Poeti contemporanei: Maria Pia Quintavalla
C’è continuità e sviluppo fra la silloge di Maria Pia Quintavalla, Estranea (canzone) e la trilogia che l’aveva preceduta, composta da Cantare semplice (poi divenuto Il Cantare), Lettere giovani e Le moradas. Com’è ovvio, la continuità e insieme lo sviluppo si rilevano sia sul versante tematico sia sul versante stilistico (e si osservi che a chiudere la silloge precedente vi era un prologo, denunciando la volontà di congedo e di rilancio).
In un certo senso, poi, si potrebbe intravedere questa duplicità di movimento nell’ultimo titolo, dove il termine canzone, dislocato e ri-velato dalle parentesi, riprende sia il titolo della raccolta d’esordio sia il precedente Le moradas (dove le moradas sono, nella lingua spagnola cara all’autrice per ascendenze materne, “stanze” di meditazione, ovvero indugi strofici con cui il canto dell’opera si costruisce), mentre l’aggettivo, anteposto, si offre come sostantivo autonomo (umbra del corpo dell’autrice), a sancire il distacco, appunto, da ciò che gli si può affiancare, in una sintassi sempre più aperta e conflittuale, caleidoscopica.
Leggevamo in Lettere giovani una Dichiarazione di poetica: «Non di corpo bramava la sua lingua / godiva, amorosa svernare il lutto e gli ori / senza inverare le parole belle e / sole, nuovi moti celesti / i morti – sua remota sorellanza // silente sorellanza spinosa, seminare / apneica lingua, duri spazi-sogni / come lupa allappare / senza più sognare – agguerrita presenza / le smaniate cose». Mi sembra che questo testo sia ancora indicativo di un dettato che procede per strappi e per coaguli improvvisi, ricco di passaggi ellittici eppure cogente, sia per la disposizione sulla pagina che ricalca, non senza slogature (uso di trattini che spezzano e rilanciano il dettato, torsioni sintattiche e metriche, agglutinazioni, sillabazioni e spazi che dilatano improvvisamente il verso), strutturazioni classiche (strofe, distici ecc.), sia per la preminenza dell’aspetto fonico, che ricompatta, per esempio con l’allitterazione evidente, versi e addirittura strofe. Se aggiungessimo il ricorso a un lessico talvolta ricercato al limite del neologismo e aperto alle spinte di altre lingue (in primis lo spagnolo, ma non solo) e la frequente soppressione dei segni di interpunzione e degli articoli e, in particolare nell’ultima raccolta, l’uso abbondante degli incisi, si accennerebbe a una venatura di ermetismo ormai del tutto risolto, però, nelle marche di uno sperimentalismo discreto e profondo. Ma qui andrà subito annotata la sensazione diffusa di un sentimento di leggera disappartenenza anche a questi ambiti letterari, come se la scrittura si nutrisse di un sottile e vitale anacronismo (radice prima dell’estraneità?) rispetto a tutte le recenti mode (sperimentalismo e neo-ermetismo appunto, ma anche impegno femminista, abuso di riferimenti alla psicoanalisi ecc.) e alla propria generazione: tutti richiami sensati per la poesia di Quintavalla, ma nello stesso tempo forzature. Notiamo, peraltro, l’insistenza sull’infinito, che è esattamente il modo verbale con cui il soggetto si espropria dell’azione, che si fa assoluta, corpo autonomo con il quale confrontarsi. «Ma ecco improvvisa la lingua “godiva” – in cui l’allusione alla denudata lady Godiva resta, nella trasformazione del nome proprio in aggettivo, realizzata lungo questo asse di estraniazione, porta nel contempo fuori dal refoulement un sotterraneo – e non del tutto ucciso – sobbalzo erotico» (Zanzotto).
