Il corpo, la voce, lo sguardo

È da poco uscito in libreria il nuovo libro di Tiziano Scarpa, Il brevetto del gecoNon mancherò di leggerlo, anche perché me ne hanno parlato molto bene. Ma i miei affondi nella letteratura seguono ritmi irregolari e, spesso, ho bisogno NON leggere i romanzi che stanno leggendo gli altri, di farli miei fuori tempo. Non ho ancora aperto, per dire, Stabat Mater, dello stesso Tiziano, che pure è un autore che mi interessa eccome, e da tempi non sospetti, prima insomma che si prodigasse a promuovere il mio romanzo.

Ho tra i miei libri preferiti, su due scaffali differenti, ciascuno accompagnato da pochi altri volumi di genere affine, Cos’è questo fracasso Groppi d’amore nella scuraglia.

Mi fa però piacere riprendere qui il racconto di un incontro con Tiziano. Era il 9 maggio 2010.

Il corpo, la voce, lo sguardo. Incontro con Tiziano Scarpa, un’amica e qualche fantasma

Sono a Milano per festeggiare un’amica. È uscito il nuovo libro di Giovanna Rosadini, Unità di risveglio, Einaudi, e io prendo posto con mia moglie nel cortiletto interno di un locale di via Tagiura, «un’osteria storica della città», mi aveva detto l’interessata.

Fa ancora freddo, l’inverno quest’anno pare non volerne sapere di cedere il passo, così basta uno sprazzo di sole per avvertire una vampata improvvisa e ci si lascia volentieri illudere; poi ripassa una nuvola e una bava d’aria fastidiosa mette brividi. Mi guardo intorno: non conosco nessuno.

Era molto che non mi concedevo simili uscite “letterarie” (ricordo un isolamento di qualche anno spezzato appena da un’occasione per rivedere, a Gallarate, degli amici, tra cui Simone Cattaneo: chi l’avrebbe mai pensato che non avremmo più avuto altre possibilità di incontro…) ma nell’ultimo mese mi è venuta una strana voglia di ritrovare persone che ho perso di vista o conoscere finalmente qualcuno con cui ho dialogato appena via e-mail, più raramente per telefono. No, non è smania di mondanità, ma disincantato desiderio di radicare la parola alla giusta distanza, veicolandola col corpo, la voce, lo sguardo. Poi, certo, tutto va ricondotto alla propria solitudine, perché quando si scrive il dialogo, infine, è sempre con altri.

Così, ho compreso di essermi lasciato trascinare per troppo tempo in uno stato di inedia. Mi sono cullato entro un perimetro solo ideale di amici e non mi accorgevo che intorno gli sguardi, le voci, i corpi si facevano via via più radi, fino al silenzio, fino a una nuova solitudine, non più concupiscente come da ragazzo, ma soltanto arida. Colpa mia, comunque. Ormai lo so, sono così d’indole: i miei slanci verso gli altri finiscono per ferire, l’amore nelle mie mani diventa spesso una forma d’aggressione, così mi piace rintanarmi per lunghi periodi (anche in casa, con i miei cari oltre la porta o a letto, nottetempo) e preparare nuovi assalti, studiando la disciplina della dolcezza che non riesco ancora a contenere e dosare. Ma forse la situazione sta cambiando, lentamente. L’età mi ha lavorato, la tana degli affetti familiari ha imposto un esercizio medicamentoso, che finora mi ha salvato dai mostri dell’infanzia e dai fantasmi della letteratura. Sono pacificato, pronto a un ascolto più intenso, e voglio mettere alla prova la mia voce e i miei silenzi. Voglio l’incarnazione.

