Poeti nel limbo (6). Sfondamento dei confini
Sfondamento dei confini
Dunque, Milano e Roma sono termini di riferimento validi, ma non senza importanti precisazioni, come si dirà nei rispettivi capitoli. E le altre città? Al di là di questi nuclei, il criterio che ci ha comunque permesso, fin qui, qualche passo in avanti, perde subito efficacia. Malgrado Bologna sia stata probabilmente, in tempi recenti, il centro italiano culturalmente più attivo e innovativo, le individualità poetiche che vi gravitano attorno non stabiliscono solidarietà tali (dal punto di vista intrinsecamente letterario e non biografico, s’intende) da circoscrivere un’area di fermenti stilistici autonomi e capaci di imporsi. Sospesa tra Milano, Firenze e Roma (cui si rivolgono rispettivamente, in modo più o meno esplicito, poeti come Stefano Semeraro, Davide Rondoni o Andrea Gibellini, per rendere l’idea), Bologna non ha ancora assunto un’identità autosufficiente. Non che la situazione di Firenze sia migliore: com’è risaputo, essa vive cronicamente in una condizione museale, appagata del ricordo del proprio momento aureo primonovecentesco (ma nei più giovani, c’è da sospettare, la nostalgia non potrà che tramutarsi in un affrancamento, magari anche brusco, dagli auctores del periodo ermetico). Napoli invece appare, dai tempi delle sperimentazioni di Emilio Villa, come il terreno franco di un epigonismo avanguardistico che, al più, si volge a Roma. Di Torino sembra persino impossibile rintracciare qualche minimo segnale.
È il caso tuttavia di ribadire che se si fosse partiti con l’intenzione di reperire e dimostrare l’esistenza di tradizioni legate a determinati centri, non si sarebbe faticato troppo a scegliere, nella folla di poeti operanti a discreto livello, nomi e corrispondenze tali da tracciare un disegno vasto e suggestivo. E in parte l’operazione è stata compiuta: si pensi alla rubrica Le città dei poeti ospitata in una serie della rivista «Poesia».
Rappresenta perciò un evidente compromesso ricondurre entro un’immaginaria terra di mezzo (geograficamente vaga, ma effettivamente prossima a una linea che comprende gli estremi della Liguria e della riviera romagnola, con innesti dalla “linea marchigiana” e da quella toscana) gli autori che gravitano attorno a Milano e a Roma, ma a chi scrive è parsa la scelta meno mistificatoria: giudicherà chi di dovere.
Solide piattaforme
Abbandonato progressivamente il criterio geografico non è restato, per proseguire, che individuarne altri.
Tre piattaforme stilistiche sono parse, a questo punto, abbastanza solide, anche perché riprendevano tendenze da tempo storicizzate: si allude all’area cosiddetta orfica, a quella avanguardista di terza generazione e a quella neometrica. Va subito precisato che, se nel caso delle ultime due l’opzione ideologica di base e il criterio formale risultano abbastanza forti ed espliciti da reggere a più punti di osservazione, l’area subito etichettata come orfica assume, a seconda delle inclinazioni d’inchiesta, sfumature assai differenti. Non per nulla sono molteplici i termini cui ci si appoggia abitualmente per circoscrivere tale ambito: Orfismo, Neoermetismo, Neoromanticismo, Neoestetismo e così via. Del resto, la celeberrima antologia La parola innamorata [1], sigla che sanciva sul nascere quella poesia che, in contrapposizione alle varie forme di sperimentalismo, puntava a una scrittura ispirata e rapinosa, si era ben presto rivelata un coacervo di esperienze eterogenee (che vanno, per esempio, dalla ricerca davvero estetizzante di un Giuseppe Conte, culminata nei proclami del movimento mitomodernista, alla ben più radicale e razionalmente tesa ricerca di un poeta che ha davvero saputo far scuola come pochi: Milo De Angelis [2]). Inevitabilmente, queste attitudini non del tutto apparentabili sono state ereditate dagli autori che qui, comunque, si è scelto di accostare sulla base di una simile pronuncia alta, a tratti vaticinante; poeti insomma propensi a una scrittura intesa come esperienza assoluta e tragica e costantemente sedotta da pulsioni irrazionali o iperrazionali.
Non resta, a questo punto, che sollecitare l’attenzione alle scelte dettate dalla linearità della lettura del saggio: si è cercato, per quanto possibile, di manifestare nel passaggio da un autore a un altro la gradazione interna alla stessa categoria di appartenenza, in taluni casi fissando una biforcazione (certi capitoli si partiscono in sezioni numerate I e II): è sembrato un criterio, per quanto labile, più utile di quello alfabetico. La regola vale anche nel passaggio fra capitoli: alcuni poeti potrebbero idealmente slittare sotto un’altra categoria (così Frasca è attratto dal Neometricismo e dal Postmoderno), altri, contigui, potrebbero quantomeno suggerire una parentela, benché indicizzati sotto sigle diverse (è il caso di Iacuzzi e di Ceni, ad esempio). Nella giustapposizione di talune sezioni, invece, si potranno rinvenire attrazioni, omologie o attriti comunque significativi: se del confronto fra Roma e Milano si è già accennato, si veda il reciproco polemizzare fra due visioni spesso apertamente conflittuali (ma entrambe postmoderne?) come quella neoorfica e quella neometrica, oppure il trascolorare dell’etichetta di Postmoderno nella Felice influenza, quasi a indicare il salto fra la mescolanza dei modelli e dei generi e l’elezione di una maniera più totalizzante.
