Poeti nel limbo (5). Costellazioni di poeti

Costellazioni di poeti

Al di là del problema generazionale, comunque, qualcosa si può aggiungere intorno al metodo con cui ci si è avventurati nella nostra analisi. Semplificando al massimo, annoteremo questi principi: a) rifiuto di mappe preconfezionate per orientarsi nella molteplicità delle esperienze poetiche e rifiuto dei metodi di lettura che non nascessero dal confronto diretto con il testo; b) primato del testo rispetto alla poetica da cui muove; c) irriducibilità di un’opera non soltanto a una linea poetica, ma allo stesso profilo critico del suo autore. L’idea fondamentale implicita in questi tre punti è la fiducia nella capacità della poesia di imporsi per forza intrinseca e di suggerire i procedimenti più idonei per la sua stessa decodifica.

L’approccio fenomenologico alle opere, più che agli autori, così delineato ha altresì sollevato il problema delle linee o delle tendenze, come si suol dire, entro cui riordinare una materia tanto vasta. Anche qui, senza entrare nel merito di questioni delicate, si è avvertita la necessità di superare il criterio organizzativo della mera giustapposizione (alla Mengaldo, per intenderci, erede in questo, su altro versante metodologico, di note posizioni crociane [1]), senza naturalmente ricadere negli eccessi dello storicismo.

Ma come accordare uno sguardo panoramico senza contravvenire ai criteri appena esposti, in particolare i punti “a” e “c”? Come tracciare qualche paradigma critico generale, ben consapevoli che ogni formula adottata per più testi risulta addirittura falsificante? Per avviare il processo di mediazione critica tra l’opera e la comunità che la riceve è pur necessario il riconoscimento di una piattaforma, per quanto instabile, che permetta il confronto fra le singole fisionomie poetiche, senza ovviamente pretendere di esaurirle a tale stadio interpretativo.

L’aporia si risolve semplicemente rispettando il procedimento induttivo, per evincere dalla struttura e dal processo formativo delle opere le ragioni di un loro possibile accostamento e delineare, così, varie costellazioni di riferimento [2]. Trovare e sottolineare soprattutto gli elementi permeabili fra diversi scrittori, dopo averli letti individualmente, non vuol dire risolvere la loro esperienza all’interno di quel limite d’interpretazione: ognuno, installandosi su quel terreno incerto e mobile, andrà riconosciuto da subito come entità che si differenzia almeno nello stesso grado in cui partecipa alla tensione comune.

Non si sono, pertanto, mai inseriti autori con lo scopo di legittimare linee poetiche o di rafforzare tendenze rinvenute o di completare il panorama. Altrimenti, per fornire uno degli eventuali esempi, si sarebbero accorpati in una non peregrina idea di “linea meridionale”, legata a certo surrealismo radicato nel paesaggio, autori come Michelangelo Zizzi o Giuseppe Goffredo: forzatura accettabile, entro una prospettiva preoccupata più di catalogare tutto l’esistente (ipotesi comunque utopica) che di reagire con coscienza alle opere [3].

Non si creda un paradosso affermare la centralità del testo in sede critica e rinunciare, in sede pratica, a un’antologia, strumento che è parso recentemente l’unico in grado di sondare la produzione contemporanea. Ne abbiamo viste tante, negli ultimi anni, impostate con criteri talmente differenti da mettere in dubbio il loro statuto [4]. Si è così assistito a un susseguirsi di gesti critici disparati e spesso francamente indiscutibili, perché completamente risolti nell’espressione di un gusto personale arbitrario. La conseguenza è stata la paralisi del dibattito e il definitivo sabotaggio dell’attività critica, già da tempo languente per malesseri propri.

L’assenza di un repertorio antologico è compensata, tuttavia, dal costante ricorso alla citazione.

Diversi parametri organizzativi

Esattamente perché non si era preventivamente partiti con l’intento di difendere o privilegiare in assoluto il valore euristico di un paradigma di studio degli autori, si è alla fine ritenuto utile registrare tre diversi criteri compositivi, che definiamo geografico, storico-ideologico (vale a dire che si esplicita in una poetica forte) e genealogico (ovvero che evidenzia un determinante nesso stilistico con un poeta del canone novecentesco).

