Linee future della poesia italiana

Questo è un saggetto di un po’ di anni fa, ma mi pare che contenga intuizioni ancora interessanti.

Linee future della poesia italiana?

Piuttosto che cercare di tracciare delle linee per definire il panorama attuale della poesia italiana, studiando in effetti il passato, vorrei tentare un’analisi dell’ultimissima generazione di ventenni che sta ora ufficiosamente salendo alla ribalta. Si tratta, evidentemente, di un gesto arrischiato, tutto rivolto al futuro, che tuttavia motiverei con queste riflessioni:

– l’ultima generazione veramente visibile a livello nazionale (che, dunque, è presente nelle maggiori collane del nostro Paese) annovera poeti alle soglie dei sessant’anni: perseverare nel non prendere coscienza del lavoro, oscuro ma non esiguo, che altri hanno successivamente portato avanti in territori editoriali più impervi, mi sembra francamente ingiusto, non tanto da un punto di vista personale, quanto da un punto di vista precipuamente critico, anche perché, da un po’ di tempo a questa parte, sembra di poter dire che, mentre i primi segnano il passo, il fervore sotterraneo dei più giovani sta finalmente venendo alla luce;

– mentre altrove mi occupo soprattutto di quelle che possiamo definire generazioni “di mezzo” fra i quasi sessantenni affermati e i “poeti di vent’anni” (è il titolo di un’antologia che li riguarda), vorrei approfittare di questa occasione per pronunciarmi, seppure in modo generale, sugli autori dei quali condivido, almeno anagraficamente, il destino, tanto più che non è mia intenzione portare avanti anche fra i coetanei il lavoro critico intrapreso, appunto, per gli autori di fine Novecento;

– marcare delle “linee” che esprimano le tensioni attuali della poesia è un atto che può avere un senso (strumentale soprattutto) se compiuto dopo l’analisi individuale di ciascun poeta: per tirare le fila delle tradizioni che formano il complesso unitario della nostra tradizione in modo non sommario, occorre districarsi con accuratezza certosina e parsimonia degna di un orafo, anche perché mentre i singoli poeti e i singoli libri esistono, le “linee” restano generalizzazioni critiche utili ma pretestuose;

– ha una sua intrinseca importanza, almeno da un punto di vista documentario per i posteri, l’analisi condotta su quello che è realmente il “presente” (e dunque il futuro già attivo sull’oggi con le sue ombre), in un punto in cui agiscono tensioni che ancora non si sono sciolte: il privilegio di trovarsi alla sorgente non ci vieta la responsabilità di pronunciarci, anzi la acuisce, dal momento che, in qualche misura, forse le prospettive possono venir mutate, poco o tanto, proprio da un gesto così militante di critica;

– ci sono motivi di reale interesse per l’opera di questi autori appena esordienti, che superano i limiti generazionali e chiamano in causa la nostra tradizione poetica nel suo complesso, in tutte le sue linee.

 

La prima constatazione da fare è questa: l’uscita pressoché contemporanea di tre antologie di autori “nati negli Anni Settanta” rappresenta, di questi tempi, un fatto veramente eccezionale. Il riferimento è ai volumi curati da Giuliano Ladolfi, Davide Rondoni e Mario Santagostini [1].

Una considerazione però s’impone immediatamente. Tanto interesse non è detto che sia del tutto positivo e può nascondere anche una sorta di nevrotica mobilità “editoriale”. Non sempre i giovani vanno incoraggiati verso la poesia, con le vanità, le velleità e i giovanilismi che in essa si possono riversare. Un buon autore deve mantenere in qualche misura anche un rapporto distruttivo con la propria opera, la quale non deve acquisire valore subito (l’apprezzamento immediato è indice di effettiva mancanza di originalità, intendendo con questa parola la novità reale, che in quanto tale sfugge alle previsioni editoriali e alle classificazioni critiche, al gusto insomma). La giovinezza deve pertanto muovere l’ispirazione di un autore come un arto amputato, non come una radice solida e profonda. Peraltro, una società letteraria funziona quando evita sia di irretirsi in regime sia di aprirsi a una democrazia decadente: l’ostracismo è un buon modo di “educare alla realtà” i più giovani, perché non crescano viziosi in seno alla letteratura.