Mentre nella mente si plasmano si rimescolano e si sfilacciano questi pensieri, in una zona formicolante di sensazioni vaghe che prelude ma non è ancora la consapevolezza, e Giovanna, con i suoi familiari, non è ancora arrivata, continuo a guardarmi intorno in cerca di volti noti. A un certo punto vedo arrivare Tiziano Scarpa, che ha il compito di presentare il libro. «Sono contento che ci sia lui a fare da star, in questo modo potrò rimanere più defilata e aggirare l’emozione», mi aveva confidato Giovanna. «Lui è bravo in queste cose». Lo vedo studiare il contesto, telefonare, tornare sui suoi passi e poi rimescolarsi agli altri in attesa. Saluta qualcuno, ma mi accorgo che non ha imbastito, dopo qualche minuto, ancora nessuna conversazione particolare, e allora mi decido ad avvicinarlo. Mi presento, nome e cognome, e gli rammento di Arezzo Wave, quando ci ritrovammo per alcuni giorni ad ascoltarci e incrociare commenti pettegolezzi e punzecchiature. All’epoca a lui era stato assegnato un laboratorio di scrittura e una performance, con Raul Montanari (assente per loro ormai abituale, come appresi da una confidenza dei medesimi, l’altro elemento del trio, Aldo Nove), tratta dalle famigerate Covers pubblicate da Einaudi. Io invece giocavo il ruolo, ai suoi occhi, del giovane poeta invasato, del letterato puro che non avrebbe potuto far altro che snobbare le sue contaminazioni, la sua cultura pop: credo di essermi impegnato per non deluderlo, con qualche provocazione di troppo, ovviamente, anche se in quella circostanza mi ero prestato volentieri a saggiare io stesso il palco e improvvisare una lettura organizzata da Tiziano Fratus. (E, comunque, un letterato che si rispetti, a margine di tutta la musica e la baraonda di giovani e non più giovani che spadroneggia in simili manifestazioni, ad un evento come Arezzo Wave non avrebbe mai partecipato).

Mi bastano pochi istanti per rendermi conto che non solo si rammenta benissimo, ma che è sempre quel chiacchierone un po’ canaglia di allora. Pensavo, chissà perché, che il tempo fosse passato anche per lui, e invece mi ritrovo ancora di fronte a… un irriducibile adolescente. Mi mordo il labbro e storno lo sguardo, per timidezza, ma non solo. Questa era l’immagine, peraltro altamente indicativa della mia arroganza, che mi ero fatta allora di lui, e cerco in qualche modo di rigettarla, perché non posso certo dire di conoscere la persona che ho di fronte. L’altra immagine che mi si ripropone è quella dello scrittore che, con la vittoria dell’ultimo Premio Strega, è stato definitivamente sdoganato da un ruolo di autore alternativo al sistema e si è imposto a tutto tondo come nome ufficiale delle nostre patrie lettere (così almeno è stato letto l’evento dai più). Sono interferenze, mi dico. Misuro, respingendo quelle prime impressioni, tutto il tempo che è passato, invece, per me: se ad Arezzo mi sentivo presuntuosamente maturo e mi infastidiva quella sua ostinazione al gioco, all’azzardo sfrontato, alla dissacrazione, al piacere da dilettante allo sbaraglio che si diverte a mandare gambe all’aria le prosopopee della Poesia e della Letteratura, rigorosamente con le iniziali maiuscole, adesso invece capisco che questo, in fondo, è proprio il suo genio, e che davvero uno scrittore compiuto è sempre un dilettante. Senza con questo pretendere di condividere la stessa idea di piacere, ovviamente. E se l’eco futile della vita culturale del paese (con le sue cerimonie farsesche, i suoi balletti di potere, i suoi battibecchi moltiplicati ad arte fino alla rissa da pollaio) non mi ha mai interessato, nemmeno adesso che sento la spinta a riavvicinarmi, con discrezione, a qualche evento letterario, tale eco non deve diventare una coltre tanto spessa da impedire l’incontro reale con una persona e con il suo mistero, fatto di un vissuto e di desideri mai intercettabili e interpretabili del tutto.