Cominciando a tessere alcune corrispondenze stilistiche e poetiche, infatti, ci si era ben presto accorti di come il criterio geografico in taluni casi mostrasse una discreta sensatezza. L’idea di riproporre, in tempi di comunicazione globale, l’ipotesi di linee regionali o locali per avvicinarsi alla poesia irriterà forse qualcuno. Ma, riflettendo, si concorderà sul fatto che la poesia si radica su un terreno che può certo aprirsi a uno sguardo complessivo, ma senza perdere il contatto con gli umori, le zolle, i frammenti di un’esperienza personale anche geograficamente determinata. Come non ricordare, a tal proposito, la lezione magistrale di Dionisotti? Inoltre, la poesia negli ultimi anni ha probabilmente ingaggiato, spontaneamente, senza una premeditata spinta ideologica, una battaglia di resistenza contro l’omologazione, l’imposizione di paradigmi universali. Il soggettivismo e la chiusura nel privato (e magari anche nel dialetto) sono gli aspetti talora degenerati di un movimento istintivo di sopravvivenza della poesia e della porzione della psiche che ciascuno riserva alla creatività e al senso critico. Tralasciando comunque tale aspetto, è sufficiente una disamina pratica dei percorsi di formazione di un autore per comprendere l’importanza dei primi sodalizi, delle esperienze in rivista, insomma di quella “rete” di incontri, di informazioni captate su frequenze poco determinabili, di contatti con istituzioni locali, entro la quale si compie la maturazione di un carattere poetico. C’è, insomma, una tradizione che implicitamente raggiunge lo scrittore non soltanto attraverso le sue letture private, ma per mezzo delle suggestioni dei coetanei, del desiderio comune di partecipare al farsi della letteratura a partire dai suoi aspetti umani e sociali, della ricerca di referenti: tutte esperienze che definiscono un clima condiviso, una traccia fosforica che s’indovina sulla superficie della storia letteraria: il fantasma di una tradizione, appunto, reale almeno nei suoi effetti.

In questa prospettiva geografica, Milano e Roma funzionano ancora come centri di formazione e di affermazione e non stupisce che sia così, per la riconosciuta egemonia di queste città, in cui lo sviluppo economico da una parte e l’esercizio di una preminenza culturale dall’altra ha promosso la concentrazione delle maggiori attività editoriali.

Sarebbe forse interessante rileggere interi capitoli della nostra letteratura da quella sorta di ponte ideale che collega due poli tanto diversi (l’austera capitale del nord e la cinematografica, barocca sede del potere politico) e, allo stesso tempo, così segretamente attratti: su un estremo abbiamo, tanto per esemplificare, l’understatement di un Sereni o di un Raboni, sull’altro il vitalismo disperato (l’“io che brucia”) di un Pasolini o di un Bellezza. Spostandoci sul nostro terreno di competenza, nella cerchia di autori selezionati, si individuerebbe il file rouge di un classicismo per lungo tempo accreditato da molti per congiungere le due città, pronte a spartirsi, seguendo le indicazioni di Dal Bianco, il versante soft (di modello petrarchesco) e il versante hard (che privilegia Orazio) entro tale ricerca espressiva [5].

Per questo la nostra rassegna si apre accostando questi poli.

NOTE

[1] Cfr. Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori 1978.

[2] Si veda, per quanto concerne l’idea di «costellazione» alternativa a quella di «canone», l’agile volumetto di Massimo Onofri, Il canone letterario, Bari, Laterza 2001.

[3] Sottolineiamo inoltre come non siano stati volutamente presi in esame due libri accolti nelle edizioni della rivista «Atelier», di cui chi scrive è responsabile: alludo a Nel raggio della catena di Gianni Priano e Nind di Nicola Gardini editi rispettivamente nel 2001 e nel 2002. Se per il secondo l’omissione sarà meno grave, dal momento che ci si è soffermati sul libro d’esordio del poeta (e lo stesso Nind va considerato sotto molti aspetti un capitolo speculare di Atlas), per il primo la decisione si è rivelata più dura, perché ha implicato l’esclusione da queste pagine dell’autore (giunto alla maturità proprio con Nel raggio della catena). Va da sé che la pubblicazione rappresenta in quanto tale l’espressione di un giudizio di valore netto.

[4] Rimandiamo in merito alla dettagliata analisi di Valentino Fossati, Su alcune antologie dell’ultimo Novecento, «Atelier», VII, 25, marzo 2002, pp. 46-63.

[5] Stefano Dal Bianco, Lo stile classico, in La parola innamorata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pp. 145-147.

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