Poeti contemporanei: Mario Benedetti
(La foto è di Dino Ignani.
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Sono prose slavate le poesie che compongono Umana gloria, in parte anticipate in alcune plaquettes (ma spesso troviamo poesie mantenute di libro in libro, guardando alle opere precedenti). La loro potenza poetica è tutta in questa povertà di cose che sembrano provenire da una terra lontana (e Una terra che non sembra vera è il titolo sintomatico di un’operetta precedente). Qui le parole sono corrose nella loro pretesa lirica, che viene addirittura umiliata nei versi che introducono la sezione In città, con i quali l’autore, interrogandosi sulla solitudine (ma tale interrogazione è stata così a lungo ripresa da aver perso il punto interrogativo, trasformandosi già in altro), domanda clemenza per il gesto di chiedere ascolto, riportando all’improvviso, e senza commenti, una notizia di cronaca: «La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare, si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto, / un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande. // L’ho letto in un foglio di giornale. // Scusatemi tutti».
Il verso lungo non è indice della ricerca di un’orchestrazione grandiosa, ma il gualcirsi di un tessuto linguistico lavorato dall’esperienza, dunque in perfetta corrispondenza con i molti spazi bianchi che interrompono il testo (docili e suadenti depressioni, non dirupi vertiginosi sull’assoluto), mentre quelle che sembrano pesanti concessioni alla prosa, se non addirittura inerti didascalie, descrizioni, brevissimi incisi nominali, annotazioni di cronaca («L’ho letto in un foglio di giornale»), resistono a questa usura proprio per il fatto di costituire l’agente chimico primario che sottrae l’immagine a ogni astrazione metaforica, spezzando il nesso ellittico che aveva permesso l’introduzione di quella particolare figura femminile entro la laconica, ma affabile riflessione del poeta, per diffondere il sapore asprigno dell’esperienza.
Una simile povertà di sguardo, talvolta al limite di un vago pietismo nell’atto di delineare una minima epica personale, anzi, un’epopea di povera gente, come suggerisce il titolo del libro, ha comunque il merito, pur dovendosi piegare spesso a tonalità piuttosto spente, di non trasformarsi in poetica, di non eleggere cioè le cose e le figure più care in qualità di referenti sovraccaricati a priori di una pregnanza umana e letteraria che prende corpo nella presunta oggettività lasciata emergere dalla depressione lirica, dal ritrarsi dell’io in una zona d’ombra mai affrontata in modo diretto. La passività dello sguardo poetico di Benedetti diventa garanzia di aderenza all’ordinarietà della vita e, di conseguenza, dell’impossibilità di trasformare questa povertà in motivo di scrittura (poesia che narra, in definitiva, di sé stessa). Parlare di sguardo, anzi, pare già troppo, implicando un criterio di selezione all’interno del nostro cono ottico: «Ho pensato ogni giorno a questo solo stare senza sguardo / – cose dette dalle giacche, dalle scarpe, dai calzoni – / contro la terra e i sassi, senza poter finire», anche se il poeta è consapevole di tutto ciò: «Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda».
Se uno dei parametri solitamente sottintesi nel passaggio dalla prosa alla poesia è la densità, qui il testo trova la propria concentrazione non su un terreno linguistico, con il condensarsi dei significati e l’emergere di parole tematiche che non siano generiche, ma su un terreno psicologico. La monotonia è pure un valore e sa bene insinuarsi nella lettura, al tempo giusto, con la forza morale che trapela da un dolore come attutito, sordo, piegato senza compiacimenti a un destino di morte lenta e quotidiana. Resta da capire che la semplicità di questi testi nasce da uno spavento, quasi da un orrore ancestrale rimosso fino a diventare tratto esistenziale indelebile. Ha scritto, a proposito, Umberto Fiori: «Il poeta è come un bambino traumatizzato che impara di nuovo a parlare; il suo smarrimento ricorda quello di un paziente riemerso da una lunga anestesia. La semplicità del dettato è una semplicità inquieta, impacciata, malata. Benedetti è come stranito di fronte alla lingua e alla realtà, alla possibilità di conoscere e nominare le cose […]: ripete a se stesso le parole e le frasi più comuni, i più elementari nessi logici, come nella speranza di ritrovare la chiave del mondo, la sua formula dimenticata».
Evidentemente, dei punti di maggiore intensità potranno essere rilevati, ma la luce che da essi si sprigiona si fa presto soffusa e dolente, stemperandosi in un’insolita e preziosa capacità di dar voce davvero a storie e a paesaggi offerti dall’esperienza, dalla prosa del mondo, si direbbe. Queste improvvise intensificazioni, come braci che si ravvivano al soffio di lievi scombinamenti sintattici, magari a prezzo di qualche cacofonia («il letto ha detto la zia») a dimostrazione del fatto che tali fenomeni non nascono da un’esigenza di eufonia ma da un moto del pensiero – queste improvvise intensificazioni, si diceva, aggiungono un tocco a volte allucinato e surreale («Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna») a un grado appena percepibile, spesso ben mimetizzato.