La complessità che si cela dietro questa inusuale attenzione ai poeti nuovi trova riscontro nella diversa natura delle tre antologie. Oltre le apparenze, le ragioni di questi volumi sono assai eterogenee. Davide Rondoni, con un gesto di fratellanza, se non addirittura di paternità cercata, presenta sei autori assumendosi consapevolmente il rischio di una scelta sulla base di una «preferenza non ancora perfezionata in dialogo» [2]. Si potrebbe, forse, rilevare in questo persino un atto polemico nei confronti delle altre generazioni, quasi del tutto autoreferenziali, ma l’introduzione di Rondoni è davvero sincera e vibrante nei confronti di una “scommessa” che non cede a compromessi, perché non bara circa la solitudine della scrittura, non è indice di mero vitalismo, ma anzi chiama a una continua verifica il poeta stesso che si è assunto questo compito. Con tutto ciò, l’operazione mantiene i limiti “genetici” che la caratterizzano.

È invece Maurizio Cucchi, curatore della collana che ospita l’antologia di Santagostini, a enucleare i motivi che hanno spinto alla realizzazione del volume: «Se i nati negli anni Sessanta hanno faticato a imporsi come generazione […], gli autori nati negli anni Settanta hanno già un’identità generazionale, una presenza molteplice di gruppo sparso, indifferente ai raggruppamenti, e incapace di mostrare una sapienza difensiva, o la flebile correttezza grammaticale di chi li ha oscuramente preceduti» [3]. Cucchi è a tutti gli effetti il regista, nemmeno troppo defilato, del lavoro di Santagostini: se ciò ha permesso di assumere un ruolo più neutrale a quest’ultimo, il quale ha potuto operare così da critico puro con ottimi risultati, la scelta resta vincolata agli umori del primo, tanto che fra i «canali» di riferimento per la selezione trovano uno spazio privilegiato lo «Specchio della Stampa», sul quale Cucchi conduce una rubrica di scuola di poesia, e il «passa-parola» fra poeti [4]. Insomma, si tratta di una vera e propria «campionatura» effettuata con criteri editoriali, che dunque mantiene anch’essa, insieme alle garanzie, i limiti “genetici” che le sono propri.

Totalmente diversa è invece la posizione assunta da Ladolfi: «Come criterio di scelta questa antologia presenta una caratteristica assolutamente originale: non è frutto di un’altra generazione, ma è il risultato di un’operazione ideata e condotta dalla generazione stessa» [5], dal momento che la selezione si è effettuata sulle pagine della rivista «Atelier» e, dunque, è sorta dal confronto “orizzontale” fra giovani. Nonostante ciò, l’antologia non si propone come mezzo per promuovere un gruppo, magari con alle spalle già una poetica e degli idoli polemici, ma come stimolo per «un lavoro più ampio, capace di superare il limite degli autori compresi, perché provvisorio (non nel senso di superficiale, ma nel senso che va sottoposto a revisione)» [6]. «La figura del curatore, pertanto» – continua Ladolfi – «assume solo un ruolo di “maieutica”, di raccordo e di sintesi, richiesto da chi all’interno ha bisogno di confrontarsi con chi può vedere dall’esterno i lineamenti di una ideale costruzione» [7].

La posizione “esterna” assunta sia da Santagostini sia da Ladolfi, rispetto al ruolo di Rondoni – che intitola sintomaticamente la sua introduzione La loro (e mia) scommessa –, fa emergere con forza il concetto di “generazione”, idea verso la quale, invece, Rondoni resta più scettico, pur ammettendola de facto [8].

Ma quali sono le caratteristiche che i tre critici individuano, per delineare tale “generazione”?

