Abbasso la critica, evviva la critica. Leccatine a Frye e Cortellessa
(L’opera scelta come copertina, ispirata da una foto – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa –
è di Giuditta. Pubblicata per gentile concessione – collezione privata)
Questo intervento, del gennaio 2007, è apparso sulla rivista «Incroci», in un numero monografico intitolato Confronto sulla critica e curato da Daniele Maria Pegorari (uno dei critici più validi e impegnati del nostro panorama). Precisamente, si tratta del n. 16 della rivista (luglio-dicembre 2007, pp. 85-92). Al di là della situazione contingente da cui nasceva (una promozione critica di Cortellessa alla raccolta di poesie di Aldo Nove), mi sembra contenga provocazioni ancora provocanti. Si snoda in cinque passaggi:
- La critica e la poesia non esistono
- Il critico crede alla poesia
- La critica non ha senso
- Il valore di una poesia è un atto di violenza
- La poesia consuma la critica.
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In teoria critica e poesia possono convivere, in pratica no. A me interessa la pratica.
È necessario, tuttavia, passare da una serie di precisazioni per intendere pienamente la mia affermazione.
Tanto per cominciare, critica e poesia non esistono. Poi, il critico è una persona (spesso un poeta) che ha cominciato a credere alla poesia. E, ancora: la critica non ha senso; il valore di una poesia è un atto di violenza; la poesia consuma la critica.
La critica e la poesia non esistono
Esistono infatti una serie di pratiche particolari e irriducibili che siamo soliti generalizzare sotto una sigla o l’altra. La precisazione è essenziale, non cavillosa. Tanto diacronicamente quanto sincronicamente potremmo divertirci ad accostare componimenti “poetici” i più differenti, e altrettanto si dica per gli scritti che hanno l’ambizione di comprendere (per ora diciamo così) questi testi.
Dunque a che cosa alludo, io, quando parlo di “critica” e di “poesia”? Per critica intendo quella pratica, tesa verso paradigmi di sistematicità e di progressività, che valuta i testi letterari. Essa «ha precisamente l’ufficio di scegliere, selezionare, tramandare», come ha recentemente ricordato Andrea Cortellessa nella mai abbastanza elogiata, per gli assunti, antologia Parola plurale. Per “poesia” intendo invece la “mia” poesia e quanto essa ambisce ad annettersi (e a “giustiziare”) come tradizione.
Come si può valutare, da una parte, o darsi una tradizione, dall’altra, senza presupporre un cammino storico o una qualche forma di affinità ideale tra le tante diverse esperienze che si annettono al campo della “critica” e della “poesia”? In effetti valutare non si potrebbe, e l’evoluzione (in quanto illusione condivisa e quindi concretamente operante dentro tale attività genialmente inebetita) della critica ha proprio come sbocco, nei suoi più avvertiti protagonisti, il lucido abbandono del giudizio. Vi sottopongo, tra le tante possibili, questa riflessione di Northrop Frye, già ben stagionata (cito da Anatomia della critica): «I giudizi di valore sono soggettivi in quanto possono essere comunicati in modo indiretto, non in modo diretto. Sembrano oggettivi quando sono alla moda o generalmente accettati, ma questo è tutto. La dimostrabilità del giudizio di valore è per la critica letteraria come la carota per l’asino; ed ogni nuova moda critica, come quella attuale, fondata su elaborate analisi retoriche, è sempre accompagnata dalla convinzione che la critica ha finalmente scoperto il metodo perfetto per sceverare l’ottimo dal buono. Ma questa si rivela sempre una illusione della storia del gusto. I giudizi di valore si basano sullo studio della letteratura; lo studio della letteratura non può mai basarsi sui giudizi di valore. Noi diciamo, per esempio, che Shakespeare fece parte di un gruppo di drammaturghi inglesi che scrissero intorno al 1600 e che è stato uno dei più grandi poeti del mondo. La prima parte di questa frase è un dato di fatto, la seconda un giudizio di valore così diffuso e pacifico da sembrare un dato di fatto. Ma non è un dato di fatto. Continua però ad essere un giudizio di valore sul quale non può fondarsi, neppure in misura limitatissima, una critica sistematica».
