Lo scisma della cultura
E allora, dopo la fine del canone, nella crisi aperta del moderno, nel mercato della letteratura classica e della letteratura leggera, e senza maestri, che cosa faranno e che cosa possono fare non dirò i poeti che comincino oggi – da avviare subito allo spettacolo e ai commerci, quando non ci abbiano pensato da soli – ma quelli con esordio dieci, venti o magari trent’anni fa, quelli di valore, sabianamente onesti o crudeli come Artaud, ma insomma bravi, eppure con aspetto di promesse perenni, di premesse perenni? Che cosa si può fare nella poesia dopo la fine del canone, senza un posto neppure nella falsa coscienza del parnaso universitario e scolastico? Che cosa dentro la incipiente letteratura classica, benché virtuale, non più trattabile, per polemica, quale morta, leopardianamente, perché morta davvero? Che cosa senza poter più né ammazzare né mangiare – e magari neppure mitemente attraversare – i padri, e pieni di fratelli separati e irriconoscibili nella diaspora comune?
A queste domande di Pietro Cataldi, nel 2002 rispondevo con un editoriale di Atelier, che riporto qui sotto.
All’epoca ipotizzavo (auspicavo) una spaccatura in qualche modo generazionale all’interno della poesia, che poi non si è avverata. Ora so che tale fenditura attraversa in senso verticale le varie generazioni di scrittori. Si parla ormai apertamente, anzi, di letteratura di resistenza, di artisti che vivono come carbonari ai margini dell’Impero Globale. Non ci sono terremoti, solo una lenta, inarrestabile agonia. Anno dopo anno, i compagni nell’impresa si fanno sempre meno. I più rinunciano, si adattano alla metamorfosi della specie. Cedono all’omologazione.
Ma qui, nel deserto, si continua festosamente a scavare.
Lo scisma della poesia
C’è una generazione di poeti, prossima ai quaranta e ai cinquant’anni, che occupa una terra di nessuno della letteratura, abbandonata dai padri putativi e dai critici, abbarbicata ai margini delle maggiori case editrici (solo qualcuno, di tanto in tanto, sembra potervi accedere per grazia ricevuta); una generazione che ha compiuto e sta compiendo un lavoro semisommerso talvolta incoraggiante, talvolta mediocre. Si tratta di una generazione che ha lavorato con poca generosità, sia dal punto di vista personale (e non è solo questione di spazi editoriali) sia dal punto di vista collettivo (a parte qualche fumata dal Gruppo ’93, nato postumo e senza vera coesione). È la generazione che Atelier ha voluto rappresentare attraverso alcuni dei suoi esponenti nell’omaggio alla poesia del numero 10, tanto per mostrare ai frettolosi antologizzatori dei nostri tempi che non potevano declinare le responsabilità di fronte al presente (reale) della poesia. Travolti dai mutamenti “epocali”, come si dice, questi poeti o si sono acclimatati abituandosi a vivere alla macchia, consapevoli di essere degli esemplari rarissimi di una specie in via di estinzione, oppure stanno frettolosamente saltando in groppa al carrozzone della moda, strizzando l’occhietto ai cantautori, rinnegando le loro origini e dicendo che sì, la poesia è morta, ma c’è qualcosa di meticcio e nuovo che sta nascendo, e si può anche riuscire a vendere, questo prodotto, che i poeti lagnosi diranno naturalmente essere un surrogato della poesia e che noi vediamo invece lanciarsi fiammante verso i territori inesplorati della prossima letteratura, che poi letteratura non è perché non sta sui libri ma si declama nelle piazze, si può esibire in TV e persino registrare sui CD (lasciando anche stare Internét) – e fa persino ridere, e piace persino alla gente che piace.
Ma c’è anche una generazione di poeti, intorno ai trent’anni, che ha trovato la forza di costruire spazi alternativi al mondo editoriale che non funziona (per precise lacune politiche, mica perché la poesia è morta o altre battute da provinciali che vivono in città), consapevole che l’onore di un nome si valuta sulla qualità e non sulla quantità; una generazione che non ha bisogno di uccidere nessun padre e nessun fratello maggiore per riconoscersi, perché ha la coscienza di lavorare per il futuro, non per il presente; una generazione che ha la forza di aprire un discorso serio sulla poesia, guardando senza paraocchi al proprio tempo ma senza appiattirsi sul suo spettro, senza nevrotici battibecchi giornalistici che non toccano minimamente il cuore del problema. Ecco, questa generazione è pronta a lanciare il contrattacco, a tessere con pazienza la propria opera, forte della propria povertà, libera di dire, semplicemente, la verità disarmante di una tradizione che ha rischiato di morire di lenta consunzione, per dispersione di sguardo, per mancanza di lotta e di dialogo interni.
Da che parte stia, una rivista di letteratura, di fronte allo scisma della poesia (come per la musica: poesia classica da una parte e poesia leggera dall’altra, con due mercati diversi), è fisiologicamente evidente: sta proprio nel mezzo, fra il Museo e la Piazza, sul fronte della militanza critica. Quello che serve non è scovare il trucco per vendere (come imbellettare i libri di poesia perché stiano lì, accanto al best-seller), non è suonare la carica di una poetica all’ultimo grido, non è scrollare la polvere dalla testa degli accademici imbacuccati. È ora di stare seri, di non riempirsi la bocca di mezze verità, di togliersi di dosso i panni del poeta lagnone o degli eterni adolescenti goliardi. Il problema è un altro: manca l’opera, manca il coraggio di aspettarla con umiltà, manca il coraggio di suscitarla, tutti presi come siamo nella festa dove prima o poi tutti passano sottobraccio al nemico e ridendo, oplà, fanno l’inchino.
Ma se qualcuno avesse già, da qualche parte, cominciato a scavare sulla sorgente?
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