Per prima cosa, fra i «motivi essenziali», meno di «una poetica», che stanno alla base della “spaccatura verticale” che lega Rondoni ai poeti della sua antologia, si considera un’idea di poesia che non può prescindere da una dimensione etica. Rondoni parla esplicitamente, per la scrittura poetica, di una sua «inerenza al mondo», quasi una «riedizione dell’antica adaequatio» [9]. I giovani coi quali condivide tale spinta verso la letteratura e, inscindibilmente, verso l’uomo, «attendono dalla poesia che essa sia il dono di una chiarezza umana sul vivere. Chiarezza umana, ovvero una certezza non nutrita da ideologie, non ancorata a isolati momenti di raptus, non dovuta a facoltà di intelligenza, non algida. Un dono di chiarezza dove, per così dire, la luce e ciò che viene illuminato si riconoscono fatti della stessa pasta, della stessa consistenza. L’una per l’altra» [10]. Sono qui espresse, in nuce, osservazioni che Ladolfi sviluppa invece in modo dettagliato, sostenuto anche da un impianto interpretativo storico-filosofico più vasto. Così quest’ultimo spiega la mancanza di spinte ideologiche nei giovani autori: «Cadute le illusioni delle “magnifiche sorti e progressive”, la generazione nati negli Anni Settanta sperimenta in modo diretto, cioè senza delusioni o le disillusioni di precedenti fedi, “il disincantamento del mondo” (Max Weber), inteso non solo come eclissi del sacro, ma anche come perdita degli elementi laici sostitutivi, quali la scienza, l’ideologia, la fiducia in una crescita economica senza limiti, lo sfruttamento inesausto delle risorse naturali, la pace come conseguenza della competitività sfrenata» [11]. Dunque, quella che prende ora voce «è la prima generazione che giunge a maturità senza aver vissuto in prima persona il travaglio del passaggio dalla modernità al postmoderno e che non ha sperimentato il conflitto ideologico né l’esaltazione delle illusioni né lo sfaldamento delle certezze secolari: vive per la prima volta nella storia all’interno di una civiltà che si costruisce secondo il principio dell’umiltà costruttiva, propria della “filosofia edificante”» [12]. Ciò che dunque muove questa generazione alla poesia è, anche per Ladolfi, «la scelta di un’arte che nasce intrinsecamente e intimamente dall’esperienza» [13], che «si è riappropriata del compito di approfondire i temi dell’uomo» [14] e che dunque rifiuta la «lirica concepita come intuizione e libera effusione della soggettività o come espressione poetica di un’individualità assoluta» [15]. Ma il direttore della rivista «Atelier» nell’introduzione all’Opera comune andava ben oltre la generica “chiarezza umana” indicata da Rondoni. «Alla condizione di perdita», egli infatti afferma, «si sta sostituendo una condizione di “edificazione” che non pretende di trovare la Verità, la Poesia, il Valore, ma che vuole proporre un cammino umile di lavoro comune» [16]. Insomma, la mancanza di visioni ideologiche, per questa generazione che non ne ha nemmeno patito il crollo, comporta una prospettiva di chiarezza intesa come nuovo slancio conoscitivo: «La concezione estetica “edificante” fortifica e nutre l’heideggeriana ricerca secondo cui “il poetare è più vero dell’indagine dell’ente” e spinge a concepire il lavoro poetico come imperativo e responsabilità morale, segno di un “rigore” che si traduce in un rifiuto non solo di ogni concezione edonistica della poesia, ma anche di ogni residuo di ironia novecentesca» [17].

Anche il senso di profonda partecipazione “fra la luce e l’oggetto”, ovvero fra lo sguardo poetico e il reale, indicato da Rondoni, era già stato precedentemente annotato da Ladolfi in termini ancora una volta più complessi e universali, mutuando dalla filosofia il concetto di “realismo interiore”: «La speculazione americana ha elaborato il concetto di “realismo interno” per opporsi sia al tradizionale realismo metafisico che postula l’esistenza di una realtà esterna che la mente umana può conoscere, proprio dell’aristotelismo e del Positivismo, secondo il principio ordo rerum id est ordo idearum, sia al “pensiero debole” che nelle forme estreme viene inteso come pura e semplice relatività che giustifica ogni interpretazione concettuale. Hilary Putnam, in accordo con il senso comune, sostiene che “ci sono le tavole, le sedie, i cubetti di ghiaccio. Ci sono anche elettroni, e regioni dello spazio-tempo, numeri primi, persone che sono una minaccia per la pace nel mondo, momenti di bellezza e trascendenza e molte altre cose”. Tuttavia la loro comprensione non avviene attraverso una scoperta del Reale, ma all’interno di un contesto culturale e linguistico che permette la conoscenza. Non è difficile scorgervi tratti kantiani, anche se del filosofo di Könisberg viene eliminata la “cosa in sé” e l’assolutezza delle categorie. Secondo questa posizione, quindi, esiste un mondo che si disvela in modo diverso a secondo delle coordinate interpretative che vanno a priori chiarite. L’uomo, quindi, sa che esiste il mondo e che, una volta chiarito il linguaggio entro il quale lo conosce, può di nuovo “nominare” gli oggetti […]. E proprio in questo sta la diversità tra il realismo di una “linea lombarda” e il realismo “interno” di questi poeti» [18]. Si supera, pertanto, quella sorta di empatia un po’ inerte indicata da Rondoni, innescando un movimento conoscitivo dialettico con il reale: «La parola, nel momento in cui accoglie la cosa si trasforma e trasforma la cosa stessa e non secondo una corrispondenza biunivoca propria del linguaggio scientifico, ma in un rapporto mobile che il poeta, all’interno di un determinato codice, scopre e può variare al fine di dilatare il significato della propria esperienza» [19].