Vero è che, in Italia, la situazione sembra piuttosto differente rispetto a quella suggerita dagli esercizi dei più insigni intellettuali europei (eh sì, all’estero pare che i critici riescano ancora a definirsi tali); la ricerca a oltranza della scientificità si è da tempo assopita e alle nostre latitudini non si smette mai di giudicare. Ciò dipenderà, suppongo, dalla nostra pervicace tradizione umanistica. Tuttavia, il malessere della nostra letteratura contemporanea è geremiade arcinota a chiunque: mancherebbero figure di spicco e la critica, che vive di rendita, latita, con la conseguente moltiplicazione esorbitante di scrittori e l’accrescimento delle difficoltà del critico, che non può leggere tutto e, se anche vi riuscisse, non sarebbe in grado di appellarsi ad alcun metro di giudizio condiviso, e così via. In attesa che il tempo, che non è galantuomo, produca una nuova tipologia di scrittore, che sia insieme promotore di sé stesso, critico degli altri e finanche editore, completando la dissoluzione in monadi autonomi della cosiddetta società letteraria, si prosegue per inerzia e per nevrosi a colpi di antologie, magari sempre più democraticamente onnicomprensive laddove evitano di essere smaccatamente partigiane. A meno che, diamoci questa speranza, la critica non risorga – e siamo qui per cercare un rito propiziatorio, no?
E perché, poi? Se è un impegno utopico, se giudica illudendosi di aver trovato l’algoritmo linguistico del valore, se genera soltanto «un sistema di automatico acquisto di meriti, analogo a quello delle ruote di preghiera buddiste», come scongiurava il medesimo Frye, perché dovremmo augurarci la sua prosperità? Semplicemente perché, tornando al nostro Cortellessa, la critica «ha precisamente l’ufficio di scegliere, selezionare, tramandare» e, «se non lo fa lei, c’è sempre qualcun altro pronto a farlo in sua vece; magari semplicemente il mercato, sempre pronto a farsi giustizia da sé. Con quali conseguenze, per la poesia, è facile immaginare».
Il critico crede alla poesia
Dunque il critico sceglie, quindi fa della comparazione, ma fra gesti che non andrebbero affatto equiparati. Si potrebbe obbiettare che è facile risolvere in tal modo la questione, ragionando per paradossi, chiamando cioè in causa prodotti indiscutibilmente diversi, tacendo però di quelli molto simili. È vero, se il fruttivendolo ci invitasse calorosamente a non comprare pere, non perché non siano buone, in quanto pere, ma perché è più giusto comprare mele, cambieremmo subito fruttivendolo. Se però, invece di offendere i nostri gusti personali, ci offrisse la propria competenza nella scelta della qualità di pera migliore, finiremmo per ringraziarlo, e ce ne torneremmo a casa non solo persuasi, ma persino più istruiti su criteri di scelta che fino ad allora non possedevamo (la diversa qualità della polpa, le proprietà nutritive, la stagione migliore per una qualità piuttosto che per un’altra, la fiducia personale nel coltivatore, magari anche soltanto l’aspetto estetico…). Altrimenti detto: ti piace la poesia epica? Assaggia questo. Ti piace la poesia impegnata? Con quest’altro vai sul sicuro. Sperimentale? Sentimentale? Comica?
