Nicola Vitale, fotografia di Dino Ignani

Poeti contemporanei: Nicola Vitale

(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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È una fenomenologia dell’esperienza individuale a farsi carico della coralità suggerita dal titolo Progresso nelle nostre voci, esito preminente di un lavoro lungo quindici anni (che ha trovato espressione anche in un’altra raccolta, minore e speculare: La forma innocente). Per riprendere un termine che ritorna quasi ossessivamente, soprattutto all’inizio, è una serie di «affetti», familiari e personali (gli amici, la gente comune) a filtrare nei capitoli che delineano gli stati attraversati dal poeta. La coralità evocata è implicita soprattutto nelle dinamiche della coscienza, della sua ricerca di una dimensione esistenziale pacificata con le cose. Le figure che a tratti si affacciano in queste pagine, infatti, si parificano alle evenienze del mondo. Non per il peso della loro storia individuale sono chiamate in causa le altre persone, ma in quanto partecipi di quel soggetto collettivo, il corpo dell’umanità afflitto dalla malattia dell’essere e in viaggio verso una dimensione (utopica?) di integrità. Perciò si alternano con naturalezza testi in cui l’io campeggia e altri in cui risulta indistinto nella realtà carpita per via di riflessione con raziocinante anelito di oggettività.

Il viaggio intrapreso è insieme metafisico e cronologicamente scandito. Al tempo ciclico della natura, con l’attraversamento delle stagioni e in particolare il passaggio dalla primavera all’estate, si sovrappongono il tempo dell’io storico («A cinque anni i segni di tutto / ho battezzato / e per timore che svanissero / ho legato gli alberi uno ad uno. / Sei… sette… otto… / il tempo della terra / poi la stagione della prima coscienza / e un affanno: il crescere, / desiderare: terribile sventura. / Ma infine la comprensione: / lavoro e preghiera / il canto modesto dell’ape / precetto antico dell’ordine. / “Dove andrò ora?” / Ancora ritorna la domanda…») e il tempo ideale, direi quasi filosofico, che la coscienza investigatrice fa emergere: tempo dell’essere, sogno o illusione di eternità che regge la dizione sospesa e ferma della poesia. Anche la struttura del libro pare un compromesso fra queste differenti opzioni temporali.

Detto ciò, basterebbe citare i titoli delle suddivisioni interne (Poesie di primavera, Canti della trasformazione, L’attesa, La città interna, Canto delle nazioni, Epigrammi, Alta quota, Progresso nelle nostre voci) per istigare il dubbio di avere a che fare con un sotteso repertorio di motivi e di immagini in qualche modo di matrice orfica, ricco di suggestioni mitiche. Eppure, proprio per la particolare pronuncia del poeta e del suo rigoroso lavoro stilistico, non si potrà parlare, al contrario, che di azzeramento dell’orfismo. C’è una lucidità e un’estrema volontà di chiarezza che ha fatto più volte pensare a Magrelli. E che sia innegabile una certa filiazione dal poeta romano, coetaneo di Vitale seppure di più precoce espressione, lo dimostrano non solo l’orientamento stilistico di fondo ma certi componimenti centrati sull’osservazione, quasi alienata, del proprio corpo, sulla fenomenologia della malattia o, ancora, su un’analoga descrizione dell’ambiente domestico circostante. Ecco un rapido e indicativo campionario: «Non è sempre pulito questo corpo / sano o fresco / come le prime carnagioni vissute accanto ai fiori. / È iniziato il viaggio / e si travasa ogni cosa / perché in fondo sia custodita / e accolta. / A sera rivedo i miei piedi / hanno camminato / sono appena un poco segnati, / attraverso le forze complesse / della città / mi hanno portato come un uomo / che tra le cose respira / e ora che è notte / nella stanchezza del suo corpo / dorme»; «Accade che il malessere / mi prenda / come un influsso di luna / e la quieta visione si increspi. / Perdo forza / si restringe il mondo / i miei passi cadono in acqua / disperdono il cielo / la luna bianca. / Nulla farò / fermo come una nuvola / attenderò un altro tempo / e il vento / che porta sulla via del sole»; «Ora che sono di nuovo nella casa / cerco un movimento / che si affianchi / al compito di essere in transito / una meta che stanotte / è grande come il cielo / posato di pensieri forti / di corpi che un uomo / sogna come pianeti lucenti. / Dormire nel movimento del cielo / è accostare i fratelli / che hanno saputo darne / considerevole prova / e qui giacciono le voci / in cui si rasserena / nostro, un sentimento».