Ciò fa sì che il sentimento non sia soltanto una spinta che muove verso il reale, ma si oggettivi esso stesso: «Anche quando parlano di sentimenti, il sentimento si fa concreto, parte del reale»[20]. La precisazione è sottile ma fondamentale. Insistiamo dunque nel focalizzarla, sempre con l’ausilio di Ladolfi: «La parola, pertanto, non si limita più a compiere una funzione rappresentativa di un “io” sliricato, ma impersona la funzione stessa del simbolo, per il fatto che viene superata la divisione tra soggetto ed oggetto propria della filosofia occidentale. La parola-cosa si presenta come allo-centrata, rispetto al lirismo ego-centrato, e si apre al mondo in funzione “edificante” al fine di individuare un senso provvisorio, ma sempre un senso»[21].

In effetti, Rondoni osserva che i suoi “cercatori d’oro” mostrano «uno stupore e un attaccamento viscerale al manifestarsi»[22] del bene della poesia che, se da una parte può essere letto semplicemente come indice di trepidezza giovanile, d’altra parte lascia ambiguamente aperti i conti con il soggettivismo, tanto che egli stesso annota subito come tali poeti «mostrano un tentativo di riscossa dell’“io”, in un’epoca dove tutto ha congiurato al suo rattrappimento o alla sua negazione»[23].

Definita la disposizione della nuova generazione rispetto all’avventura poetica, le altre osservazioni dei curatori scendono su un campo più propriamente linguistico e stilistico. Santagostini avanza un’ipotesi: «forse è appena terminato un primo tempo di reazione ai mélange espressivi contrassegnato da una difesa attiva, attivissima del territorio. In altre parole e prescindendo ancora dalle qualità degli esiti, diremo che le più recenti stagioni ci hanno consegnato testi poetici sicuramente eccellenti ma altrettanto sicuramente dotati di una altissima quota di riconoscibilità settoriale: di letterarietà. Qualcuno ha polemicamente o storicisticamente usato il termine di manierismo: parlerei piuttosto di una poesia polemicamente (o ingenuamente, o disperatamente, o intensivamente) attestata sui propri percorsi interni. Custode di un modo di esprimere forme di aderenza alla vita irraggiungibili con altri mezzi. Lontana dalla poeticità diffusa. Separata»[24]. La poesia in oggetto si discosterebbe, insomma, tanto dallo sperimentalismo quanto dalla reazione che le è succeduta (e che potrebbe accomunare neoformalismo e neoromanticismo): «È certamente eccessivo usare la parola restaurazione contro un supposto sperimentalismo anteriore, riferendosi alla poesia degli anni Ottanta (meglio: ai poeti che vengono alla luce negli anni Ottanta: gli ex giovani di oggi). È stato fatto e ingenerosamente. Però non credo che sia del tutto sbagliato parlare di una sorta di entropia autarchica, di ricerche volte a valorizzare l’efficacia interna dei testi»[25].

Tale osservazione sembra essere condivisa da Rondoni quando afferma che «La lingua di queste poesie non è considerata dai suoi estensori un codice diverso dalla comunicazione corrente. Non si ha mai il senso di entrare in un livello diverso dalla comunicazione necessaria e consueta, in un gioco incrociato di codici e di distruzione dei medesimi»[26].

Non pare invece concorde con queste analisi Ladolfi, il quale, pur ammettendo l’estraneità dell’ultima generazione allo sperimentalismo linguistico e il radicamento delle sue esigenze espressive nel cuore dell’esperienza umana di ciascuno, rileva che essi «rifiutano ogni concezione estetica di arte per arte e non si lasciano incantare dalle posizioni di ascendenza pseudoromantica che giustificano il pressappochismo, il dilettantismo. In genere hanno recuperato il senso della metrica intesa come necessità di un ritmo intrinseco al verso e alla parola, che conferisce dignità al “fare poesia”»[27]. Insomma, pare di poter dire che quello che rappresenta per Rondoni il nodo cruciale finora evidenziato dagli autori presi in esame, è interpretato da Ladolfi in modo diametralmente opposto. Mentre per il primo la “frontiera” del superamento dell’espressione immediata della propria sensibilità (conseguenza del mancato scioglimento del problema del soggettivismo lirico) rappresenta il limite dei poeti più giovani, per Ladolfi esso è la condizione stessa che permette l’avvio di un discorso poetico “edificante” sull’uomo, e la dose di letterarietà che egli vede mantenuta nel loro lavoro sarebbe proprio la riprova della progettualità della nuova generazione, della sua tensione a uscire da un discorso circoscritto, ancora una volta, in una dimensione individualistica, che non accetta le mediazioni antropologiche per aprirsi alla storia.

