Réunion d’amis (1640)

Discorso sugli amici

Io, per me, ho improvvisato una lista dei poeti contemporanei da leggere, che vado ora rivedendo e perfezionando, per dire addio alla critica. E l’ho concepita per un’ultima volta in termini critici, non poetici.

La diversa impostazione del pensiero critico e del pensiero poetico è un tema che ho già trattato e su cui non intendo indugiare ancora. Ribadisco solo che quella particolare concezione di critica che ho tentato di svolgere, più che per desiderio per un senso di responsabilità generale, in risposta a lacune e omissioni e pregiudizi e persino esplicite ingiustizie che mi parevano mettere radici nel mondo letterario su cui mi affacciavo – quella particolare concezione di critica, dicevo, di matrice anzitutto filologica e stilistica, tendente, per quanto possibile, all’obiettività, interferisce in me con il pensiero poetico, libero e capriccioso, elettivo e azzardato fino al gioco o all’eresia. Il poeta coltiva sempre, in sé, una parte di riflessione teorica, ovviamente, e quindi io stesso continuerò, all’occorrenza, a teorizzare o esporre giudizi, e magari persino a offrire il mio punto di vista su alcuni libri, ma queste attività eventuali saranno episodi irrelati, incontri ed eventi che si intrecceranno con il mio percorso poetico, a partire dal quale prenderà forma qualsiasi pronunciamento. 

Ciò detto, mi preme mettere il dito nella piaga e toccare, nella lista, la zona più nevralgica, che chiama in causa le relazioni umane che, inevitabilmente, anche nello sforzo di massima obiettività, rappresentano un fattore da ponderare. Non che automaticamente un amico o un compagno di percorso sia per forza sopravvalutato; anzi, potrebbe anche accadere l’opposto.

Nella lista dei poeti da leggere, dunque, ho incluso alcuni autori a cui sono legato personalmente: qui esplicito le mie riflessioni, in modo che, se qualcuno volesse revisionare e personalizzare la lista, potrà da sé fare la tara, almeno in relazione ad alcune specifiche presenze.

Mi riferisco in particolare al gruppo storico della redazione (in verità sempre fluida e aperta) della rivista “Atelier”: Riccardo Ielmini, Simone Cattaneo, Federico Italiano, Tiziana Cera Rosco, Andrea Ponso, Massimo Gezzi, Tiziano Fratus, Flavio Santi, Giovanni Tuzet, Alessandro Rivali, Davide Brullo, ma anche ad altri interlocutori costanti come Isabella Leardini, Martino Baldi, Daniele Piccini (almeno nei primi anni), Luca Ariano e molti altri.

Prima di giungere a parlare di questi autori, dovrei ricordare anche Giuliano Ladolfi, Paolo Bignoli e Riccardo Sappa, che fondarono con me la rivista, non presenti nell’elenco delle letture raccomandate. Se poeticamente il discorso nei loro confronti è più semplice e sbrigativo, in verità il legame umano è ancora più forte. Bignoli e Sappa erano i miei “fratelli maggiori”, i primi che arrivarono, sulla scorta di Ladolfi, alla pubblicazione: li ammiravo nella loro dimensione già adulta e universitaria, mentre io ancora mi barcamenavo tra studi e innamoramenti liceali. Tuttavia, varata l’esperienza di Atelier, per loro la poesia passò in secondo piano rispetto ai percorsi di vita intrapresi: e chissà che non sia stata preservata, in questo modo, entro una dimensione più genuina e gratificante rispetto a chi, invece, ha voluto dedicarsi alla scrittura con dedizione costante. Giuliano Ladolfi è stata la nostra guida comune, nel passaggio dall’adolescenza alla giovinezza; ha diretto con me la rivista e tuttora ne tiene le redini, dopo aver aperto il progetto ad altri collaboratori, alla mia uscita. Meraviglioso docente e fine intellettuale, ho sempre nutrito perplessità rispetto alla sua evoluzione poetica, e lui lo sa, perché la rivista, a partire dalla direzione stessa, si è sempre caratterizzata per un confronto franco e leale, in cui la stima non dipendeva dalla condivisione totale dei giudizi. Lavorando anche da punti di vista diversi (lui più filosofico e antropologico, con salde radici in una cultura cattolica e con letture, inizialmente, relative al Novecento più storicizzato, si era dedicato alla reinterpretazione del canone del secolo scorso; io, più inquieto e proiettato sul contemporaneo, pur con un approccio analitico, mi ritagliai il discorso militante sulle ultime generazioni di scrittori) ci siamo arricchiti a vicenda e abbiamo dato corso a un’azione critica ad ampio raggio, finché, per varie ragioni anche personali, di cui qui tacere è bello, ho avvertito la necessità di allontanarmi dal solco di Atelier.