Ma con ciò non si pretende certo di eludere l’approssimazione e persino l’azzardo impliciti nell’assemblaggio attuale del lavoro, approssimazione e azzardo appena attenuati ricorrendo a titoli non privi di qualche suggestione più vaga, quindi non troppo pressanti, supportati da citazioni che funzionano come ulteriori indizi o depistaggi.
Culto dei padri
Un altro aspetto che ha preso sempre più consistenza, attraversando la selva oscura della poesia contemporanea, era il rischio della maniera o dell’epigonismo che molti poeti si assumevano consapevolmente. Si è pensato, quindi, come ulteriore appiglio, a qualcosa di simile a un effetto accostabile alla bloomiana angoscia dell’influenza, anche se qui privo di accenti particolarmente sofferti e, anzi, piuttosto propenso al sereno tributo a un modo di concepire la poesia in cui riconoscersi.
Le matrici rinvenute potranno sorprendere i più: né Montale né Luzi né Sereni, per chiamare in causa i nomi più celebrati, emergono quali maestri di una scia di autori che si qualificano stilisticamente per la consonanza con il modello, fermo restando che tracce del loro magistero, magari cospicue, sono disseminate un po’ ovunque. Sono, invece, Caproni e Zanzotto le voci che plasmano con più vigore la fisionomia dei più giovani.
Quale ragione si può addurre? Vale, in effetti, la stessa spiegazione avanzata sopra per casi analoghi: tutto si spiega se si tiene presente l’assunto di partenza di queste pagine, che non era quello di rintracciare linee poetiche premeditate e quindi neppure tutte le genealogie rinvenibili. Qui il criterio scatta solo nel momento in cui esso pare fornire tratti stilistici meno labili di altri per giustapporre poeti che restano, come più volte ribadito, entità autonome.
Nel suo saggio su Gli esordienti degli anni Novanta [3], adottando il medesimo criterio, Matteo Marchesini pone la poesia di Paolo Febbraro sotto l’egida di Giorgio Caproni, come avviene in questa indagine, ma evidenzia pure il poderoso debito di Giancarlo Sissa nei confronti di Giovanni Giudici, affiancandogli, sulla stessa scia, altri poeti (Alberto Bertoni anzitutto, insieme ad altri che non potevano rientrare nella nostra ricognizione per motivi anagrafici: Riccardo Ielmini, Andrea Cotti e Alessandro Di Prima). Valga questo solo esempio a riprova di quanto si voleva sostenere.
Preme semmai, come conclusione a queste note introduttive, legittimare la tendenza a segnalare per ogni autore i debiti percepiti: questo mi pare un tratto operativo effettivamente costante nelle pagine che seguiranno. Ora, nessuno pensa di ridurre la critica a uno studio crenologico, pratica avvilente, al di fuori di casi sospetti di patologia, non solo per il poeta ma per lo studioso stesso. Rintracciare le fonti è prassi utile nella misura in cui riesce a conferire prospettiva al testo, sia per innestarlo entro la tradizione ideale che esso implica (così ovviamente per come appare agli occhi del lettore) sia, soprattutto, per evidenziarne il processo formativo, in modo da indovinarne la tensione o, in termini più altisonanti, l’entelechia soggiacente. Siamo fedeli, in questa ricerca, all’idea che uno stile resti un’apertura desiderante sul mondo degli effetti, quasi una parabola che reca in sé il calcolo della propria ricaduta nel reale: si cerca l’origine di una voce per intuirne, fin dove possibile, il destino, nella consapevolezza che tale intenzione è altamente rischiosa, non tanto per gli abbagli che possono stornare il rigore filologico dello studioso, quanto per gli equivoci che la sua pratica può ingenerare nell’atto di offrirsi come mediazione, sia nei confronti dell’autore sia di quella comunità che entrambi si prefigurano quale destinataria del loro lavoro.
L’auspicio, pertanto, è che il presente saggio risulti sufficientemente fedele alle proprie ragioni per riuscire a riscattarsi dall’indifferenza almeno per un poco e sostenere, così, la ricerca poetica dei nostri anni.
NOTE
[1] La parola innamorata, op. cit.
[2] Stefano Verdino, in un discorso sull’antologia curata da Cucchi e da Giovanardi, parlava di «una tendenza neo-orfica, scandita nei due diversi corni, della solarità di Conte e del notturno di De Angelis» (Stefano Verdino, Annali di poesia italiana 1994-98, «Nuova corrente», n. 123, 1999, p. 164).
[3] Matteo Marchesini, Gli esordienti, in Poesia 2002-2003. Annuario, op. cit.
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