(L’immagine in evidenza di questo articolo è un disegno di Marta Ferro)
A scuola per anni non ho mai parlato apertamente della mia attività letteraria, né in classe né con i colleghi. Non che fosse un argomento tabù, ma di fatto non ho mai raccontato nulla. Qualcuno, ovviamente, finiva per intercettare qualche notizia, ma un’allusione di tanto in tanto scappava come una scintilla perdendosi nell’aria e tutto finiva lì. Qualcuno un giorno addirittura appese in bacheca in corridoio alcuni miei testi apparsi in rivista, con tanto di fotografia. Ci fu chi mi fece notare, perfettamente in buona fede, quanto mi assomigliasse, il poeta. Del resto il nome, a chiare lettere, non era il mio.
Con il tempo, però, almeno tra i colleghi di più lungo corso, la consapevolezza della mia attività e del mio nom de plume si è consolidata. Tuttavia, soltanto pochi, due o tre, in rare occasioni mi hanno chiesto qualcosa di più specifico. Con una persona soltanto sono entrato nel merito più spesso, a partire da riflessioni e da scambi di opinioni intorno alla letteratura contemporanea da affrontare agli ultimi anni del liceo. Forse qualcuno ha pensato che il mio riserbo fosse una buona ragione per frenare la curiosità. Trovo comunque abbastanza normale che i miei colleghi ignorino i miei libri o li abbiano, al più, sentiti nominare.
Comunque, negli ultimi anni mi è capitato in qualche classe di uscire allo scoperto. All’improvviso. Forse l’ho fatto per trovare un ultimo espediente buono per sorprenderli, per spezzare qualche momento eccessivamente inerte. Così è stato recentemente nell’attuale Quinta Ginnasio.
“Oggi, visto che dovremmo trattare la ballata, analizzeremo una mia poesia”. Continua a leggere