Resta comunque un dato acquisito la «poeticità diffusa» indicata da Santagostini in tutto il suo studio introduttivo, da intendere come elemento effettivamente dialettico che entra in gioco nelle scelte letterarie dei poeti di vent’anni, così come pure ha riconosciuto, a suo modo, Rondoni: «La consuetudine che essi hanno avuto nell’età decisiva dell’adolescenza con strumenti di comunicazione (dal cinema alla rete) in modo paritetico, se non avvantaggiato, rispetto all’esperienza della lettura, li espone ancora maggiormente a una poesia in cui il pensiero sembra non avere luogo. Non si intende, certo, un contenuto filosofico o una fasulla pensosità declamata, bensì l’urgenza di uscire dalla messa in scena delle scoperte della propria sensibilità. […] Di fatto, è quasi sempre assente una tensione a uscire dall’immediato. L’accesso a quel che si chiamava visione – in senso dantesco, ovvero il farsi di un viaggio, o meglio l’appartenenza a un’avventura […] – pare svanito o, meglio, sminuzzato così finemente, quasi rinvenibile in piccolissimi fili d’oro ogni tanto»[28].

Ed è proprio quello che rileva Santagostini quando riscontra una «relativa assenza della misura poematica», che il critico attribuisce a «una predilezione generazionale per la lirica pura e per una espressività diretta, insomma a una soggettività forte (o che si sente tale) che ricade immediatamente nei testi e il più delle volte non ha bisogno di mascherarsi dietro una “dramatis persona”. […] E questo [potrebbe] essere un ulteriore elemento che giustifica una rilettura profondamente “esistenziale”, emotiva e a-storica del passato. Più che di “riuso” (che implica già un atteggiamento molto freddo e lucido) si potrà allora parlare di immedesimazione patetica nel già detto? Sarebbe un’altra cosa. Nessun epigonismo, nessun rifiuto sofferto ma consonanza. Unissonanza. Parole e sensi che passano da generazione in generazione. Continuità. Continuità spirituale. Praticata oggi da “spiriti” deprivati di veline critiche o storicizzanti»[29].

Qui forse si dovrebbero verificare queste ipotesi entrando nel merito delle scelte dei critici, ma va rilevato che Ladolfi pare privilegiare il momento costruttivo, virtualmente poematico se vogliamo, degli autori, nel contesto della sua analisi storico-filosofica. Diverge, pertanto, l’interpretazione di un altro elemento comune evidenziato dai poeti, vale a dire la presunta continuità rispetto alla tradizione.

Santagostini annota: «Scarsi i riferimenti palesi e consapevoli ai classici, pochi segni di quei ritorni ciclici di dantismo, petrarchismo e leopardismo che hanno contrassegnato tante frazioni del Novecento. Pochi “attraversamenti” (Gozzano e Montale attraversarono d’Annunzio, Ungaretti attraversò un po’ di Futuristi, Sereni e Zanzotto attraversarono gli Ermetici, Antonio Porta attraversò la Neoavanguardia…). Nessun “superamento”. Nessuna volontà eversiva o di recuperi mirati. Continuità invece. Tolleranza molto attiva del passato. È sorprendente: la poesia degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, forse l’intero Novecento appare ai giovanissimi come un immenso contenitore di emozioni verbalizzate, di tecniche verbalizzanti, di topoi stilistici. Tutti momenti ancora “vivi”, vivissimi. Ai quali è lecito ispirarsi per parlare di se stessi. E dove è concesso pescare, prendere a prestito, riattualizzare di tutto. Quanto è vicino  e quanto è lontano. Pessimisticamente, ciò segnalerebbe la ricerca di attestati e garanzie. Ottimisticamente, è l’indice d’una nuova forma di adesione al reale, un coinvolgimento emozionale e profondamente autentico per un passato poetico sentito come molto presente. Può essere un bene o un male. Un momento di forza o di appiattimento. Un rischio, comunque. Forse inconsapevole, curiosamente collettivo»[30].

