La statua di Attila Jozsef

Attila József

Figlio di un operaio (che abbandonerà presto la famiglia, lui di appena tre anni, terzogenito) e di una lavandaia (che morirà nel 1919 piegata dalla fatica), Attila József conoscerà gli stenti della povertà, gli slanci delle utopie e le frustate della delusione (alcuni suoi versi vengono tacciati di vilipendio alla religione, altri saranno ritenuti offensivi per la patria; ma presto verrà espulso anche dal partito comunista clandestino). È una sorta di poeta decadente (ma non rassegnato) che vive le tensioni di un’epoca straziata: conoscerà Vienna e Parigi con le loro lusinghe avanguardiste, sognerà un futuro radioso, ma nemmeno l’amore lo riscatterà dalla sua classe sociale. Poeta politico (anche in tempi recenti la sua statua è divenuta simbolo della resistenza al regime) e lirico, si spezzerà di fronte a tutte queste prove e, schizofrenico, ad appena trentadue anni deciderà di farla finita, distendendosi sui binari di una ferrovia.

Ma voi, lettori, non siate così accondiscendenti con voi stessi al punto da attribuire ai suoi problemi il gesto estremo: leggete queste poesie giovanili, per verificare come lucidamente abbia previsto “il mare di sangue” da attraversare. Non è vissuto abbastanza per assistere alla realizzazione storica del dolore, frutto inevitabile della sua epoca. Ma, da poeta, egli, nella sua vicenda personale, lo aveva già pregustato – e divorato fino al duro torsolo di verità.

I testi che seguono sono tratti da Poesie. 1922-1937, Milano, Mondadori, 2002, nella traduzione di Edith Bruck

da Mendicante di bellezza (1922)

CANTO PER ME STESSO

Occorre amare il mutevole cielo-nebbia
Occorre amare l’immagine lieve di cento stelle
Guardando in alto è più facile al cuore obliare
Forse riesce a scoprire la pace eterna.

Occorre baciare la ferita purulenta della vita
Ammirare l’azzurro puro in occhi di ragazza
Occorre cantare in tristezza
E non chiedere, fin che bruci la nostra vecchia Terra.

Occorre avere rispetto della mano dei vecchi
Accarezzare la testa dei giovani
E vivere con fede coraggiosa, ingannare, uccidere.

Che scorra vino prezioso dopo il funerale
Non si pianga mai, per nessuna ragione
E se si deve morire, andiamo allegri a morire.

 

LA TRISTEZZA

La tristezza è un postino grigio muto
ha il volto scavato e gli occhi blu
dalla spalla stretta pende una borsa
il suo mantello è logoro scuro.

Nel petto gli batte un tic-tac da due soldi
per le strade sguscia impaurito
si appiattisce lungo i muri delle case
e scompare nell’androne.

Poi bussa. Porta una lettera.

 

UBRIACO SUI BINARI

Un uomo ubriaco giace sui binari
Nella mano sinistra tiene il suo fiasco
E russa. Dorme con l’alba beato.
Ora la notte va oltre sulla strada al trotto.

I suoi capelli in subbuglio li ha lievemente accomodati
Il vento notturno con rifiuti e sterpaglia
Ora il cielo lo cosparge di rugiada divina,
Immobile, solo il petto ansima, è pur vivo.

Il pugno destro è duro come suola di legno
E dorme, come un tempo nel caldo grembo materno.
Gli abiti sono a pezzi. È ancora giovane, un ragazzo.

Il sole stenta a sorgere, il cielo si fa di cenere.
Un ubriaco giace sui binari
E piano da lontano rimbomba la terra.

 

da Non grido io (1925)

L’AMANTE DEL POVER’UOMO

C’è il mondo sulla spalla del pover’uomo
con l’altra ha sempre portato Dio.
S’arrabbiasse una volta, e con ragione
si libererebbe insieme d’entrambi.

Il pover’uomo non chiede mai pane bianco
il pover’uomo non riceve mai pane bianco
con poco pane, pane assai nero
salvaguarda l’anima bianca dal nero.

Del pover’uomo neppure il sale ha sapore
del pover’uomo l’umore stesso è insapore.
Le poche cose che vende sono invendibili
e se ha un letto non è accogliente.

Il pover’uomo ruba se ha fame
neppure allora ruba ma ha molta fame
e se lo fa diventa anche più povero.
E finché ci sarà un povero, sarà sempre più povero.

Suo figlio rischia le botte
neppure la moglie è immune da botte.
Ma se io fossi la bella tra le belle
del pover’uomo sarei l’amante.

 

GLI UOMINI DEL FUTURO

Loro saranno la forza e la modestia
fanno a pezzi la mschera di ferro del sapere
per vedere l’anima sul volto.
Baciano il pane e il latte e con la mano
con cui carezzano la testa dei figli
cavano dalla pietra il ferro
e tutti gli altri metalli.
Dalla montagna costruiscono città,
i loro polmoni quieti enormi
assorbono tempeste uragani
e si calmano come gli oceani.
E aspettano sempre l’ospite inatteso
per lui anche apparecchiano
e dispongono anche dei loro cuori.

Siate simili a loro,
che i vostri bambini dalle gambe di giglio
possano traversare indenni
il mare di sangue che hanno davanti.

 

da Non ho padre né madre (1929)

SENZA BUSSARE

Se ti vorrò bene, puoi entrare da me
senza bussare
ma rifletti a fondo,
ti farò stendere sul mio pagliericcio
paglia frusciante si respira con la polvere.

Ti porterò acqua fresca nella brocca
e prima che tu ne ne vada pulirò le tue scarpe
qui nessuno ci disturba,
in pace puoi rattoppare curva le nostre cose.
Il silenzio è un gran silenzio, parlo anche a te se parlo
e se sei stanca ti puoi accomodare sulla mia unica sedia,
se fa caldo puoi toglierti sciarpa e colletto
se hai fame ti do della carta pulita per piatto
e se c’è dell’altro
lascia allora anche a me, pur io
sono sempre affamato

Se ti vorrò bene, puoi entrare da me
senza bussare
ma rifletti a fondo,
mi dispiacerebbe se poi tu mi evitassi a lungo.

 

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