sacrificato alla religione del “gesto” poetico in sé, assoluto, privo di sfumature) creando confusioni, livellamenti inaccettabili, del tutto arbitrari e appiattimenti, dando alla fine, paradossalmente, l’idea di un insieme più chiuso che mai, come immerso in una coltre fumosa, scarsamente decifrabile e, soprattutto (e questa è la cosa più grave e pericolosa) falsamente democratico.

NOTE

[1] Un panorama della poesia italiana contemporanea, edito originariamente in «Strumenti critici», n. 14 (febbraio 1971), ora in PIER VINCENZO MENGALDO La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Si tratta di una recensione-saggio essenziale per capire e inquadrare meglio l’antologia di SANGUINETI, ma anche e soprattutto, con il senno del poi, l’antologia di MENGALDO.

[2] Savelli, 1980; Marcos y Marcos, 2000. Nella riedizione la prefazione in forma di lettera a ROBERTO ROVERSI è stata espunta.

[3] Uno degli interventi più appropriati e illuminanti sulla Parola innamorata, anche se con qualche esagerazione valutativa, è stato scritto da PAOLO RAGAZZI in un intervento sulla rivista «Pelagos» (luglio 1994): Dalla Parola innamorata a oggi (qualche nota in margine a un quindicennio). Cito l’estratto che più interessa il mio discorso: «Cos’è un’antologia forte se non un mandala, uno specchio magico in grado di captare radiazioni dai più disparati orizzonti della parola e di condensarle in una sorta di prisma, di arazzo multiplo e unitario? Di questa pulsione incantatoria, poche antologie della nostra fine secolo hanno saputo valersi così intensamente come La parola innamorata. Contrariamente a quello che molti hanno poi affermato, La parola innamorata è tutt’altro che il frutto di un semplice trompe-l’oeil. Qualcosa di davvero miracoloso e illuminante – qualcosa, vorrei dire, di “mozartiano” – agisce in questo libro: un gesto invisibile e sovrano, ironico e mistico, in grado di mostrarci l’altro lato della nostra dispersione, la possibilità di una luce in cui annegare, e rovesciare, la crisi dei nostri linguaggi».

[4] La questione del rapporto lingua poetica-prosa nel Secondo Novecento con le sue implicazione è stata trattata in modo illuminante, sintetico ed esaustivo da ROBERTO GALAVERNI nel suo saggio Seguendo il luogo dei poeti la cui prima parte è comparsa su «Nuovi argomenti», n 12, ottobre-dicembre 2000.

[5] Mi riferisco alle dichiarazioni fatte da GIOVANNI RABONI in un’intervista a me rilasciata a Milano nel febbraio 2000 e che sono documentate nella mia tesi di laurea Le antologie italiane nell’ultimo Novecento (1966-1996), precisamente nel paragrafo dedicato alla sua antologia.

[6] Milano, marzo 1999. L’intervista è riportata integralmente in appendice alla mia tesi.

[7] Si veda a questo proposito l’intervento di ROBERTO GALAVERNI Come attraversare il deserto in AA.VV. Memoria, mimetismo e informazione in “Teatro naturale” di Giampiero Neri – Saggi critici a cura di SILVIO AMAN, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999, pp. 101-102.

[8] Poeti italiani del secondo Novecento a cura di MAURIZIO CUCCHI e STEFANO GIOVANARDI, Milano, Mondatori, 1996, pag. LVIII.

[9] Non mi sembra molto rilevante, nell’ambito delle antologie che inquadrano quella generazione, l’antologia Anni Ottanta curata da LUCA CESARI per la Jaca Book nel ’91. Al di là di un trasversale taglio tematico incentrato molto sui motivi del mito, del rinnovato rapporto dell’individuo con le energie cosmiche e naturali, l’antologia può essere utile per i suggestivi e appassionati ritratti di Carifi; ma, se la si guarda come antologia che ri-delinea il profilo di una generazione (e i nomi presenti possono legittimare questa prospettiva), è assurdo che si escludano poeti come Viviani e Bellezza (e qualche riserva si può avere sull’assenza di Zeichen e di Scalise anche se, mi rendo conto, si allontanano da certi assunti tematici dell’antologia che, comunque, pecca di chiarezza di intenti e di impostazione). Inoltre è inaccettabile, dal punto di vista del metodo, che di tutti gli autori presenti, con un percorso poetico ben definito e maturo, si antologizzino i testi tratti da una sola opera.

[10] ZYGMUNT BAUMAN, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999 pag. 66.

 

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