E se ciò invece nascondesse la fine di “attraversamenti parziali” e la tensione reale a un superamento dell’intero Novecento? Ladolfi propende sicuramente per questa ipotesi: «Uno degli elementi, che la lettura dei testi poetici e teorici delle generazione “decisiva” propone con evidenza, è una diffusa convinzione della fine del Novecento, anche se è intuibile che permangano elementi tipici del secolo che si chiude»[31]. Insomma, Ladolfi vede in questa continuità apparente una forma di maggiore libertà e la maturata consapevolezza «che ogni novità “decisiva” emerge dalla tradizione, per il fatto che la rottura con il passato della “generazione polemica” è stata più apparente che reale»[32]. La visione di Ladolfi è sicuramente poco cauta e in certo qual modo idealistica, ma ponderata. Ricordiamo che egli fa propria una dialettica interna alla tradizione, indubbiamente hegeliana, che risale a Josè Ortega y Gasset, il quale «studiando il passato distingueva tre tipi di generazioni: quelle cumulative, quelle polemiche e quelle decisive»[33]. Quella presa in considerazione ora apparterrebbe a quest’ultima tipologia, per cui a una novità conclamata opporrebbe un’apparente continuità, che cela invece i germi di un reale superamento (se è vero che ogni superamento presuppone l’ascolto). Probabilmente Ladolfi è indotto a credere che, contrariamente alle risultanze stilistiche immediate, «questi giovani avvertono una frattura con la generazione di coloro che avrebbero dovuto essere i loro padri»[34] in virtù di una conoscenza dei poeti non soltanto mediata dai testi, ma che risulta espressione di una reale frequentazione. Ricordiamo quella che si dichiarava essere la caratteristica essenziale dell’Opera comune, ovvero la propria orizzontalità di elaborazione, l’intrinseca e inequivocabile autonomia di una generazione capace di costruirsi spazi alternativi di ritrovo e di elaborazione culturale.

In conclusione, dunque, credo si debba se non altro porre con dovuto risalto la questione. I tre volumi cui abbiamo fatto riferimento portano alla luce una straordinaria fase, ancora necessariamente incerta, di elaborazione poetica da parte di una generazione che si è precocemente imposta all’attenzione, marcando implicitamente uno scarto rispetto a precedenti stagioni letterarie, sollevando così una serie di “linee” interpretative che risalgono a ritroso lungo tutto il Novecento. Questo, almeno, è ciò che oggi pare possibile.

Che sia giunto il momento di ridisegnare il Novecento sulla scorta di prospettive dettate non dal passato, ma dal futuro?

NOTE

[1] L’opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, a c. di Giuliano Ladolfi, Borgomanero, Atelier 1999 (testi di Gian Maria Annovi, Elisa Biagini, Simone Cattaneo, Igor De Marchi, Gabriel Del Sarto, Sebastiano Gatto, Riccardo Ielmini, Daniele Mencarelli, Daniele Piccini, Andrea Ponso, Laura Pugno, Flavio Santi, Fabio Simonelli, Andrea Temporelli, Isacco Turina, Giovanni Turra, Fabio Vallieri); I cercatori d’oro. Sei poeti scelti, a c.  di Davide Rondoni, Forlì, La Nuova Agape 2000 (testi di Stefano Maldini, Valentino Fossati, Martino Lapini, Isabella Leardini, Daniele Mencarelli, Francesca Serragnoli); I poeti di vent’anni, a c. di Mario Santagostini, Brunello, Stampa 2000 (con testi di Roberto Bacchetta, Elisa Biagini, Stefania Buiat, Silvia Caratti, Roberta Castoldi, Gabriel Del Sarto, Mario Desiati, Valentino Fossati, Federico Italiano, Francesca Moccia, Alberto Pellegatta, Barbara Pietrosi, Andrea Ponso, Luca Sala, Andrea Temporelli, Silvia Vecchini).

Mi sembra doveroso, peraltro, non nascondere il fatto che chi scrive queste pagine è fra i diretti promotori dell’Opera comune, se non altro per la direzione della rivista «Atelier», dal lavoro della quale è sorta la stessa pubblicazione.

[2] I cercatori d’oro, cit. p.  3.

[3] M. Cucchi, Prefazione, I poeti di vent’anni, cit. p.  8.

[4] Cfr. Santagostini, I poeti di vent’anni, cit. p.  26.

[5] L’opera comune, cit. p.  10.

[6] Ivi, p.  8.

[7] Ivi, p. 11.

[8] «Per generazione, va detto subito, non si intende ciò che viene marcato da un considerevole stacco ‘temporale’: oramai – come ha scritto Tondelli – le generazioni sono delle spaccature verticali» («clanDestino», VII, 1-2, 1994, p. 6).

[9] I cercatori d’oro, cit. p.  6.

[10] Ivi, p. 5.

[11] L’opera comune, cit. p.  14

[12] Ivi, p. 17.

[13] Ivi, p. 32.

[14] Ivi, p. 23.

[15] Ivi, p. 21.

[16] Ivi, p. 23.

[17] Ivi, p. 26.

[18] Ivi, pp. 30-1.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 26

[21] Ivi, pp. 28-9.

[22] I cercatori d’oro, cit. p.  6.

[23] Ivi, p. 7.

[24] I poeti di vent’anni, cit. p.  14-5.

[25] I poeti di vent’anni, cit. p.  16.

[26] I cercatori d’oro, cit. p.  9.

[27] L’opera comune, cit. p.  24-5.