Comparare la poesia e la prosa in Benedetti non è impulso dettato soltanto dal tessuto espressivo dei versi: il maggiore responsabile di questo raffronto è l’autore, che alla prosa faceva ricorso in modo cospicuo fin da Moriremo guardati, e non manca nemmeno ora di inserire una sezione intitolata candidamente Prose. In Moriremo guardati i toni erano più variati e si poteva riscontrare persino un plurilinguismo vagamente sperimentale, un andamento nervoso della scrittura sulla pagina, come se l’inquietudine che sottintendeva non fosse ancora stata addomesticata, come traspariva pure dal senso tragico del destino ben sintetizzato dal titolo generale. Ma anche nel successivo I Secoli della Primavera le sezioni di brani in prosa erano determinanti per la tonalità complessiva ormai in via di decantazione; sennonché questo libro poteva essere accolto come la presa di coscienza anzitutto di un bivio che si poneva allora agli sviluppi della sua opera. Il fatto di costringere i brani in prosa in sezioni apposite non deve apparire casuale, dal momento che è in questo volume che emerge, più che altrove, il potenziale valore contrastivo di questi brani rispetto ai testi che invece si dispongono sì semplici e liberi, ma scanditi nella loro breve e pura musicalità (anche semantica, considerata la rinuncia costante all’utilizzo di figure retoriche). Lo stacco fra prosa e poesia non si configurava neppure qui come scarto linguistico, ma come differente misura di pensiero: da una parte l’immediatezza dei testi brevi centrati su un’immagine acclarante e una dizione tesa alla memorabilità, caratterizzata da grazia e chiarezza comunicativa; dall’altra la discesa nei gorghi della memoria e nell’oscura condizione di angoscia del proprio destino. Ma la possibile scissione di prosa e poesia non è avvenuta e, anzi, da quella raccolta in poi le due forme tenderanno a confondersi nell’unica voce.
«Servirebbe guardare da lontano», affermava l’autore. La lontananza che garantisce il punto focale migliore per Umana gloria è il filtro della memoria, che presiede ai trapassi di immagini, che attutisce il dolore espresso come se leopardianamente diventasse fonte di consolazione, che conferisce al passo spiccatamente descrittivo dei versi l’aura di una povertà di condizione, di una sincerità radicale, che deriva dal confronto costante con la morte. Il rapporto con i defunti, anzi, è il tema centrale della raccolta, del resto annunciato dalla poesia introduttiva, forse la più intensa del volume. «Le poesie di Umana gloria», ha detto ancora bene Umberto Fiori, «sono viaggi a ritroso, strenue risalite verso il punto remoto in cui cose e parole furono perfettamente familiari, colme di senso». Da qui nasce la nostalgia che è il tono qualificante di questo poeta, che si calcifica nei suoi versi e che si deposita, infine, come sottile velo sulla mente del lettore.
(da Poeti nel limbo)
Su questo poeta ci sono capitato ieri per caso leggendo articoli su leparoleelecose; un articolo sulla differenza tra poesia lirica e poesia di ricerca. Tutte cose interessanti. Molto colte. Rimandi. Non ne arriverò mai a capo. Tra i vari nomi c’era questo, Benedetti. Vengo teletrasportato su una serie di testi; già al primo dimentico teoria e date e nomi. Al primo testo,” In fondo al tempo”, ( testo che termina con quell’immagine allucinata: luna luna luna.) dimentico le scaramucce, dimentico la febbre di dovermi decidere da che parte stare, che squadra scegliere, per chi tifare, lo stile, chi essere. Leggo e basta. Vengo risucchiato e fine.
Trovo che sia una poesia splendida.
Poesia in cui l’io ha ancora ragione di essere, in cui si accetta che, per quanto dia fastidio questo pidocchio pronominale, non peggiore del tu, alla fine è pur sempre un io che scrive! Poesia dove il bailamme esterno, formule giornalistiche, nomignoli affettuosi, memorie e piccoli fatti tragici, cronaca, rientrano tutti, per vie traverse e misteriose, insieme a ricordi incubi e paure infantili, nel testo stesso, in piena atmosfera contemporanea. C’è un mondo in questa poesia. C’è la forma del disturbo mentale che registra, e l’equivalenza dei segnali, dei registri. Ma emerge un mondo Denso, in cui l’io è sì solo uno dei punti deboli della catena di percezioni, ma c’è, riesce a essere, e non cede alla seduzione dello sperimentalismo, alla ricerca di un lessico criptico e colto, non cede a quell’annichilimento della poesia di ricerca, e non cede alla poeticità, alla teoria, al messaggio profondo e memorabile e non insegue rigidamente una tradizione che sa istintivamente quanto sia impossibile da inseguire oggi. E non sento la volontà di rotture, non sento rabbia, non sento quel vento adolescenziale che vuole rivoluzionare qualcosa soltanto sputando in faccia al padre di turno. Sento un uomo in un mondo stratificato, un uomo la cui biografia si sfarina incessantemente ai bordi delle frasi, su terre circostanti, vastissime e livide. È un mondo che per quanto dolente qui riesce ancora a cantare, e ad assumersi la responsabilità di ciò che dice, ovvero ad innervarsi a un Senso. Un uomo che parla ancora all’uomo. Del suo mistero, come diceva Luzi quando rispose alla domanda : cosa dovesse fare la poesia. Parlare dell’uomo, disse . E questa poesia parla di me. A me, senza che mi conosca. E questo è impagabile. Una poesia così negli anni 2000? Da conoscere assolutamente.
Ho ordinato subito il Garzanti che raccoglie i suoi testi.
Quando lo avrò tra le mani, al solito, alcune mi piaceranno (pochissime) e la maggior parte mi annoieranno. Al solito.
E ora che ho appena provato a leggerlo, a voce, e a registrarlo, sai chi mi ricorda nel tono? Gesualdo Bufalino.
Lavoro acuto e preciso su Benedetti, che amo
Si capisce il tuo rispetto per QUESTA scrittura ma anche una certa lontananza dal tuo modo di intendere la poesia o mi sbaglio?
No, cara Gabriela, direi che hai azzeccato. Anche se col passare del tempo l’ho apprezzato sempre di più