Ma, a quel punto, la redazione storica si era già dissolta: ciascuno aveva imboccato con decisione una propria strada. Sono ancora convinto che questa separazione abbia rappresentato un indebolimento complessivo per ciascuno di noi, ma il pensiero potrebbe essere errato. Quello scioglimento avrà portato anche vantaggi, suppongo.

A questi amici, per diversi anni compagni di ricerca e occasione per me di grande arricchimento, sono rimasto affezionato e rappresentano poeti che ho continuato e continuerò a seguire. Ma la lista è stata redatta in un’ottica critica il più possibile oggettiva: si può essere “giusti” nella valutazione di un compagno di viaggio? Ecco il problema su cui voglio ragionare.

In rapporto non solo al nucleo di Atelier, ma in generale alla mia generazione (per il senso che può avere una tale prospettiva) ho sempre sofferto di un duplice ruolo: da una parte, per il fatto di dirigere una rivista militante ero spinto a pronunciarmi anche su autori che, a tutti gli effetti, erano miei pari. Per un critico-poeta il disagio di ritagliarsi un discorso fra i propri “coetanei” non va sottovalutato. D’altro canto, ho cercato di sottrarmi, per quanto possibile, alla gestione di qualunque forma di potere o di identificazione all’interno della mia generazione. Si spiega così il fatto che, scelti i poeti, lasciai a Ladolfi la cura dell’antologia L’opera comune; si spiega ugualmente il mio silenzio, salvo rare eccezioni, sui libri dei coetanei; e si spiega soprattutto alla luce di questo dissidio l’abbandono di Atelier.

Eppure, dovevo comunque prendere decisioni, di volta in volta, con ricadute esplicite intorno a me, a partire dai testi da pubblicare su rivista o addirittura in un libro autonomo. Come preferire un poeta agli esordi, per giunta un tuo pari, senza presunzione? Come agire nello spazio letterario con passione e spirito militante senza scadere in logiche impositive? Come non intossicare le relazioni umane con la difesa di principi poetici o di idealità letterarie, certo sempre sottoposte al dubbio metodico, ma allo stesso tempo neppure ingenue e prive di fondamento?

Va chiarito che la redazione non era sorta dal nulla. Non era nata nemmeno casualmente, perché fu attratta dall’orbita di Atelier, ovvero un progetto pre-esistente, ma ciascun poeta ci arrivò secondo un proprio percorso. La maggior parte fu contattata da me, ma ciò significa appunto che ne avevo colto gli esordi su rivista o in libri (per esempio Ponso e Santi). Altri semplicemente inviò dei testi in redazione (Cattaneo), oppure venne dirottato da noi su suggerimento di qualche poeta (Ielmini, tramite Giudici, se ben ricordo) o ancora aveva letto Atelier in biblioteca (Rivali). Se, sulla base dei testi, avevo tentato di intrecciare dei legami, evidentemente c’era qualcosa nella loro voce poetica che, da subito, mi appariva significativa. Il rapporto personale è insomma sorto dopo questo primo riconoscimento. La stima letteraria è stata causa, non effetto, dell’amicizia.

Dunque, credo obiettivamente che quel gruppo abbia anche nel tempo confermato il proprio valore; tutti rappresentano, nel panorama letterario odierno, figure riconoscibili e importanti. Paradossalmente, forse anche solo per scrupoli eccessivi, non ho inserito nell’elenco Alessandro Rivali, da poco uscito per Mondadori nella duplice veste di poeta e di romanziere. Ho sempre percepito la sua poesia (e l’interessato lo sa, perché su questo calcavo già ai tempi di Atelier le mie osservazioni) come una vicenda che andava sviluppandosi su un crinale arrischiato, e perciò stesso intrigante, ma ancora non sono convinto sugli esiti raggiunti. Mi pare che i suoi versi costruiscano o presuppongano una scena persino grandiosa, epica, ma i singoli componimenti spesso si tramutino in didascalie della storia suggerita per singole, minime tessere. Rileggerò, seguirò nel tempo, in attesa di percepire o di registrare lo sfondamento di questo limite, che riconsegna per ora Rivali a un’area poetica di matrice lombarda, dove spiccano già altre voci con un profilo poetico analogo.

Ho ancora qualche perplessità anche su Tiziano Fratus, ma pure in questo caso l’autore riconoscerà le riserve espresse già decenni fa: se avesse saputo selezionare meglio i testi e diradare le pubblicazioni non avrebbe solo risparmiato qualche albero, ma avrebbe anche potenziato la propria voce poetica. Ma questa è solo la “mia” prospettiva: in tal caso pesa un’indole differente e la determinazione con cui Fratus ha perseguito la propria strada gli ha permesso di crescere e di trovare una dimensione autoriale autonoma e originale, ragion per cui è rientrato nei miei suggerimenti di lettura. 