[28] I cercatori d’oro, cit. p.  10.

[29] I poeti di vent’anni, cit. p.  25.

[30] Ivi, pp. 21-2.

[31] L’opera comune, cit. p.  19.

[32] Ivi, p. 20.

[33] Ivi, p. 13.

[34] Ivi, p. 34.

2 commenti
  1. Nicola Romano
    Nicola Romano dice:

    Il “fonetismo” come ipotesi

    Difficile, e forse prematuro, cercare una caratteristica nella poesia prodotta dall’ultimo Novecento fino ad oggi: rigurgiti di post ermetismo, di neo romanticismo e perfino di crepuscolarismo (avversione verso una società impenetrabile e sempre più indecifrabìle) hanno pregnato e continuano a pregnare la maggior parte dei testi poetici contemporanei. In particolare, nell’ultimo quarto del secolo scorso sembra che la poesia italiana abbia segnato il passo dentro un’area in cui nulla-c’è-da-dire-perché-tutto-è-stato-detto. Solo sforzi individuali e improbabili sperimentalismi hanno tentato di esprimere in maniera diversa ciò che altri avevano già descritto nel passato.
    E allora, in questo lasso di tempo, gli autori sembrano essersi affidati di più alla parola come strumento di segno e di suono che come valore di contenuto, in una sorta di riconversione della comunicazione che non vuole tendere più al rapporto intrinseco diretto ma che vuol tendere ad una sorta di tam tam generale al quale si può comunque accorrere (con le dovute avvertenze) senza però sapere a cosa si va incontro. E la questione nasce proprio con la struttura stessa della singola poesia, con una preordinata e seppur involontaria organizzazione di grafemi che lasciano già intravedere un “fonetismo visivo” che poi diventa sonoro nel momento in cui viene data voce al testo, o quando questo viene “solfeggiato” mentalmente durante la lettura.
    Ne è prova un certo recente risveglio dei dialetti, per la verità non proprio accessibili a tutti: le traduzioni (e i tradimenti) possono restituirne i significati, ma quel che inizialmente conta è il suono e la musicalità che ciascun dialetto porta al suo interno. Un esempio a noi vicino, tanto per entrare in argomento, ci è dato dalla poesia del siciliano Nino De Vita, il quale pur avvalendosi delle consuete atmosfere appartenenti alla dimensione rurale e contadina in genere, affida però alla specifica parlata della contrada Cutusiu di Marsala, dove l’autore ha vissuto l’infanzia, quella discriminante fonica che da sola riesce a donare vigore a tutta quanta l’espressione poetica. “La sua, lungi dall’essere la lingua siciliana della Koiné, appare piuttosto la trascrizione, quasi magnetofonica, del modo di esprimersi di quello sperduto angolo di mondo che è la sua contrada…” ebbe a dire in proposito Lucio Zinna in un suo saggio del novembre 2002. La stessa cosa si può dire per i testi di Albino Pierro, di Biagio Marin, di Franca Grisoni (tanto per rimanere nel registro dialettale), dove il principale strumento è quello che scandisce il ritmo linguistico, rispettivamente, del dialetto tursitano, di quello gradese e di quello sirmionese.
    Altro esempio per questo breve discorso sono gli «Esercízi di tiptologia» (1992) di Valerio Magrelli. Già dal titolo si viene a conoscenza che “la tiptologia” è la tecnica usata per decifrare i colpi sui tavolini dei medium o il battito convenzionale sui muri divisori delle celle dei carcerati. Nell’estensione dei testi, colpisce subito la prevalenza ludica e ritmica delle parole che danno all’insieme una pirotecnìa verbale ammaliante ma pur sempre estranea ad una comunicazione affabulante o coinvolgente. Trabant, trabís, canèfore, gnifgnaf, fricativo, xochimilco, anti mazur, subsídenza sono alcuni lacerti lessicali che fanno parte di artificiose aree semantiche di certo consentite essenzialmente ai messaggi in codice. E allora, chi può colga soltanto il suono dei versi magrelliani degli Esercizi: “Ah vagoni frenati, ah parole trattino / io fricativo, ritratto dell’attrito questo il futuro, la spola, il traslato, / il tempo manovale e citeriore, / trasferimento e tropo, / la ditta di trasloco”.
    Ulteriore esempio massimo è la poesia “a percussione” di Toti Scialoja scomparso nel 1998, il quale in una dichiarazione di poetica disse per l’appunto che “nel processo di seduzione della parola … è come se le sillabe si sbriciolassero in una sorta di polline e vibrassero di sonorità… le parole della poesia si trasformano in un’incantevole musica mentale”. Basterebbero solo i titoli delle sue raccolte (Scarse serpi, La mela di Amleto, Le sillabe della Sibilla, I violini del diluvio, Il gatto bigotto) per comprendere l’operazione gioco sillabíco/non senso portata avanti dall’autore.
