L’altro tempo di Auden
L’opera poetica e saggistica di Auden (1907-1973) sta ottenendo in questi anni, sull’onda di un forte rilancio editoriale che vede in prima linea la casa editrice Adelphi, un certo successo di pubblico e di critica. Quali sono le ragioni di questa riscoperta? A un primo sguardo, sembrerebbe trattarsi di uno dei non rari paradossi editoriali del nostro Paese, considerando quanto poco dovrebbe risultare congeniale alla nostra tradizione l’innesto delle opere del poeta angloamericano. L’Italia, secondo i parametri più diffusi, è un Paese malato di lirismo, viziato, sin dall’origine della propria letteratura, da un peccato di petrarchismo: la “religione delle lettere”, sulla base a volte di consolidati classicismi, a volte di risorgenti idealismi, domina le nostre scene, guidando il gusto dei critici e dei lettori verso un ideale di poesia pura. Questa, almeno, è la facciata che manifesta una tradizione in cui autori come Pasolini, Fortini, Bertolucci o Pagliarani, per fare qualche minimo esempio, devono cedere i riflettori ad altre, più celebrate esperienze.
Ma si tratta, appunto, di una facciata: i percorsi culturali (le tradizioni di cui si compone una tradizione) che pulsano ossigeno e che danno vita al metamorfico sviluppo della letteratura, sono spesso sotterranei, ben celati agli sguardi superficiali. Così anche un poeta come Auden, che notoriamente ha orientato la sua opera contro lo spettro della poesia pura, può trovare da noi rinnovata attenzione, e per svariati motivi. Alcuni di questi risultano esterni al valore e alla natura della sua opera. Si tratta di fattori contingenti, come il privilegiato rapporto che lega da almeno cinquant’anni (per ragioni anche banalmente storiche, oltre che per il lavoro imprescindibile di svariate generazioni di letterati) il “mito” dell’America all’Italia, oppure il fatto stesso che Auden trascorse da noi diversi anni della sua vita. E si potrebbero trovare anche incentivi più contingenti, come la particolare efficacia del titolo (La verità, vi prego, sull’amore) con cui la casa editrice Adelphi ha dato il via alla riedizione del poeta, “riscoperto” in Inghilterra anche grazie all’interpretazione di una sua poesia in un film di pochi anni fa (Quattro matrimoni e un funerale), col rinnovarsi delle riflessioni intorno al tema dell’omosessualità. Ma non mancano ragioni più inerenti alla letteratura: pensiamo al filone eliotiano (il cosiddetto “modernismo”, per intenderci), da cui muove anche il poeta di York, che attraversa il nostro secolo, soprattutto nel versante posto maggiormente in luce (Montale). E forse, mutati i tempi, anche in Italia ci si sta naturalmente volgendo verso una poesia meno protetta nell’hortus conclusus delle lettere e più disponibile alla narrazione, al confronto con la storia, o più genericamente meno oscura e più leggibile: in questo senso, si potrebbero citare non solo molte opere di giovani, ma l’attenzione rivolta al teatro o al poema dai nostri maggiori autori.
Ma queste sono soltanto le premesse perché l’innesto della poesia di Auden riesca, almeno parzialmente, e non si limiti a un recupero “accademico”. Il resto deve compierlo l’opera da sé. E qui ci troviamo di fronte a un bivio: l’esatta comprensione e valutazione del poeta angloamericano. Quale sia la sua “funzione”, entro l’ideale sistema letterario, pare ormai chiaro: egli rappresenta il prototipo del poeta per cui tutto può divenire materia di rappresentazione. Il suo sguardo è inclusivo, capace di assemblare le fonti più disparate fino a ridurre, o elevare, la specificità della poesia alla poiesi, all’ars. La sua vasta produzione accoglie molteplici registri, compresenti anzi in ogni raccolta e in ogni testo: dal discorsivo al lirico, dal satirico all’eloquente, dal tragico al comico, i suoi versi conoscono il volo radente sulla prosa, la leggerezza della filastrocca, l’incisività della sentenza, la malìa del nonsense. E a tenere insieme questi registri è proprio la cucitura formale, di stampo classicista ma di natura, a ben vedere, sperimentalista, dal momento che la “veste” metrica, strofica e retorica applicata ai testi, giunge al poeta svuotata dall’interno dalla tradizione del Novecento. Il suo classicismo è anacronistico e bizzarro: non c’è assolutezza nella forma, le raccolte possono assemblare i testi anche in ordine alfabetico. Davvero, come si è detto, Auden rappresenta il tramonto della poesia pura, indicando con questo termine il sogno romantico e simbolista dell’arte disvelatrice dell’arcano per mezzo di una lingua non razionale, oscura e immobile nella propria eterna perfezione e sacralità. Nell’alveo, tipicamente angloamericano, di una poesia incline al recitativo e prossima alla prosa, Auden aspira all’intelligibilità, con uno spirito ecumenico comprensibile forse solo per chi scrive nella sua lingua. Da qui nasce anche l’accusa rivoltagli di compiere, per mezzo di un lessico tendenzialmente semplice, una sorta di “giornalismo in versi”. L’amico Stephen Spender, conosciuto al Christ Church College di Oxford, asseriva che «le più diffuse poesie di Auden sembrano disintegrarsi nelle loro singole componenti, senza essere tenute insieme da un’idea centrale»: quasi tentando di ridurlo, forse per naturale volontà di rivalsa, a un esperto degli strati superficiali della poesia (piacevolezza formale e inesausta applicazione).