Sugli altri redattori, con l’eccezione di Tuzet, uscito dai miei radar, non ho riserve. Simone Cattaneo, purtroppo, ha da tempo sigillato le poesie con il timbro definitivo della morte. Ma, anno dopo anno, i suoi libri sono stati in grado di individuare una nicchia di lettori che lo prediligono con il fervore che merita. La sua voce continua ad accompagnarci, e noi siamo chiamati, nel tormento di una ferita indelebile, ad averne cura. Tiziana Cera Rosco, dalla produzione poetica ancora discreta, ha una dimensione d’autore che accoglie la poesia entro una concezione di creatività che non si confina in un ambito, che compenetra la vita in ogni suo aspetto e si concretizza in più linguaggi, traduzioni artistiche differenti di un medesimo impulso. Qualcosa di analogo avviene in Brullo, che all’opposto ha una produzione esondante, più simile in questo a Fratus, ma che pare anche un eretico dell’immaginario e della lingua all’interno della nostra tradizione italiana, spesso anemica. Nel suo caso non va trascurata neppure la militanza culturale: negli anni ha dimostrato di restare fedele al carattere che contraddistingueva il progetto di Atelier.

Più riconoscibili e riconducibili a linee poetiche di conclamata nobilità sono Gezzi e Italiano, su un versante lirico-esistenziale il primo, prossimo, volendo rendere l’idea, alla traiettoria di Fabio Pusterla; ripartito, il secondo, dal solco del modernismo di impianto eliotiano per inseguire le scie dei maggiori autori europei, e non solo europei. In lui il disagio novecentesco non è stato smentito ma pare quasi essersi composto in quadri dall’equilibrio classico, permeati da uno sguardo dottamente ironico. Entrambi propongono ogni volta libri capaci di rendere emblematiche le scene fino, talvolta, all’allegoria; entrambi hanno il passo sicuro di chi, all’interno del mondo letterario, si muove pure in ambiti istituzionali, tra accademia, editoria e giornalismo.

All’opposto, Andrea Ponso ha intrapreso una via quasi eremitica, prendendo le distanze dall’ambiente poetico e radicalizzando alcune sue prospettive esistenziali e letterarie. In alcuni precedenti pubblicazioni mi era parso di cogliere una deriva infruttuosa, ma rileggendolo nel tempo ho la sensazione di essere stato troppo severo (con gli amici capita così: si pretende talvolta da loro anche troppo, perché si ha la presunzione di avere intuito potenzialità di cui si vorrebbe essere testimoni) e in ogni caso il credito accumulato è tale che le aspettative rispetto a sue future opere (ma vorrà ancora, Ponso, entrare nell’agone letterario?) resta alto. 

Appartato e con due soli libri all’attivo è invece Ielmini, la cui bibliografia va arricchendosi, però, con opere in prosa. Anche nel suo caso la linea di appartentenza, nella cura formale e nel passo narrativo e ragionativo, è facilmente riconoscibile. Del tutto in linea anche nella postura morale, racconta lo scandalo di una fede di impianto addirittura ambrosiano che immette nei versi la luce e il coraggio di una testimonianza tanto pacata quanto salda.

Infine: Flavio Santi. Autore già dalla spiccata e originale personalità quando lo coinvolsi in Atelier, è stato indicato per tempo dalla critica come voce in grado di distinguersi, per cui non ha bisogno di ulteriori sottolineature. Resta semmai aperta una valutazione complessiva per l’evoluzione della sua fisionomia letteraria e l’attesa per i futuri sviluppi: nato come intellettuale pasoliniano, si è tramutato in scrittore di gialli, e pare suggerire anche un abbandono della poesia: preludio a qualche sorprendente e coraggiosa metamorfosi oppure reale, disillusa comprensione degli esiti estremi della tradizione e forse dell’intera civiltà umanistica?

Alla luce dei ragionamenti esposti, per quanto tramite inquadramenti grossolani (spero che gli interessati mi perdoneranno, per averli profilati con l’accetta), sono dunque convinto della loro presenza nella lista dei poeti da leggere, se si vuole conoscere il panorama contemporaneo. Ho semmai il dubbio opposto, che la stima e l’affetto che nutro per loro abbia prosciugato quel po’ di accondiscendenza che in taluni passaggi si concede ad autori con cui non c’è alcun rapporto. 

Sono passati diversi lustri da quando frequentavo questi amici: solo con qualcuno ho mantenuto contatti più frequenti. La mia lettura e valutazione potrebbe risultare schiacciata sull’immagine che di loro mi ero costruito ai tempi di Atelier: starà al lettore più attento correggere le distorsioni del caso, ora che ho esplicitato il mio punto di vista.

E, per quel che riguarda me, chissà che in futuro, nelle vesti di poeta, non mi sia più semplice ragionar di loro, come meriterebbero.

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