    E cosa dire dell’infinita avanguardia letteraria di Edoardo Sanguineti basata su di una impostazione strutturale che ci ha sempre portato esiti di versi foneticamente tambureggianti ed ortograficamente similari a degli spartiti musicali, anche se qui il non senso viene praticato in maniera “culta” e filologica? E, guarda caso, Sanguineti ha anche fornito alcuni testi per l’esasperato e monocorde ritmo delle canzoni rap.
    Anche nella poesia di Elio Pagliarani abbiamo trovato un’articolazione ritmica, metrica e semantica a volte imprevedibile. “Il lavoro di Pagliarani – dice Gabriella Sica – tende alla riattivazione del linguaggio poetico su un tempo doppio, come nella musica…Ad un testo attraversato da ritmi e giochi verbali se ne oppone un altro con un linguaggio più razionale”. Testi acclaranti sono contenuti nelle raccolte «Lezioni di fisíca» e «Doppio trittico di Nandi».
    Anche il poeta-giullare Valentino Zeichen, che può essere considerato – come egli stesso sostiene – un futurista di ritorno, ritiene che la scrittura debba essere “sonorizzata” attraverso la rappresentazione vocale (o addirittura teatrale) dei testi. Ulteriori esempi riferiti a questi nostri giorni li ritroviamo nell’esibizione dei testi di Lello Voce (nomen omen), di Rosaria Lo Russo e di Luigi Nacci, testi che vengono affidati sostanzialmente all’oralità, alle variazioni di cadenza, ai ritmi sonori nonché alla cantabilità della voce recitante degli stessi autori, a volte accompagnati perfino da gestualità e da piccole movenze del corpo, quasi a raggiungere nel complesso la fisionomia d’una gradevole ballata.
    Riferendoci sempre all’attualità, se è vero che la vita diventa inevitabilmente e sapientemente poesia, per quello che è il collegamento diuturno con le cose osservate e “sentite”, sembra che a un certo punto anche i poeti abbiano metabolizzato inconsciamente le nuove pulsioni e i diversi algoritmi provenienti soprattutto dalla tecnologia e dall’informatica, tali da modificare il proprio spazio interiore con le cadenze imposte dai particolari suoni (talvolta a perdere) e dai particolari ritmi che le moderne impostazioni quotidiane elargiscono. Pertanto, il flusso ritmico derivante dalla realtà esterna può inconsciamente cristallizarsi pure nel linguaggio, per quella che è una delle classiche testimonianze del proprio tempo. La parola ormai non sembra avere più il suo significato primigenio nella comunicazione, ad una stessa parola possono corrispondere diversi significati nell’odierno caos interpretativo, tanto vale sostituire alle parole i suoni che comunque generano curiosità ed attenzione, alla stregua del vecchio suono delle campane i cui rintocchi, diversamente modulati nei toni e nelle frequenze, annunciavano nelle campagne momenti di gioia o di dolore. Come ultimo esempio vorrei qui indicare, uno fra tutti, il percorso di Andrea Rompianesi, uno dei più validi poeti emergenti in questo passaggio di secolo. Ne «La quercia alta del buon consiglio» del 1999 leggiamo a caso: All’ombra del glicine/ e lungo il corso sabbioso e le larghe spiagge/ attraverso il sentiero e il rivo/ fosse giunto il tuo nome assolato/ ci sei ora e qui/ fossero le terre vaste intorno a Aurangbad/ o lungo il mare di Bombay/ fossero i tuoi occhi chiari. Certamente una poesia di largo respiro e di condivisibile sensualità lirica. Ma dalla sua successiva raccolta «Fides», estrapoliamo il seguente paradigma, che è un lacerto omogeneo a tutta quanta la raccolta: Coniugo a voi l’arresto il tarlo/ o compiaciuto lasso supposto a torso/ l’averti scelto assiso compiuto tasso/ d’avvertito desco a lucida rimessa/ quale abitualmente fuga rinomata/ spaesata senza nuova virtù moresca. Che dire? In questo caso ci è dato osservare che nell’arco temporale di un concerto poetico le “percussioni” si sono sostituite ai “violini”.
    Ho assunto degli esempi estremi per poter additare e probabilmente discutere tale prevalente fonetismo, anche perché molta contemporaneità continua a produrre polifonìe che, senza pretese di probabili “ismi”, possono di certo farne ricavare qualcosa.
    Nicola Romano

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