Ci siamo fatti prendere dall’immagine, non c’è dubbio. Il critico (meglio: la nobile figura che noi ancora abbiamo del critico, non certo il misero mestierante dei nostri odierni rotocalchi, che ha davvero il compito di vendere prodotti) non offre al pubblico ciò che cerca: basti pensare lo spregio che nutre per i successi editoriali, per i quotidiani casi dell’anno, per ciò che profuma troppo di popolare: l’apprezzamento della massa (ma è chiaro che dovremmo distinguere ulteriormente e parlare di vendite più che di apprezzamento…) è sinonimo quasi sempre di bassa qualità. Egli pretende di indicare al lettore ciò di cui questi, senza rendersene conto, ha realmente bisogno. Non confondiamo il critico con il sociologo della letteratura, dunque! E, tuttavia, le pere non esistono. Il problema non è infatti stabilire il grado di parentela, ma sempre e soltanto giudicare quell’unico e preciso frutto, pardon, testo. In letteratura non troverete mai due poeti uguali e si dà il caso che la comprensione di un poeta passa attraverso l’esile sfumatura che lo rende unico. L’orecchio del critico gode quando coglie la differenza non dico fra una stessa opera eseguita da due diverse orchestre, ma fra un’esecuzione e l’altra del medesimo direttore, con i medesimi musicisti, nelle medesime condizioni ambientali e circostanze sociali. Questa pera, fidati, è migliore perché è cresciuta nel lato sud e sul ramo giusto di quel preciso albero che so io…
Così, eccoci alla strana triangolazione che tende a imporsi ai giorni nostri: il poeta scrive per quel popolo di dottorandi, scrittori in attesa di consacrazione, docenti universitari ecc. sperando di raggiungere il suo critico, il quale a sua volta si porrà come mediatore verso il pubblico o, nell’impossibilità di difendere il valore della poesia nella barbarie della nostra epoca, si limiterà (!) ad esercitare una funzione maieutica nei confronti del suo poeta. Così, insieme, difenderanno il fantasma della poesia. Del resto, il pubblico non è il primo a credere a quel simulacro? Mah, il fatto è che il pubblico non esiste… ma non avvitiamoci in ulteriori complicazioni, limitiamoci a liquidare una facile accusa, senza nemmeno spostarci dal più anziano mentore che finora ci ha accompagnati, Northrop Frye: «Il tentativo di raggiungere il pubblico direttamente, per mezzo dell’arte “popolare”, parte dal presupposto che la critica sia artificiale e il gusto del pubblico naturale: dietro a questo presupposto se ne nasconde un altro sul gusto naturale, che risale, attraverso Tolstoj, alle teorie romantiche di un “popolo” spontaneamente artista. Queste teorie, giudicate alla luce dell’esperienza e della storia letteraria, non hanno superato la prova dei fatti ed è quindi giusto incominciare a scalzarle. All’estremo opposto, come reazione alla concezione primitivistica e rifacendosi allo slogan dell’“arte per l’arte”, si considera l’arte un mistero, un’iniziazione ad una esoterica comunità civilizzata. La critica è ridotta a gesti da rituale massonico, a superciliosi ed ermetici commenti e ad altri segni di una comprensione troppo recondita per esser tradotta in parole. Direi che l’errore comune a questi due atteggiamenti sia quello di una rozza correlazione fra il merito dell’arte e il grado di rispondenza del pubblico, correlazione intesa in modo diretto nel primo caso ed in modo inverso nel secondo».
Va bene, allora, abbattiamo il simulacro della poesia, attorno al quale girano il poeta il critico e il lettore, e restiamo ai documenti. Non abbiamo già innumerevoli prove della convivenza dentro un unico cranio di una fine mente critica e del genio poetico? Direi proprio di no. La maggior parte di ciò che i poeti ci ha lasciato, tralasciando alcune incursioni estemporanee, non è critica in senso stretto, ma una forma saggistica più ibrida, un più capriccioso e libero (e talvolta efficace) modo di avvicinarsi all’opera altrui che nasce dalla propria personale poetica. Montale o Luzi o Sereni o Zanzotto o chi per essi si saranno di tanto in tanto diligentemente applicati, e ci hanno lasciato indubbiamente pagine memorabili, ma la loro tempra, la loro prosa, quando pulsa, è un polso che rimanda a un cuore che batte altrove. Altra è la natura, il modo di procedere, il sistema che costruiscono i vari Contini, Verdino, Isella, Agosti… E comunque sia, a me non interessa convincere nessuno. Le eccezioni o le situazioni patologiche esisteranno indubbiamente. Inviterei soltanto a riflettere sul caso più clamoroso che il secolo scorso ci propone: Thomas Stearns Eliot. Ebbene, in lui il “sistema critico” e il “sistema poetico” tendono effettivamente ad autogiustificarsi, a coincidere. Il primo è un seducente insieme di intuizioni acute, di banalità ben rassodate, di smaccati programmi di poetica e di reboanti stupidaggini che affondano su un retroterra puritano e reazionario che si tende troppo sbrigativamente a rimuovere. La sua opera poetica, invece, man mano che si ha la forza di uscire dagli orizzonti del Novecento, mostra sempre più i segni del tempo, i risvolti di un inesorabile deperimento. Eliot è infatti il più grande bluff della letteratura contemporanea e la sua genialità consiste proprio nell’aver creduto fino in fondo nella poesia e nell’aver costruito un sistema così coerente da diventare una trappola: ammaliati dai fili delle teorie, si cade inevitabilmente nel gioco illusionistico dei testi.