Tiziano mi chiede presto della rivista, mi esprime ammirazione per la determinazione con cui continuiamo a proporci sul campo, dal momento che anche lui, ovviamente, capisce il lavoro oscuro che si cela dietro a una simile impresa. Fa qualche riferimento a «Il primo amore», chiama in causa altre esperienze e qualche nuovo, freschissimo tentativo di proporsi sulla scena con le medesime modalità (assemblare un periodico specializzato e in vera carta, oggidì…) che, malgrado tutto il progresso e i mutamenti sociali, persistono a documentare una loro autenticità irriducibile. All’inizio mi sembra che parli in modo un po’ generico e gli do corda con frasi di circostanza, finché non chiama in causa l’ultimo numero di Atelier. Qui mi stupisco, perché la sua lettura non è affatto superficiale. Gli sfugge il nome di quel poeta pugliese, che non conosceva, a cui abbiamo dedicato la monografia: «Lino Angiuli», gli dico, e lui afferma che gli hanno intrigato gli inediti, con la volontà di proporli in quella veste grafica particolare, con un’idea del verso che sembra solo estrinseca, dal momento che ogni riga risulta perfettamente allineata sia a sinistra che a destra, come un testo giustificato, in modo da delimitare sulla pagina uno spazio iconico lampante, modalità che invece secondo lui ha una profonda ragione intrinseca. «Mi ha fatto venire in mente la scrittura di…», e gli sfugge il nome, «… ma sì, quella poetessa… adesso mi verrà in mente… Ha scritto anche un saggio, Spazi metrici…». «La Rosselli?». «Ecco, bravo, Amelia Rosselli, che scriveva con la sua vecchia macchina da scrivere e si imponeva come misura del verso il perfetto allineamento anche a destra, come ci fosse un margine fisico su cui sbattere. E tieni presente la particolarità del suo gesto, perché lei non lavorava con il computer, ma con una macchina da scrivere in cui la lettera “i” occupava il medesimo spazio della “m”…». Mentre prosegue nel suo discorso e si avvita in qualche concetto che non riesco a misurare, sospeso tra la cazzata e la verità incontrovertibile, io resto colpito da quell’affondo preciso che non mi aspettavo. Forse l’isolamento da cui provengo mi ha lasciato una percezione distorta di tutto il progetto della rivista, mi dico: non abbiamo cercato riscontri, ci siamo concentrati sulla pagina forse con eccesso di zelo, senza alzare lo sguardo e misurare all’esterno, negli occhi altrui, l’effetto delle nostre parole. Ciò probabilmente è stato per certi versi un bene, ci ha evitato distrazioni e compiacimenti, ma d’altro canto ha amplificato l’eco della nostra stessa voce, esacerbando la passione.

Il discorso con Tiziano prosegue un poco, poi siamo interrotti: ecco finalmente che arriva Giovanna. La saluto, le presento mia moglie. C’è fermento, finalmente si comincia.

È proprio Tiziano a rompere gli indugi, in piedi, qualche passo più avanti di Giovanna, seduta, quasi confinata in un margine voluto. Non è impeccabile, anzi: lascia sospeso qualche frase, nasconde il volto dietro la mano con cui si gratta l’ampia fronte. Si è esposto con il corpo e con la voce alta, ma nasconde lo sguardo… Rilancia con un «Che cosa si può dire, in simili circostanze…», poi effettivamente cerca le parole…Ma no, quello è proprio il suo modo di fare, si sta solo scaldando, improvvisa perché sa benissimo dove andrà a parare. È come se volesse lasciare intendere di non essere un professionista dalle maniere ingessate: in questo modo la sua forma sfugge a ogni formalità. Non è l’attore, è il dilettante che non ha bisogno di simulare il divertimento mettendosi nei panni di chi recita: lui si diverte davvero. E infatti, dopo l’inizio apparentemente stentato, la platea è sciolta e lo segue rilassata, ma non distratta.

Parla abbastanza a lungo, si concede l’autoironia del caso, alleggerisce il tutto con qualche battuta e qualche falsetto per sottolineare alcuni concetti, ma senza insistere troppo, ripetendoli semmai come refrain, sempre lesto a rientrare nella serietà estrema del discorso e a proporre affondi interpretativi al libro nient’affatto scontati. In definitiva, non fa il brillante, svolge davvero un ruolo ancillare rispetto all’amica e alla sua vicenda di vita e di scrittura, occupando giusto quel metro in più che Giovanna stessa desiderava che si prendesse: non so se lei glielo avesse espressamente chiesto, ma è certo che Tiziano ha saputo regolare con sensibilità la postura, alleggerendo la situazione senza banalizzarla e demistificarla.