Nonostante questi puntuali raffronti, va subito precisato che anche nelle concomitanze più appariscenti, la differenza fra Vitale e Magrelli è sostanziale. Mancano al primo la lucida nevrosi, il materialismo, l’arguzia illuministica e il manierismo del secondo; la malattia ha connotazione più vaga, è figura mentale, metafora di una condizione storica ed esistenziale. Lo sguardo, pur così teso a una «quieta visione» delle cose, è meno narcisistico, maggiormente estroflesso. Meno araldica e smaltata è questa poesia, che però sussume una magrelliana capacità di “partecipazione nel distacco” con la quale azzera, si diceva, una serie di suggestioni poetiche (e pure l’analisi delle varianti evidenzierebbe la volontà di abbassare costantemente il tono e di espungere gli echi e le reminiscenze via via additate dai critici). L’opera di umiliazione degli accenti per rarefare e svuotare le parole (azzeramento della stessa personale tradizione di riferimento) consiste nel sottoporre a usura un lessico circoscritto e caratterizzante e avvicina la poesia di Vitale a quella dell’amico Riccardi. Ma se quest’ultimo si serve delle percussioni ossessive su un determinato campo semantico fortemente connotabile anche dal punto di vista morale, Vitale opera su materiali meno opachi. Manca il senso riccardiano di un morso atavico sulle parole, a vantaggio di una maggiore serenità dentro a «una predilezione aggettivale petrarchesca – limpido, docile, dolcezza, fresca, tiepida, chiara, gentile –» (A. Donati). Anche qui le concomitanze più appariscenti (soprattutto nella sezione di Epigrammi, dove il concentrarsi della forma acuisce la somiglianza di tratti poetici) rivelano un telos affatto diverso. Se in Vitale è l’io a farsi portavoce di un’ideale coralità, in Riccardi al contrario è un’epica definita a farsi carico del simulacro dell’io. Forse persino la maggior concentrazione ermetica di un titolo riccardiano (La veglia interna), rispetto a due titoli di Vitale (L’attesa e La città interna) si può addurre a esempio.

Non mancano nemmeno qui, è chiaro, certe impennate verticali, sezioni più ardue di altre dove lo scontro fra l’autore e la propria materia diventa frontale, ma in genere domina quel diaframma che rende quieto il travaglio del vivere. Il poeta si veste dei panni dell’antropologo che indaga i fondamenti dello stare al mondo dell’uomo contemporaneo cercando «il vivo sentimento / di congiungere alla terra / la presenza del corpo». Non così incombente è la tragedia nel desiderio di avere «la forza della cometa / e la voglia di stare / nelle questioni della vita», o almeno essa risulta anestetizzata dalla atonalità complessiva. Si veda come a un attacco deciso corrisponda spesso un finale scontato o prosaico o viceversa, attutendo la portata gnomica di un testo già di per sé privo dei tradizionali contrassegni poetici. Sliricato per estenuazione, è un tepore di convalescenza che sottrae peso alle cose per conferire loro una dolcezza febbrile, come se il paesaggio, la città e le sue figure filtrassero attraverso una finestra nella pace ovattata di affetti rassegnati alla loro consunzione, piegati in una tristezza crepuscolare e domestica (non è un caso che la città sia detta interna). Mentre Riccardi cerca di portare la storia dentro le mura domestiche, scoprendo in parte il dramma, rendendo più agonica la mancanza di presa diretta sulle vicende personali, Vitale in qualche modo ci racconta sull’altro crinale della parola lo stesso vuoto storico, la stessa mancanza di esperienze forti e veramente corali di una generazione, alla quale non resta forse che ricordare o attendere un’esperienza decisiva, che si faccia sostanza di una parola meno intimamente consunta.

(da Poeti nel limbo)

 

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