Liberarsi della letteratura
(L’opera scelta come copertina è di Salvatore Carvelli.
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Siamo sull’orlo di uno strappo. E ogni strappo costa sangue.
Questo Paese sta privando, se non l’ha già fatto, la mia generazione di un futuro. Il conto è salato, ma qualcuno, prima o poi, ce lo dovrà pagare.
Flavio Santi
Nel novembre del 2006 scrissi un editoriale che annunciava la fine di quella che qui abbiamo sempre chiamato opera comune. È rimasto inedito, giudicato inopportuno. Era invece solo intempestivo. Poi tutto è precipitato molto in fretta, purtroppo.
Il tempo peraltro continuerà ad accelerare, per noi. Lo sappiamo, non c’è da illudersi.
Qualcuno ovviamente non se ne è accorto o fa finta di niente. Lo dicevo proprio in quell’editoriale: è una strategia possibile. Per qualcun altro, invece, è accaduto l’irreparabile. «Dopo la morte di Simone, ci siamo liberati della letteratura», ha scritto Davide: ecco, sottoscrivo.
In questi anni la rivista ha iniziato dunque una trasmutazione. Non si tratta solo di un cambio di nomi nella squadra che la anima in prima linea. Potevamo gettare le armi, farla finita; invece, lentamente, continuiamo ad attraversare le nostre metamorfosi. Perché?
Se una rivista fosse semplicemente funzionale al successo, servirebbe solo a chi la fa per i propri obiettivi personali, raggiunti o venuti meno i quali, cesserebbe di esistere. Ma qui non è questione di promuoversi al fine di pubblicare con questo o quell’editore o di fare di tutta l’italica produzione libraria un fascio buono per i buoi, solo perché ovviamente non si è stati invitati al banchetto. Ovunque bene e male si mescolano, si sa, financo sulla nostra pelle. Qui, semplicemente, ci si sforza di distinguerli sempre, ci si sorveglia a vicenda per tener salda la barra del timone, per non cedere al canto delle sirene o addormentarsi, per tenere dritta la schiena, malgrado i venti gelidi. Fare letteratura davvero, infatti, vuol dire sfondarla continuamente, andare sempre al di là di essa. Oggi più che mai, ciò significa avventurarsi nella propria solitudine e prendere terribilmente sul serio ogni cosa, con tutta la leggerezza di cui si è capaci.
Saltar giù dal Titanic e speronarlo con il proprio brigantino corsaro non significa affatto essere iconoclasti, sperimentali, qualunquisti, separatisti, sfigati, generazionali, puristi, invasati, tradizionalisti, incazzati: questa sarebbe ancora avanguardia letteraria. Bisogna essere pacifici eremiti che dalle loro celle si lanciano messaggi per annodare le proprie solitudini, per non intossicare di rabbia la penna. Occorre sentirsi artisti di strada con il cappello rovesciato in terra e un pugno di rime scritte all’insaputa di sé stessi, per rubare il silenzio delle cose, quando a tratti pare sorridere con gli occhi di qualcuno che presta attenzione. Gli scrittori sono bambini innocenti e crudeli, che nascondono sassi nelle loro palle di neve. Non serve mai in letteratura, alla lunga, far comunella, piuttosto condividere la fatica di una dura disciplina personale. Senza lagne. Anzi, a tratti, persino con gioia.
Il tempo continuerà ad accelerare? Bene. Balleremo su carboni sempre più ardenti.
(da Smarcamenti, affondi e fughe)
Caro Andrea, sei saggio, lo ammetto. Spesso la rabbia porta solamente autodistruzione. Nella vita ci vuole diplomazia. Concedimi però una semplice riflessione: non è forse la rabbia, il disappunto, il disgusto, il tormento, talvolta la superbia (quest’ultima la più tremenda e sbagliata) che, assieme a tutte le altre qualità necessarie per fare arte, hanno spinto, mosso, scosso e dato forza ed energia a molti grandi poeti del passato? Cosa ne è stato dei tormenti solitari, poveri e rabbiosi di un Campana o di un Rimbaud? Cosa ha portato loro l’astio se non intense emozioni che, pur bruciandoli, ha permesso loro di auscultare alt(r)e frequenze? Spesso la poesia è frutto di geni giovanili, dell’incertezza e del dolore del silenzio, della mancanza dell’ascolto…della solitudine.
Così il grande Campana attacca l’editoria nel 1916: “…immaginerà con quanto schifo sono obbligato a ricorrere a questi miserabili succhiatori del miglior sangue d’Italia che si chiamano editori…” , ed ancora “non vi dovreste voi vergognare tuttavia di sputare in faccia al sentimento artistico facendo servire da mezzana per la propaganda delle vostre idee un’arte falsa e bastarda?????? (6 pundi interrogativi di Campana) E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di cancheri che è Firenze e venite qua a Genova e se siete un uomo d’azione la vita ve lo dirà e se siete un artista il mare ve lo dirà. Ma se voi avete un qualsiasi bisogno di creazione non sentite che monta attorno a voi l’energia primordiale di cui inossare i vostri fantasmi? Siete l’accademia del Mantellaccio: sì, voi siete l’accademia del mantellaccio; con questo nome che ora vi dico in confidenza, io vi chiamerò se non rispettate più l’arte.” Potrei continuare con le citazioni del nostro Dino o anche di Rimbaud, ma sarei troppo prolisso. Talvolta il defenestramento è necessario, ma uno pacifico, con rabbia moderata, mappur necessaria. Non concordi?
Caro Francesco, non sono un esperto in diplomazia. Nelle mie attività letterarie ho sempre affondato il colpo senza calcolo sulla convenienza, concentrato solo sul senso del gesto da compiere, sulla sua verità. Forse quello che tu cogli come saggezza è lotta contro la superbia, che spesso si annida nell’umiltà. Comunque l’arte dentro infuoca, smania. Non lasciarsi divorare è dura disciplina
Ci vuole disciplina, concordo. Nella critica, per chiarezza, non mi riferivo a te.