Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Paolo Del Colle

L’esperienza di Paolo Del Colle all’altezza del libro d’esordio, Gemme apicali, è risolvibile entro l’araldica preziosità suggerita dal titolo, che si concretizza nelle scelte lessicali ricercate (stipa, belletta, m’arruga, tedio, scerbato) e in una sintassi giocata su un effetto di straniamento, ancora legato a un’aura classicista, come dimostrano le innumerevoli inversioni e dislocazioni degli elementi frasali (a partire dal verbo, spesso relegato in posizione conclusiva). Ma si veda anche questo esempio, che rende per mezzo di altra strategia il medesimo effetto: «gli avanzi vorticano / sorti dai cumuli sbandati volano, / labile occupazione a tratti, a strappi; / non giunge requie / in cui s’attende, infine, quel che spetta. / Da un compito il dibattersi lamenta / che storni tenace l’inquieto tempo, / dal cui posare si riassesta il macero». Qui è soprattutto la ritmica testuale, imposta dai numerosi sdruccioli, a conferire il senso di un’euforia linguistica quasi dannunziana, benché modernamente sincopata.

L’apporto originale dei testi inediti pubblicati sul Secondo quaderno italiano è difficile da valutare, se ci si concentra, sulla scorta del titolo, sulle poesie più brevi che seguono una scelta antologica da Gemme apicali. Del resto, Stefano Dal Bianco, in una pur rapida recensione, evidenziava come nella «scrittura “astratta e invariabile”» di Del Colle si attuasse «una sorta di implosione derivante dal cozzo fra le opposte esigenze dell’ellissi e dell’affabulazione», che di certo non aiuta il lettore a cogliere il nucleo concettuale e figurativo di questa poesia. Piuttosto, la novità patente è rappresentata dal testo introduttivo, Novembre, non foss’altro che per la lunghezza del testo, che occupa da solo più di sei pagine. La scommessa sembra, qui, rivolta a una poesia che superi il frammentismo e la densità lirica esasperata del Novecento, senza confondersi con la prosa e senza perdere in concentrazione, come il tenore raziocinante che compenetra le descrizioni del paesaggio (non senza appoggiarsi alla voce di un attante che irrompe sulla scena con una composta ma autorevole riflessione). A garantire la tenuta poetica, a livello testuale, sono ancora le movenze sintattiche («Per tanto che cambia / simile rinnova un pensiero d’intento / la via trovata dalle foglie alle radici. / Alcune il vento risolleva / e tanto alto giungono di nuovo / che non sai da quanto manchino alla pianta; / con un rapido fremito poi / all’avvenuta caduta ridanno vita»), che comportano talvolta, e involontariamente, esiti al limiti della parodia («pochi passi porto al camminar che avanza»).

E su questo aspetto sembra aver maggiormente lavorato l’autore, a giudicare dai risultati di Mare o monti, opera scritta a quattro mani con Edoardo Albinati e presentata, anche provocatoriamente, come un unico testo di circa ottocento versi all’interno del quale nessun brano è riconducibile a una certa paternità (e forse la vera impresa tentata è ferire al cuore il lirismo della poesia contemporanea). Il notevole amalgama raggiunto con la scrittura di quest’ultimo (riconosciuto narratore, dalla prosa a tratti caratterizzata da un passo aforistico) sembrano aver mutato sensibilmente l’orientamento di Del Colle nei confronti della prosa, non più avvertita come completamente altra rispetto alla scrittura in versi.

(da Poeti nel limbo)

 

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