Commento all’infinito (quello di Leopardi, ovviamente)
L’infinito di Giacomo Leopardi è forse la poesia più famosa di tutta la letteratura italiana. Cimentarsi nel commento di un testo tanto celebre è un atto rischioso, ancor più se si mira alla semplicità. Si può essere divulgativi senza ridurre un capolavoro alla sua banalizzazione scolastica? Ci vogliamo provare.
Molto si potrebbe aggiungere, ovviamente, rispetto a quanto è rimasto fissato in questa videolezione, che per me è utile in diverse circostanze durante il percorso della scuola media. Al primo anno, la leggiamo come la poesia manifesto dell’immaginazione (tema a cui dedico un modulo). E magari la manipoliamo con qualche semplice indagine grammaticale. Risulta utile, per esempio, per un buon ripasso sugli aggettivi, in particolare i determinativi, che nel testo si ripetono ossessivamente.
In terza media, invece, viene riletta in un percorso già più propriamente di letteratura, in cui si approfondisce l’autore e la sua visione della vita. Ci interroghiamo sulla felicità e cerchiamo l’errore logico di Leopardi, per non restare invischiati nel suo pessimismo. I miei studenti sanno bene che non possono additare le vicissitudini della sua biografia per giustificare, e quindi sminuire, la sua filosofia. Già i suoi contemporanei commisero questo errore. E sono i testi stessi di Leopardi a ribadire che no, non è la diretta esperienza di vita dell’autore a determinare un pessimismo tanto radicale, che impronta, del resto, tutta la letteratura e la cultura successiva, fino ai giorni nostri.
Ma qui, dicevamo, limitiamoci a dire qualcosa di semplice, ma si spera anche intelligente, intorno ai versi dell’Infinito. Sarebbe già molto.
Buffo, non sapremo mai quale fosse l’intenzione del poeta quando, nel presente, scrisse questo testo. Nessuno lo sa e non è possibile saperlo. Quel presente è andato e di quel presente abbiamo solo un testo, un resto. Ma pur ignorando, ne parliamo come se lo sapessimo, ognuno a modo suo; attraverso ciò definiamo degli stili, delle biografie, dei contesti, delle filosofie, delle politiche, esprimiamo gusti, attribuiamo delle intenzioni e così facendo, proprio di conseguenza a ciò, creiamo concretamente le premesse del cambiamento che avverrà: quel che si diceva di questa poesia venti anni dopo che fu scritta non è ciò che si dirà tra cento anni, né tanto meno duecento anni dopo, cioè oggi. Ma intanto accade qualcosa di formidabile: il testo viene letto, dunque vive. O così o l’oblio.
L’opera non parla una volta soltanto: continua a parlare. E noi continuiamo a interrogarla da punti di vista sempre diversi. Purché, come dici, la si intercetti, non sia persa nell’oblio.