La critica non ha senso
Quasi tutti i poeti credono di credere alla poesia. Accettano il gioco sociale e si mettono in fila, in coda a tutti gli schieramenti, sotto la bandiera che li mantiene riconoscibili nel reame della letteratura. La poesia (la somma di quelle pratiche che noi uniformiamo con questo termine) è in realtà la radice prima della letteratura: ciò che di essa sta al di qua del limite concettuale. Non c’è bisogno di dimostrarlo, è un dato storico, che qui non si vuole sovraccaricare di alcun misticismo. Già, ma la tradizione che i poeti si prefigurano? Non abbiamo ancora risposto a questa domanda. Se il critico commette un arbitrio nel disegnare le sue genealogie poetiche, più o meno dettagliate, perché ciò non dovrebbe rappresentare un atto illecito per il poeta? In effetti, la tradizione che quest’ultimo si configura attorno a sé è propriamente illegittima, pretestuosa, illogica. La differenza è che il poeta non deve renderne conto a nessuno e se si sforza di convincere gli altri circa il proprio lignaggio, magari lo fa anche in buona fede. Inoltre, la sua visione è antistorica, capricciosa, completamente assoggettata al suo gusto. Il critico, di fronte a tali pretese, potrà assecondarle oppure sbugiardarle, ma questo non importa. Riassumendo: la poesia, che non si sa (e non può sapersi, perché esiste solo nel proprio farsi) prescinde dalla critica, che si illude di sapere se stessa e crede in una poesia che non esiste. Ogni singolo gesto poetico, che ha dimora in una perpetua domanda di senso, ha il destino di, ovvero arriva naturalmente a (senza averne nemmeno l’intenzione) frantumare il significato della critica. La critica non ha, dunque, senso. È coerente, certo, ma se pretende di giudicare svela la contraddizione specifica che la vuole voce di ciò che è manifestazione muta di senso, sempre unica e circostanziata, non misurabile; se invece pretende di non giudicare, diventa inutile e quindi viziosa, mentre la gratuità è il tratto caratteristico del suo preteso oggetto, non del proprio statuto.
Il valore di una poesia è un atto di violenza
Ohibò, ma si sta sostenendo davvero che la poesia non si possa valutare? Che i versi maldestri e sdolcinati di un adolescente persino a digiuno di studi “valgano” quanto la Divina Commedia? Che facile populismo, che snobismo rovesciato è mai questo? Anzitutto, noi giudichiamo sempre, nessuno lo nega, però un conto è farlo per sé, consapevoli di esercitare il proprio gusto, un conto è pretendere di valutare anche per gli altri. Il critico è colui che esercita la propria capacità di persuasione sul preteso valore di un’opera, “dimostrabile” a partire da alcuni criteri più o meno espliciti e accettati per convenzione. Egli difende delle convenzioni o ne istituisce di nuove, e non si discute sul fatto che molte di esse siano anche ragionevoli, per cui a nessuno verrebbe in mente, per esempio, di togliere Dante Alighieri dalla nostra letteratura per sostituirlo con Dante da Maiano. Però il gesto dell’adolescente che compie quello strano rito, iniziato su tutti gli equivoci derivati dalla propria ignoranza (o dalla propria intelligenza), è una più o meno consapevole mistificazione della letteratura, una faticosa ridiscesa lungo il tronco per arrivare alla radice prima, e muta, del senso. È un’esperienza infondata e fondativa. Un viaggio ultramondano verso dio, o chi o cosa per esso. Né più né meno. Il confine che separa letteratura e poesia (quella singola e invalutabile esperienza ecc.) è creazione che si appercepisce e gode di sé.
