Tag Archivio per: POETICA

L’arte della fuga

La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.
Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio.
Henri Laborit, Elogio della fuga.

Quando qualcosa di vero accade, ci emoziona. Non credo sia possibile scoprire una verità senza venirne almeno momentaneamente modificati. Una verità devitalizzata, già conforme alle attese, semplicemente non avviene. Continua a leggere

Per inoltrarci in un’epoca nuova

Dar fine all’epilogo

Di discorsi sulla crisi della poesia non se ne può più, viviamo in tempi saturati da iniziative culturali e il pubblico oltremodo annoiato tenta di rianimarsi con intrattenimenti ben più allettanti, comodamente seduto sulla propria poltrona. Ma rileggere il Novecento, per superarlo, è fondamentale. Continua a leggere

Angelus Novus, Paul Klee, 1920

Esodi ed esordi. Passi di poesia dentro il principio

Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Walter Benjamin

Abbiamo tutti la faccia dell’angelo di Klee, mentre ci allontaniamo non più, ormai, soltanto da un Novecento di orrori che ancora ci invadono gli occhi, ma anche da un ventennio esangue che ne ha occultato il cadavere, riciclandolo in veste di nuovo idolo fino alla mistificazione più scaltra, fino all’adulterazione delle parole. Entriamo perciò in un’epoca di cui non abbiamo ancora prefigurazione. Il futuro ci coglierà alle spalle, è inevitabile, quindi non è il caso di vestire i panni sempre scomodi, quando non ridicoli, di profeti, né sarebbe sensato agevolare l’oblio, assecondare la rimozione del male. Anzi, proprio il fatto di stare piantati nel dolore mette in moto risorse inaspettate. La tragedia costringe all’evoluzione – quando non spezza irrevocabilmente.

Abbiamo tutti, come poeti, un corpo perfettibile, la testa gigantesca di bambini e piedini come artigli: siamo goffi e mostruosi insieme. La mimesi della realtà ci è ormai negata e anche quando viene esibita è solo un riflesso, ma nella nostra astrattezza agisce il ricordo, forse la nostalgia di un mondo perduto. Le nostre radici sono dentro questa origine, questo inizio irraggiungibile. La nostra vita, in tutto e per tutto pari a quella di chiunque altro, è il tronco che permette la fioritura, ramo dopo ramo, della visione. Abbiamo una tradizione sconfinata che ci è esplosa davanti agli occhi insieme alla storia. Non crediamo nemmeno più nel progresso, che pure è la tempesta che ci travolge e ci impedisce ogni indugio, ogni compiacimento. Siamo sfiniti e sfigurati.

Questo è il principio. Qui, svuotati i polmoni, riprendiamo fiato. Nel momento stesso in cui cataloghiamo i reperti del passato, infatti, coltiviamo il nostro esordio. Non si tratta più, quindi, di puntellare le rovine, di accogliere i frantumi per alzare barricate e resistere, nei margini di insignificanza cui è costretto il poeta nell’oggidì. Si tratta di avventurarsi, di muovere i primi passi esplorativi nell’epoca informe che, inevitabilmente, ci darà un volto, per quanto con tratti scomposti, con dettagli sfuocati. E benedetto sia l’anonimato che ci permette la libertà degli infiltrati e l’allegria dei disperati. Attraversiamo regioni psichiche senza permesso, corriamo rischi colossali mentre gli altri nemmeno più vedono le nostre ali da gigante sempre spiegate, mentre camminiamo, lavoriamo, amiamo e ci indigniamo come tutti.

Diamo il sangue, in quanto poeti, per guadagnare un centimetro appena di senso dentro al vuoto, perché sappiamo che in quel centimetro ci sarà terra dove far riattecchire le parole, e lì avremo dimora. La nostra sfida, infatti, è proprio rivolta alla depressione postmoderna, alle sabbie mobili della non-storia, che sono la nostra misconosciuta tragedia. Il male di vivere non si risolve con un atto di finzione, ma cogliendo l’impulso evolutivo che porta nel suo stesso grembo. Per attraversare questo limbo molti hanno scelto l’immobilità come forma di resistenza, noi preferiamo la sperimentazione ponderata e sofferta, la varietà che si stringe in abbraccio evolutivo, il gesto magari nervoso e impreciso di chi ha paura, ma vuole nascere. Per questo cerchiamo esordi significativi non per la loro impossibile compiutezza formale, dal momento che non esiste poetica che ci garantisca a priori il senso. Il nostro stesso stile ci coglierà alle spalle, sarà il giusto contraccolpo alla risposta, anzitutto esistenziale, che daremo al Novecento e a questi anni doppio zero, che ne rappresentano un rigurgito terminale, la fastosa celebrazione di una fine spacciata per un inizio che non c’è stato. La vera novità germoglia nel tempo, infatti, al quale noi per primi ci consegniamo, con un inchino all’universo, nel rettangolo che ci è dato.