Cultore di una poesia che accetta la propria mutevolezza e, di conseguenza, la propria contraddittorietà, Auden non cerca di identificarsi in una cifra letteraria precisa, in una definizione critica e metastorica. Così, paradossalmente, si potrà scoprire in lui un poeta a tratti anche arduo, a patto di comprendere che la natura della sua oscurità non è fondata sull’immagine, non proviene dai fondali della coscienza e dagli abissi dell’animo umano: il suo psicologismo ha infatti salde basi razionalistiche (è lettore di Freud), così come i suoi passaggi più ambigui e di difficile interpretazione sono la conseguenza dell’intricarsi dei concetti e delle strutture formali. La ricerca del consenso avviene in lui per via di persuasione (sia pure estetica) piuttosto che per la pretesa di rivelare verità attinte alle sacre sorgenti dell’oltre.
Se, dunque, la parte di Auden nella letteratura è chiara, ambigua resta la sua interpretazione: deve essere considerato una voce pubblica capace di ammaestrare a un ideale di civiltà, interpretando la storia contemporanea, o un prolifico versificatore sulla base del sentire comune? Un coerente ricercatore della verità nella molteplicità delle sue manifestazioni oppure un poeta-camaleonte? È lecito, insomma, ridurre Auden, come per il “secondo Montale”, a un iniziato dell’ironia, della conoscenza viva nel puro atto di rovesciamento dei cliché cui di volta in volta si applica?
Tutti i capi di tali questioni sembrano mirabilmente annodarsi in Un altro tempo, raccolta problematica sotto più aspetti. Anzitutto, essa è cruciale per il personaggio Auden, divenuto ben presto esponente di primo piano della cultura di sinistra: la poesia Spain 1937, inclusa in questa silloge, che testimonia la sua partecipazione alla guerra civile spagnola, ebbe un notevole impatto sui lettori in Inghilterra e ne consacrò l’immagine d’intellettuale engagé. Il tono sentenzioso anima qui una composizione dal rigido parallelismo retorico delle quartine: a una prima parte, che scandisce con il sempre più ravvicinato e martellante ritornello «Ma oggi alla lotta» l’abbandono di tutto ciò che caratterizzava il passato, in nome dell’urgente adesione all’impresa del momento («Ieri l’installazione, di dinamo e turbìne; / la costruzione di ferrovie nel deserto coloniale; / ieri la classica lezione / sull’origine dell’Umanità. Ma oggi la lotta»), succede una sequenza in cui si levano le voci di figure stereotipe come il poeta, il ricercatore, i poveri, le nazioni stesse, la vita, che rivendica concretezza e finisce identificandosi con la Spagna: «Oh, no, non sono io il Motore, / non oggi, non per te. Per te io sono // il consenziente, il compagno del bar, il gabbato: / sono quello che fai; sono il tuo desiderio d’essere / buono, il tuo arguto racconto; / sono la tua voce pubblica; sono il tuo matrimonio. // Che cosa proponi? Costruire la Città Giusta? La costruirò, d’accordo. O è il patto suicida, la morte / romantica? Molto bene, accetto, perché / sono la tua scelta, la tua decisione: sì, sono la Spagna». E subito riprende l’enfasi, scandita a colpi di grancassa: «Domani per i giovani poeti che esplodono come bombe, / le passeggiate sul lago, l’inverno della comunione perfetta; / domani le corse in bicicletta / fuori porta le sere d’estate: ma oggi la lotta», finché la poesia ribatte definitivamente sull’«oggi» nelle ultime, reboanti strofe.