Gli infingimenti impliciti in una valutazione sono davvero sottili ed intricati, questo mi preme evidenziare sopra tutto. Mi viene in mente un recente episodio, a mio modo di vedere positivo, che chiama in causa di nuovo l’altro mentore di queste mie noterelle: Andrea Cortellessa. Il critico ha presentato sul numero di gennaio 2007 di «Poesia» un’anticipazione del prossimo libro di Aldo Nove parlando senza mezzi termini di «“vero” avvenimento», non senza segnare con puntiglio la distanza rispetto ai «tanti pseudo-eventi, “fattoidi” e minimi fatterelli e faccenduole che ogni settimana animano, si fa per dire, il piccolo mondo della nostra letteratura». Il lettore veniva subito messo all’erta. Ebbene, a fronte delle tre pagine effervescenti di Cortellessa le poesie di Nove, invero graziose, impallidivano timidamente, ma il punto non è affatto questo. (Del resto, il mio soggettivo “graziose”, preso nel suo valore etimologico e privo di sfumature ironiche, non ha alcuna pretesa di oggettività). Ciò che era interessante e positivo in quelle pagine era il denudarsi della critica che, nello sforzo di motivare l’attribuzione di valore, rivelava l’inanità del suo conato. L’analisi di Cortellessa era, naturalmente, condotta secondo i crismi più collaudati, per cui non mancavano dotti riferimenti, contestualizzazioni nella tradizione presente e passata, citazioni puntuali e quant’altro, ma analizzando quelle pagine da un punto di vista logico non si trovano argomenti probanti, sotto la retorica del discorso. Per esempio, non è di per sé un valore lo «scandalo» del tema. L’essenza di Nove sia pure la “novità”, certo, ma ci sono tanti autori che hanno saputo rinnovarsi di libro in libro e ce ne sono ancor di più che sono riconosciuti grandi a partire dalla loro coerenza tematico-ideologica e stilistica. Non credo che alternare un’ode a Hugo Chávez, un poema epico per Rocco Siffredi e un carme contro la legge che persegue chi sostiene tesi negazioniste nei confronti della Shoah sia di per sé un valore. Il rovesciamento della «plumbea tragicità suburbana» dei primi libri «nella schizomorfa comicità» dei versi attuali (e si tratti pure non di un semplice superamento, ma di una nuova, più integrata sintesi: il ribaltamento non annulla la prima maniera, che retroagisce come risvolto segreto, ci spiega Cortellessa) non è dunque, in sé, un elemento qualificante – se non a fronte di tante premesse sottaciute, anzi di un’intera visione della realtà e della letteratura. Non è vero che un brutto libro scritto da un poeta di grido avrebbe di per sé un grande significato, un notevole peso, nel commercio critico sulla letteratura? E se anche Gene Gnocchi avesse pubblicato poesie migliori di Vittorio Sereni, chi avrebbe il coraggio di riconoscerlo (a parte D’Orrico)?
Ci sono però altri ragionamenti portati a suffragio dell’«avvenimento»; per esempio, Nove recupera «– con assoluta e sbalorditiva naturalezza – la tradizione secolare dell’inno mariano», con tutte le sue caratteristiche: il linguaggio semplice a fronte di concetti teologici anche ardui, la sovrabbondanza di rime, ma soprattutto l’impianto metrico. Già, ma anche qui, Nove non è nuovo nel contesto, così ampio, di ritorno a una metrica chiusa nel Secondo Novecento, mentre per la capacità di far versi su contenuti teologici, Cortellessa potrebbe giuggiolarsi con i libri di Giovanni Costantini, che non ha nulla da invidiare in leggiadria e giocosità evangelicamente scandalosa. Insomma, per farla breve: le pagine di Cortellessa rappresentano la negazione di quello che la critica stessa vorrebbe essere. Credo che se un giovane studente avesse proposto in università un simile testo, sarebbe stato rispedito indietro a correggere i troppi e apodittici superlativi: i libri precedenti di Nove sono «bellissimi», «bellissimi» sono i canti attuali (tanto che nella mia mente, ve lo confesso, Cortellessa è andato simpaticamente a coincidere con il Mollica che in TV di tanto in tanto ci ragguaglia sui bellissimi film o bellissimi album appena usciti). Dunque la grandezza di Nove si impone rigo dopo rigo, con la sua «stupefacente capacità empatica di ascoltare», le «parole semplici e fiammeggianti», la «straordinaria capacità di contemperare», la «formidabile capacità […] di prolungare indefinitamente […] un’intensità lirica che è, in ogni suo punto, non meno che incandescente», e così via. Insomma, arrivato all’apice del godimento della poesia, al critico non restano che i soliti, triti e ritriti concetti idealistici di emozione, di intensità, di lirismo. Risentiamo il finale, dove si tocca il preteso culmine persuasivo: «Non si crede ai nostri occhi, al nostro cuore: nell’aderire – come non possiamo non fare – con tale immediatezza, e insomma con tanta emozione, a queste parole. […]. Ma mai come in questo caso poco importa ristabilire nessi, sancire genealogie, analizzare al microscopio. In questa sede quel che conta è condividere un’emozione che davvero nulla ha di microscopico: quella – antichissima e sempre futura – del veder nascere una grande poesia».
