Sul Nobel della letteratura a Dylan

E va bene, adesso partirà l’ovvio, calcolato, strabordante dibattito mediatico (ovvero il moltiplicarsi planetario dei monologhi) intorno al premio Nobel della letteratura, assegnato da poche ore, per la prima volta, a un cantautore.

 

A me adesso non interessa entrare nel merito, anche se qualcosa di clamoroso è davvero successo (volutamente). Vorrei registrare la notizia da qui, dal mondo della scuola. Oggi nelle mie classi, almeno al liceo, discuterò la notizia con gli alunni e cercherò soprattutto di ascoltare le loro impressioni (anche se probabilmente del grande “bardo di Duluth” sapranno ben poco).

La prima candidatura al Nobel di Dylan risale a vent’anni fa. La nostra, da decenni, è ormai l’epoca in cui “Cultura & Spettacoli” vanno a braccetto. Ma non ricordo questi dati con ironia. A me piace la mescolanza, la creatività della confusione, il movimento – purché funzionale alla scoperta. Per me procedere a compartimenti stagni è sempre indice di povertà. A scuola bisognerebbe mostrare la cultura e il suo procedere storico in tutte le sue forme, dalla poesia alla narrativa, dal cinema alla musica, dalla canzone al fumetto. E infatti per spiegare il superamento romantico e novecentesco del gusto classicistico (al limite stucchevole, artificioso), accanto al Montale più stravaccato delle sue ultime poesie, richiamo sempre la moda dei jeans strappati, cito il fatto che adesso si va dal parrucchiere per spettinarsi con cura.

Una volta si parlava di “spirito del tempo”. I grandi scrittori erano là, in cima, a interpretarlo, ma questo spirito camminava tranquillamente anche nei vicoli più sordidi. Anzi, forse il suo vento spirava soprattutto là. “Sopra”, “sotto”… Già il discorso si imposta male. Mica è detto che la poesia sia là in cima e la canzone giù, nella feccia. Meglio una buona canzonetta che una brutta poesia. C’è bisogno di dirlo?

Forse già alla fine di quest’anno scolastico i prossimi testi di letteratura saranno aggiornati e, dopo Montale, liquidati velocemente tutti gli autori successivi, si citerà lui, Bob, l’ultimo grande poeta del nostro tempo. Per me andrà anche bene. Sono abituato a chiedere ai miei studenti di portare le loro canzoni, mentre io porto le mie poesie. E mi piace mostrare che talvolta Eminem e Baudelaire ci dicono, in fondo, la stessa cosa. Ma con un mondo di differenze da esplorare e da capire. Ecco, questa differenza mi pare una ricchezza e per me il problema è questo, oggi: chi riuscirà a vigilare su questo abisso, ora che i cantautori sono ufficialmente i poeti del nostro tempo?

Il Nobel a Dylan rischia, paradossalmente, di farci perdere un grande patrimonio di musica. La musica altra, quella della poesia.

Ma la poesia se ne infischia, striscia ovunque, sempre clandestina. Forse è felice di tutto questo. Forse il destino voluto della poesia è proprio l’invisibilità; anzi, la propria autodistruzione. La poesia vuole aderire disseminarsi disperdersi ovunque, farsi irriconoscibile.

Abbiamo poetizzato il mondo. Assumiamoci questa responsabilità.

P.S.

Tra i tanti articoli, a me ha interessato particolarmente questo, di Tiziano Scarpa

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