Uno dei concetti preliminari che ci tiene a sottolineare, nel suo discorso, è un’idea di poesia che non sia… «un problema estetico da risolvere», dice elaborando la voce come per rendere l’effetto di una nevrosi, mentre fa ruotare le mani attorno alla testa. Il gesto gli riesce bene, ha il fisico giusto, del resto. Quando riprende il concetto e ripete la mimica, mi viene quasi da pensare (ognuno, del resto, si crede al centro dell’universo, no?) che si stia rivolgendo un po’ anche a me, che rimango suppongo ai suoi occhi uno scrittore devoto alla Letteratura, per cui, in definitiva, la poesia per me non potrà che essere… «un problema estetico da risolvere… no?… il Novecento…». Sarà colpa anche di quella piccola aggiunta apparentemente innocente, sarà il mio egocentrismo, sarà che lui mi aveva da poco dimostrato di essere un lettore non superficiale della rivista… E sia. Se anche stesse pensando a tutt’altro, quelle parole arrivano a me perpendicolarmente. Strano, però, non mi irrigidisco affatto. Mi sento pacificato, al mio posto, senza smania, e comprendo la giustezza di tutta la situazione. Non ho campo da difendere. Sono fuori di me, ascolto il mio corpo che si sente, probabilmente delirando, preso di mira, sebbene di sottecchi. Mi relativizzo. Non fatico a concentrarmi sul senso che ha tutta la scena: sono qui per festeggiare un’amica, non altro. Tutto il resto scorre e fa parte di una trama più vasta, che è bello assecondare. (Il sole, intanto, continua a mostrarsi e a nascondersi: è mezzogiorno, è maggio, e vorrebbe scaldare, ma l’aria ancora fredda non cede, lo blandisce).

Arriva poi anche il momento di Giovanna, che si presenta e racconta l’evento attorno alla quale si erige la raccolta, il cui titolo rimanda ai reparti ospedalieri che accolgono i pazienti in coma. Questa sua imprevista e tragica vicenda le ha lasciato nel corpo segni evidenti. La sua voce è tenue, ma tranquilla. Non c’è imbarazzo, ha la straordinaria capacità di proporre una paradossale naturalezza, faticosamente riconquistata, nella sua nuova condizione, come se la menomazione fisica avesse permesso una più nitida focalizzazione interiore, che la poesia prepotentemente riscoperta arriva ora a testimoniare.

 

Al buffet ho ancora occasione di parlare con Tiziano, il quale, a un certo punto, mi chiede di Simone Cattaneo. Gli dico quel che mi riesce, il poco, d’altronde, che c’è da dire. Poi si finisce a parlare di varie amenità. A proposito della collana einaudiana, si chiama in causa Aldo Nove per il suo ultimo libro. Tiziano mi ragguaglia circa qualche problema dell’amico di cui non sapevo. Ha avuto un incidente, nulla di particolarmente grave, ma adesso ha un problema ad una gamba, che è come se fosse impazzita, perché all’improvviso gli manda segnali errati: dolori, sensazioni improvvise di freddo… «Ha letteralmente un piede con le allucinazioni. Del resto, le allucinazioni è da lì che nascono: a furia di tenerlo sempre chiuso nella scarpa, l’alluce impazzisce e dà fuori di brutto: ecco le allucinazioni». Ridiamo, sia per la battuta in sé (ma non è sua, mi dice, e a me pare di aver capito il nome di Bergonzoni, ma la ganasce hanno interferito in quel momento con l’apparato uditivo e non sono certo di aver capito bene[1]) sia per le mimiche di Tiziano. Il quale, peraltro, non sta affatto irridendo l’amico, anzi. Si ritorna infatti a relativizzare la scrittura e gli impegni letterari, di fronte ai problemi di salute. «Senza nemmeno disconoscere l’importanza della poesia medesima, persino nell’ottica della sua ricaduta sulla persona e sul corpo. La scrittura ha un aspetto davvero terapeutico. Del resto, oggi ne abbiamo avuto una riprova eclatante, no? La storia del fratello di Giovanna, per esempio, che scrive per lei il diario della sua degenza quand’è in coma, e poi di come lei abbia continuato la scrittura del fratello, dopo aver dovuto imparare di nuovo a tenere in mano la penna… Senza dimenticare il particolare che il suo corpo le dettava un modo di tenerla che secondo i medici era sbagliato, salvo poi scoprire che nella loro famiglia tutti effettivamente prendevano in mano la penna con quello stile… Del resto lo “stile” è questo, il modo personale con cui reggi lo “stilo”… Io questa storia la trovo una metafora splendida».