Eppure, in seguito anche a una sorta di delusione maturata per quell’esperienza decisiva, oltre che per altri discussi motivi personali e letterari, nel 1939 Auden si trasferì definitivamente negli Stati Uniti (prenderà poi la cittadinanza americana nel 1946), percorrendo all’inverso l’asse che portò Pound ed Eliot dal Nuovo Mondo alla riscoperta dell’Europa. Questa scelta, che per molti assunse il valore di una abiura e di una fuga, verrà aspramente criticata. Si tenga presente che tutto ciò avvenne alle soglie della Seconda Guerra Mondiale: il 1° settembre 1939, infatti, l’esercito nazista invase la Polonia. E il poeta celebrò anche questo evento con un’altra discussa poesia d’occasione – September 1, 1939 – dove una struttura retorica affine a quella del componimento dedicato alla Spagna, si stempera in un andamento elegiaco: «Siedo in una delle bettole / della Cinquantaduesima Strada / incerto e spaventato / vedendo scadere le astute speranze / d’un decennio basso e disonesto: / onde di rabbia e di paura / circolano per le luminose / e oscurate contrade della terra, / ossessionando le nostre vite private; / l’indicibile odore della morte / offende la notte di settembre». Secondo una tipica (e universale?) alternanza fra tensione “civile” e “intimismo”, agli ardori della poesia sulla guerra spagnola seguono i toni crepuscolari e moraleggianti di questa canzone, in cui si celebrano verità semplici, nostalgicamente indicate come da una posizione d’inedia: «dobbiamo amarci l’un l’altro o morire. // Senza difesa il nostro mondo / giace sotto la notte attonito; / eppure, accesi ovunque, / ironici punti di luce / lampeggiano là dove i Giusti / si scambiano i loro messaggi: / oh, ch’io possa, composto come loro / d’Eros e di polvere, / assediato dalla medesima / negazione e disperazione, / mostrare una fiamma affermativa». La tragedia della storia si consuma nell’indifferenza generale, come nel famoso dipinto di Bruegel, La caduta di Icaro (giustamente riprodotto sulla copertina dell’edizione Adelphi), elevato a emblema nella poesia Musée des Beaux Arts, «ogni cosa ignora / serena il disastro».
Un altro tempo, dunque, fin dal titolo è raccolta cruciale, dove il passaggio, magmatico e graduale, da un “primo” a un “secondo” Auden (giunto anche biograficamente “nel mezzo del cammino”), non è privo di ripensamenti e di ambiguità. Non è un caso che proprio queste due discusse e celeberrime poesie verranno poi espunte dalla raccolta, pubblicata in prima edizione nel 1940. Ma i testi connessi alla controversa immagine del poeta non si limitano ai due casi menzionati. Si pensi alla dedica che apre la raccolta: Chester Kallman, il destinatario ideale del libro (con il quale scriverà nel ‘51 il libretto per l’opera The Rake’s Progress di Igor Stravinsky), era il suo amante diciottenne. E la galleria di autori, exempla privilegiati di una personale tradizione, evocati nella prima sezione (dal titolo Persone e posti, «forse in omaggio – come afferma Gardini – al libro di Karl Shapiro Person, Place and Thing, molto stimato dal giovane Auden»), rappresentano spesso illustri casi di omosessualità. Ma nel libro si potrebbero anche rintracciare le prime avvisaglie del prossimo, e anch’esso assai problematico, riaccostamento al cristianesimo (la lettura di Pascal lascia qui l’impronta in una poesia a lui dedicata), i segni dell’insofferenza verso la cultura europea e in particolare inglese (affiorante soprattutto nei riferimenti all’ambiente scolastico), la ricerca, che fu già di Rimbaud (altro referente elevato a emblema), di “nuovi orizzonti”, la scoperta, ancora titubante, della realtà americana, «dove ciechi grattacieli usano / tutta la loro altezza a proclamare / la forza dell’Uomo Collettivo».
Con la seconda sezione (Lighters poems), la vena affabulatoria del poeta apre poi nel cuore della raccolta un vasto spazio evasivo in cui dominano accenti più divertiti e ironici, moltiplicando i livelli di lettura possibili e i temi già posti in essere. Così, per esempio, il lettore potrà intravedere nella raccolta il filo tematico dell’amore, celebrato dalla dedica iniziale alla poesia d’occasione conclusiva, un Epitalamio (Per Giuseppe Antonio Borgese e Elizabeth Mann), passando attraverso alcune fra le poesie più belle: Appoggia, amore, il tuo capo assonnato…, Canzone, le diverse ballate in cui emergono storie sentimentali di fantasia a tratti grottesca o il famoso Funeral Blues (la poesia in morte dell’amato recitata nel film ricordato più sopra), e così via: tema non semplicemente giustapposto a quelli “civili” se, come abbiamo visto, l’ultima verità cui il poeta approda è sempre il riconoscimento della supremazia del comandamento morale dell’amore, vivo in tutte le manifestazioni in cui esso si incarna: dall’eros alla carità, dall’amore coniugale a quello universale. Né andrà sottovalutato il significato della terza sezione, che include le Poesie d’occasione: se in esse risulta predominante un filtro retorico inizialmente fastidioso, non si tarderà a trovare proprio in tale sezione il compimento di molti sensi attivati nelle pagine precedenti. Gardini, traduttore del volume, parla nella nota conclusiva di un «percorso morale del libro […] ascendente, quasi dantesco; non manca alla fine neppure la visione celeste dei beati: Mozart, Goethe, Blake, Tolstoj, Hölderlin, Wagner, che augurano gioia ai derelitti terreni». Ma si pensi anche all’importanza della poesia, la penultima, scritta In memoria di Sigmund Freud, «un ebreo importante che moriva in esilio», che tanta parte ebbe nella formazione del poeta.
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