Educare o inculcare?
Malgrado tutto, il docente mantiene pur sempre un ruolo di potere, se non altro quando chiude la porta ed entra nella sua trincea quotidiana.
Ma non c’è educatore degno di questo nome a cui non tremino i polsi ogniqualvolta rifletta sulla propria responsabilità. Avere a che fare con giovani persone in piena evoluzione, così belli e fragili, significa in quel contesto chiedersi fino a che punto sia giusto far leva sulla propria passione per riuscire a trasmettere tutte le proprie conoscenze. Già questo modo di esprimersi denuncia, a ben pensarci, una linearità fuorviante: dal docente al discente, dall’adulto formato all’individuo ancora “incompiuto”. Eppure la realtà è ben altra.
Anzitutto, non ha senso pensare a un germoglio come a qualcosa di imperfetto perché non è ancora un ramo. Sarà un ramo quando sarà il momento, se si avvereranno tutte le condizioni necessarie. Ecco, l’insegnante è quello che cura le condizioni perché sia il discente ad andare verso di lui o – meglio – verso il sapere.
E tuttavia molti insegnanti, del tutto in buona fede (il dramma vero è proprio questo) continuano a confondere il verbo educare con il verbo inculcare. Invece di far emergere ciò che, in potenza, è già presente nell’alunno, si sforzano in tutti i modi di imporgli il proprio sapere. Per il suo bene, naturalmente. Perché un giorno, quando avranno discernimento e sapranno capire ciò che è il loro bene, ringrazieranno, anche se adesso si trovano a dover copiare centinaia di volte la parola scritta con una “i” di troppo o in meno, o mandare a memoria interi canti infernali che li condurranno, un giorno, alla beatitudine della memoria. Già: una memoria leopardiana, che trasforma il dolore passato in una sottile forma di piacere. Il piacere di essere sopravvissuti, nonostante tutto. Di essere diventati più forti, anzi (così ci si convince), di essere diventati forti grazie a quegli sforzi, a quegli esercizi. Ciò che non uccide, fortifica.
Quanto spreco di sofferenza. Che terribile equivoco.
Non che il rapporto educativo non comporti tensioni, lotte, desideri. Non che in un rapporto diverso non ci siano momenti di pressione. Tra dare l’esempio e plagiare il confine è sottile, specialmente in un rapporto asimmetrico come quello fra un adulto e un ragazzo. Comunque, io reputo di essere diventato “forte” (laddove posso dirmi tale, fermo restando che la forza non è rigidità e che l’autorevolezza non è autorità) certamente più per merito di certe carezze che di certi schiaffi.
Nella complicata prossimità dei due verbi all’interno del rapporto che l’adulto instaura con il ragazzo, ci sono però delle attenzioni che andrebbero ribadite e che dovrebbero tradursi in uno stile, anzi addirittura in un metodo, in una visione della didattica. A mo’ di appunti, comincio qui un elenco minimo:
- favorire in tutti i modi la libera espressione, anche critica, dell’alunno, e accoglierla con atteggiamento di vera disponibilità (ovvero non prenderla sempre come una minaccia alla propria autorità)
- pattuire con l’alunno degli obiettivi realmente condivisi, non pensati dall’adulto sulla base di standard di varia provenienza
- creare percorsi didattici che nei metodi e nei contenuti lascino libero lo studente di compiere delle scelte
- studiare il modo di farsi amare (come ripetono i salesiani) piuttosto che di farsi temere: solo così gli alunni ameranno, attraverso la stima per il docente, ciò che magari per indole non amerebbero
- accettare la gradualità del percorso di ciascuno, rispettandone insomma i tempi e le fragilità (quante volte invece ci si irrigidisce pur di “mantenere compatta la truppa e farla marciare allineata”…): ciò implica una didattica flessibile, modulare, personalizzata, inclusiva
- accompagnare all’obiettivo dell’autovalutazione (quante volte il voto è l’arma del potere, per il docente!)
- aprire il percorso di conoscenza a tutti i risvolti di metaconoscenza, perché l’alunno diventi il maestro di sé stesso: lo scopo di un insegnante, ripeto sovente, è quello di rendersi inutile
- inserire il processo di apprendimento nella sua reale dimensione umana, che è sociale, collaborativa, intrisa di emozioni – non astratta, mentale, asettica
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