Come volevasi dimostrare: quando nasce la grande poesia, la critica muore.
La poesia consuma la critica
Sarà bene a questo punto precisare che il mio intento non è affatto deridere, in alcun modo, Cortellessa, che ritengo davvero uno dei nostri critici più intelligenti: firmo anzi seduta stante una sottoscrizione di stima e di gratitudine per qualsiasi valutazione, positiva o negativa, vorrà eventualmente avanzare nei confronti di un qualunque mio scritto – la vera e più terribile arma di giudizio che possiede la critica è infatti l’omertà, la condanna all’oblio, il non riconoscimento d’esistenza (ah, ecco la violenta, e inarrestabile, spirale che si agita in fondo alla guerra delle antologie!). Qui non rido di Cortellessa, rido con lui, per la verità di cui si è fatto testimone: non per nulla ho detto subito che la circostanza ricordata era positiva, perché rivelatrice del fatto che la poesia, infine, consuma inevitabilmente la critica. Accadessero più spesso episodi del genere. Quel brano di Cortellessa non andrà letto come una caduta giornalistica, come la retroazione di un linguaggio da web su un intellettuale raffinato o peggio ancora come l’azione faziosa di un giovane critico. Quelle pagine ci ricordano sinceramente che il valore di un testo è sancito dalla capacità di persuasione di chi crede a quel testo. Che un endecasillabo con accenti in 2-6-10 sia migliore di uno con accenti 3-5-10 è una convinzione indotta, una convenzione, e così è per qualsiasi altro precetto dichiarato o implicito che uno studioso inserisce nel caricatore. E le convenzioni hanno pure la loro importanza, sia chiaro, e arrivano anche ad uccidere veramente, ma il poeta che si applica su un tipo di verso trova senso nel cercare un attrito sul quale lavorare, nel darsi limiti per aprire orizzonti inattesi a sé stesso, semmai ne sarà attratto per ragioni istintive, ma non se ne sarà servito certo perché creda che quel verso sia un valore assoluto.
E, qui sta il punto sottile e drammatico, qualora cominciasse a crederci, comincerebbe ad avvelenare il proprio pensiero poetico. Comincerebbe a valutare, smettendo di vedere e di sentire. Il suo angelo acquisterebbe un volto: ahimè, appunto quello del critico, del lettore intelligente, di un individuo capace di valutare. Per sfuggire a quel volto meduseo, potrebbe persino servire stoicamente un altro pubblico, magari il lettore ingenuo, la gente comune – ma partendo dal presupposto che questo debba essere un elemento valutativo imprescindibile per capire la sua azione. La festa diventerebbe un lavoro. La vita, gratuita e vanamente, tragicamente bella, un compito. Se scriverà con parole semplici, sarà perché ha scelto una tradizione; se scriverà con parole difficili, sarà perché ne ha scelto un’altra. Il poeta, invece, non sceglie un bel niente, semmai è scelto, e una tradizione vale l’altra. Ciò che conta è l’intensità della risposta.
Parlando, con troppa amichevole complicità (ma tanto anche lui mica è un critico), di Nodi di Hartmann, un mio recente libro di «teoria poetica» se non, a suo dire, di «morale poetica», Davide Brullo ha affermato che «ogni poeta ambisce a mettere la parola “fine” alla storia della letteratura. È questo senso di una necessità terminale a inaugurare, forse, un nuovo sguardo sulla poesia, spesso ammansita in gioco da biliardo e di aggettivi». Ecco, in queste parole mi sono sentito oscuramente denudato.
Che, alla fine, il poeta non voglia altro che attraversare la stessa tradizione che lo ha stregato e ritrovare, beninteso andando avanti, quell’ingenuo adolescente?