Non è dunque un canto luminoso, ore rotundo, quello che ci offre Quintavalla (benché apra le sue Lettere giovani con una citazione dal librettista di Mozart, Da Ponte) e nemmeno una conchiusa espressione lirica, ma un personalissimo cantar (nel senso che assume questo termine nella tradizione ispana, indicando il genere del poema epico, fra storia e leggenda) dove le tracce biografiche si fanno sedimentazioni fossili che si fondono e confondono con altre enigmatiche figure, da una cerchia familiare («Siamo nati per ripeterci, mimare / l’idillio della madre», dove nel termine mimare sono occultati sia la madre sia il «mare-personale», «la quintessenza dell’inchiostro») o da un contesto allargato di affetti (in cui spicca l’immagine di Nadia Campana, destinataria esplicita di molte Lettere e implicita di molti altri testi) o alla tradizione poetica. Ma questa tramatura storica, in cui balugina anche la militanza politica (si veda il Valzer della piccola patria di Lettere giovani) e l’impegno poetico, si fonde e confonde a sua volta con il mito e con la fiaba, originando strutture adamantine sulle quali si rifrangono tutti questi elementi, dando vita a un testo poliedrico e a una sintassi poliformica, a un corpo dunque oscuro e impenetrabile che manda continui bagliori in più direzioni, chiedendo una circolarità di movimento per approssimarsi a esso, ovvero una continuità di lettura.
Anche la struttura ormai compiutamente poematica assunta dall’ultima raccolta richiede un avvicinamento graduale e paziente. In Estranea (canzone) molti testi sono visivamente aperti (per assenza di punteggiatura o, viceversa, per la presenza di segni di interpunzione che denotano la continuità semantica) a confluenze e solidarietà improvvise, pronti dunque a espandersi verso altri luoghi dell’opera, e non necessariamente nei componimenti contigui: la strofa con cui inizia La sensazione del tempo che passava, per esempio, fonde la conclusione e l’inizio del dittico rappresentanto dalle poesie Ma per intanto (onde) ne e semplicemente quel fuoco. Il file rouge che sembra cucire tutte le sfaccettature dell’opera è anzitutto il lessico ormai potentemente originale, accostabile in parte alla lingua zanzottiana ma nutrito da linfe ritmiche originali, che si palesano in clausole ossessive e nelle iterazioni dei termini chiave (fra i quali spicca, in molteplici declinazioni, il lessema canzone). Più difficile, invece, è rintracciare il nucleo simbolico e tematico, sfuggente e pervaso da una lucidità di percezione onirica. Non sembra però inesatto intravedere nel farsi del libro il ricordo e la complessa mimesi della formazione della stessa coscienza poetica, ovvero l’oscuro movimento con cui un’intera generazione (o, forse, la parte più oscura di essa) si è trovata a nascere alla parola e al canto, cercando il proprio «giusto posto nel mondo», ma scoprendo in questa seconda nascita il dramma dell’estraneità e la dolorosa prossimità delle cose, da raccontare con una «voce nuova», pur memore del coro di un’intera tradizione che incombe fino a diventare mito sotterraneo – «ecco di là Nadiella, un enzo risanato», «da una russa marina già disdetto», «né dissipata, ma mietuta osip», «di molte nuove (voci) // che , come scrisse l’attilio, omologate / non, invendute» -, oppure serie di codici da «stringere rifàcere», come nell’Ungaretti dell’attacco «Balaustrate e brezze» o nell’Ariosto, genius loci, che presta umori fantastici e ironici entro i quali la parmigiana Quintavalla può rivisitare la humus originaria e farne leggenda: «Le donne i cavalieri le armi / gli odori, antiche storie mai / raggiunte», «Oggi già incredule incredute pieghe / di una figlia agile ippogrifo». Si può ampliare senza difficoltà l’elenco dei padri putativi di questa poesia, ma sarebbe un gioco inessenziale, perché altrove si compie la vera scommessa. La fonte prima della potenza poetica, infatti, si scopre seguendo i percorsi di una linea personale del tutto femminile e non soltanto nel senso di una dedizione letteraria a donne che hanno contribuito, in particolare nel recente passato, a fissare la fisionomia del Novecento, ma soprattutto per l’identificazione, non priva di conflitti, della voce poetica con la voce materna. La seconda parte di Estranea ci consegna infatti l’icona di «due madri amiche» sorprese, e riavvicinate forse, dalla scoperta che il segreto della poesia ha, in qualche modo, a che fare con il segreto femminile di saper «(ripetere) / la storia», e che la voce del canto affonda le radici nel corpo.
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