Siamo quindi interrotti da una telefonata, e quando torna tra di noi accenna vagamente a questioni di “famiglia”: il tempo è passato anche per lui, mi viene da pensare in quel frangente, chissà perché. Si va a parare sui premi letterari: «Sai, una volta sono stato persino giurato per un premio di poesia», mi dice come dovesse farsi perdonare (per gentilezza, non certo per reale rimorso) un’invasione di campo, «una sola volta, ma è stata una bella esperienza. Era per un premio in un paese… accidenti, oggi non mi vengono proprio i nomi… ma mi verrà… era peraltro organizzato in modo serio. Tanto per cominciare, mi sono trovato la casa invasa da scatoloni di libri di poesia… Accidenti, il paese non mi viene, ma era comunque un premio intitolato a Diego Valeri». «Allora il paese era Piove di Sacco», gli dico con prontezza. «Bravo, giusto, Piove di Sacco». Vede che mia moglie mi guarda come incuriosita da qualcosa, e io mi spiego. «Il mondo è piccolo: mio padre è nato a Piove di Sacco e da quelle parti ho ancora dei parenti. Anzi, a dirti la verità, l’ultima volta che ci sono stato era proprio in occasione di un’edizione di quel premio. Accompagnavo Simone, in qualità di suo editore…». «Caspita», è lui adesso ad aggiungere, fulmineo, «ma era proprio la volta che c’ero io in giuria». A me però i conti non tornano, poi capisco. «Il giorno della premiazione, però», gli dico, «c’era una giuria popolare a scegliere il vincitore assoluto». «Sì, noi avevamo scelto la terna dei libri migliori. E infatti io avevo indicato il vostro libro di Simone, poi c’era anche quello di Edoardo Zuccato, un altro bel libro, e quello di…». «Di Umberto Simone. Me lo ricordo bene, e confermo l’onestà del premio…». Prendo infatti a raccontargli di quella giornata: Cattaneo mi ripeteva con il suo solito umor nero: «Vincerà ovviamente Zuccato, dài, Marco, è l’unico pezzo grosso, e il suo è davvero un bel libro… Se dovessi scegliere io sceglierei il suo», continuava a martellarmi per tutto il viaggio, tanto che non capivo ormai più se lo facesse per scusarsi della strada che mi stavo, ai suoi occhi, sobbarcando, per obbligarmi a esprimere la mia opinione sui libri e trovare conferma del suo valore (ne aveva un bisogno estremo, come sanno coloro i quali l’hanno conosciuto), o semplicemente per prepararsi da solo a sopportare una delusione. Fatto sta che non appena mi resi conto che, dopo aver sentito una lettura di poesie di Simone, di Edoardo e di quel tale Umberto che non conoscevamo,  la giuria popolare stava effettivamente portando i propri voti, secondo una prassi assolutamente trasparente, mi girai improvvisamente verso di lui e gli dissi: «Simone, so già chi ha vinto. Ha vinto lui, Umberto Simone». «Ma che dici, figurati. Non l’hai sentito leggere?». «Appunto! È l’unico che ha scritto cose che questa giuria riconoscerà come indubitabilmente poetiche, non capisci?». «Ma va’, non può essere. Vincerà Zuccato…». «Vedrai». Vinse Umberto Simone, c.v.d.

E qui Tiziano riprende voce per rendere onore, comunque, anche a quel libro. «Caspita», penso, «si ricorda anche di questo, e con dovizia di dettagli!». Sono talmente basito che all’inizio suppongo stia barando, e invece no, fa riferimenti che trovano riscontro anche nella mia, pur così labile, memoria.

Poco dopo, si unisce a noi anche Giovanna e le parole inseguono altre immagini, altri pensieri. Gli intrecci di sguardi voci e corpi si infittisce e si complica, finché arriva il momento di ripartire.

Milano, in fondo, è appena dietro l’angolo, penso mentre chiacchiero in auto con mia moglie sulle persone che ha conosciuto anche lei e di cui le racconto.

Ma il dialogo, infine, è con altri.

[1] E in effetti avevo capito male: la battuta è di Maria Sebregondi.

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