Comunque anche questo mio ciangottio, lo si sarà capito, non è un intervento di critica.
Al rapporto fra poesia e critica io ho dedicato vari scritti. Esso è stato, anzi, il fulcro di tutta la mia riflessione, valga quel che valga.
A ben vedere, almeno da Baudelaire in poi, i grandi poeti sono stati quasi tutti grandi critici (da Baudelaire stesso a Mallarmé a Valéry, da Eliot a Pound a Montale a Ungaretti, e poi Luzi, Sanguineti, Zanzotto…). Non è una regola fissa, ma è un dato con cui confrontarsi. La poesia moderna, forse proprio a partire dal momento in cui, con la “perdita d’aureola”, la sua legittimità, il suo valore, forse la sua stessa ragion d’essere e la sua stessa sopravvivenza sono stati messi in dubbio, ha avvertito come necessario l’affiancamento di una riflessione critica, anzi lo stretto e vitale intreccio con essa.
Ma forse è vero, paradossalmente, che poesia e critica, considerate in sé, disgiuntamente, non esistono.
La grande poesia è metapoesia, è riflessione, implicita o esplicita, sulla poesia, assidua interrogazione della propria ragion d’essere, dei propri limiti, dei propri mezzi e fini. E la grande critica è sempre creazione, è sempre “poème critique”, secondo la definizione di Mallarmé.
Una critica che non sia anche poesia è esercizio accademico, vuoto tecnicismo, meccanica filologia di chi legge senza capire e, peggio, senza sentire; o semplice chiacchiera giornalistica, o vaniloquio; una poesia che non sia anche critica (critica di se stessa ma anche critica della vita, “criticism of life”, come Matthew Arnold, seguito da Charles Du Bos, definiva la letteratura) è sbadata prosa che va a capo ogni tanto, non si sa perché, o ingenua effusione, o retorica, o propaganda, per di più inascoltata e vana.
Poesia e critica non esistono perché svaniscono, l’una e l’altra, l’una nell’altra, nella fiamma della propria fusione, “nel foco che le affina”.
Non è “irrazionalismo” ermetico, ma passione intellettuale.
Vero è, invece, che i parametri di giudizio cambiano nei secoli. Nessuno negherà che Voltaire fu uno dei maestri della modernità, o almeno di una delle varie modernità possibili (non necessariamente sul piano letterario); fu, ed è ancora, per molti, un maestro; e fautore di una forma di classicità e di classicismo intesi come equilibrio, norma, regola, ordine, “canone”…
Eppure si resta sbalorditi leggendo i suoi giudizi su Shakespeare “sauvage ivre”, su Dante “bizarre”, “étrange”, “divinité cachée” di cui nessuno intende gli oracoli…
E, quanto al sostituire Dante Alighieri con Dante da Maiano, era precisamente ciò che nel Medioevo facevano alcuni amanuensi, non necessariamente incolti, quando attribuivano all’uno i sonetti dell’altro, generando incertezze che durarono fino a Michele Barbi, e che in alcuni rari casi durano ancor oggi… (Anche il semplice copista, nel momento in cui apponeva un’attribuzione, o sceglieva o introduceva una variante, compiva, magari inconsapevolmente, un atto ad un tempo critico, storico e creativo, diveniva anello attivo e vitale di una tradizione: ma questa è un’altra storia).
Poesia e critica si fondono in un nodo di Moebius che, però, in sé e per sé, è incline ad assumere forme e striature e riflessi diversi e cangianti al contatto del fluire del tempo, del divenire della storia.
Costanti nella tensione del loro nodo, nella necessità della loro fusione, poesia e critica mutano, con il mutare dei tempi, nei parametri e nelle prospettive.
In ciò stanno la loro relatività, la loro parzialità, ma anche la loro libertà – in definitiva, la loro umanità.
caro Andrea Temporelli, complimenti per il tuo pezzo “critico” 8anche se tu lo neghi)… una sola cosa non condivido: il giudizio negativo sulla poesia di Eliot. A me sembra invece che più tempo passa più la sua poesia diventa un classico. E poi avrei dei dubbi sul fatto che la poesia sia un atto di violenza. Puoi spiegarti meglio?