Per questo facciamo esercizio di pazienza, setacciamo voci con estrema discrezione, mettendo nel solco di ogni ascolto il seme di un incontro, che non è accondiscendenza gratuita ma, all’opposto, sfida a usarci reciprocamente per muovere un passo oltre noi stessi. Proviamo a radunare, qui, la carovana dei migranti che, magari, scopriranno il nuovo, perché non dimenticano l’antico; mettiamo insieme i fratelli maggiori, che l’amorevole lotta ha nel frattempo fortificato nel ruolo di sponde da sottoporre alla prova decisiva, e i più giovani, verso i quali abbiamo l’obbligo di offrirci, allo stesso modo, come esempi e bersagli.

Ogni parola che pretende di drizzarsi in un verso, ogni discorso che si mette in verticale contro il vento dell’epoca, ha l’umiltà di accettare questa sfida, con la gioia impertinente dei bambini che chiedono ragione di tutto.

 

Poesia e paternità

Un vecchio articolo, per me sempre attuale…

Circa un anno fa, se ricordo bene, un critico, mentre si chiacchierava al tavolino di un bar, mi disse: “Voi della vostra generazione siete più precoci anche in questo”. Alludeva al fatto di aver costituito una famiglia e di essere diventato padre. L’ho guardato come per dirgli di non prendermi in giro, con ‘sta storia della generazione. Piccole schermaglie da bar, ovviamente; però, quell’osservazione mi aveva colpito. Non certo perché ipotizzassi un fondo di verità nella battuta, ma semplicemente perché in me lavorava già il tarlo di una riflessione sul contatto tra poesia e paternità. Continua a leggere

Lo sguardo che salva la parola

Da troppo tempo, in ogni occasione pubblica di confronto sulla condizione della poesia nella società contemporanea, sembra emergere sempre la solita, annosa ed essenzialmente fuorviante intenzione: riuscire ad attivare il pubblico potenziale di poesia ovvero i milioni di «replicanti» – per usare il termine caro a Raboni –, quelli che in gergo altri chiamano pseudo-poeti, letterati della domenica, sottobosco letterario, cultura di serie B ecc. Con forme apparentemente meno sprezzanti (ma forse solo un po’ più sofisticate), l’obiettivo implicito in tutte queste manifestazioni si potrebbe riformulare così: riuscire a interpretare questa proteiforme diffusione di poeti, capire di quale disagio culturale o errore del Sistema sia sintomo, quindi proporre una nuova serie di opere che pongano rimedio a tale disguido. La domanda è fondamentalmente questa: come trovare l’Opera, l’Autore, la Lingua della Poesia del Terzo Millennio, il punto di contatto fra la Massa e la Qualità? Continua a leggere

Vendere racconti (o del qualunquismo)

Leggevo ieri un interessante articolo di Salvatore Anfuso, Vendere racconti a una rivista cartacea. Ci si chiede qui se esistano ancora riviste (cartacee) in grado di pagare la pubblicazione di racconti (sì, ne esistono) e se esistano riviste di un certo prestigio letterario, capaci di “lanciare” anche nuovi autori, che non siano eccessivamente partigiane, snob, letterariamente orientate, che siano insomma aperte a ogni forma di contributo, a prescindere dal genere, affinché un racconto “scritto bene” trovi accoglienza. Attraverso il tam-tam dei commenti, è emerso inoltre il sogno di fondare una nuova rivista, che rispondesse, se ho ben capito, a tutti i requisiti finora indicati, ovvero: Continua a leggere

L’inutilità della poesia

La poesia è inutile, come Dio [1].

Ed è gratuita, perciò essenziale, come la vita. Continua a leggere

Potrei non pubblicare più

Ogni volta che la poesia viene a farmi visita mi stupisco, ogni volta sono sopraffatto. Continua a leggere

La rivista Atelier

Paradigma Atelier

Questo testo era stato preparato per il convegno organizzato a Firenze da Atelier, per celebrare il ventennale della rivista (La critica letteraria oggi: la fucina ventennale di Atelier). È ora accolto nel fascicolo n. 85 della rivista (marzo 2017).

Mi viene chiesto, per l’occasione celebrativa del ventennale di Atelier, di volgere lo sguardo indietro e di offrire un resoconto del lavoro critico svolto nell’ambito della gloriosa esperienza di questa rivista. Si potrebbero passare semplicemente in rassegna certi numeri speciali, i miei libri di critica che hanno poi raccolto il lavoro sparso su quelle pagine, ricordare le incursioni nel web e tutto il lavoro di scouting rivolto in particolare verso la generazione dei Settanta, ma senza disdegnare acquisizione di voci significative che hanno definito sconfinamenti su qualsiasi generazione. Continua a leggere

Non appartengo all’epoca

Sia ribadito ancora: non appartengo a questo mio tempo, o quantomeno al racconto che l’epoca sta elaborando di sé stessa. Ciò che la storiografia va registrando è un falso storico, a tutti livelli: sia in ambito politico, dove assistiamo allo show di mille replicanti del Novecento, vuoti fantocci anacronistici; sia in ambito letterario, dove ciò che il mercato veicola non ha più nulla a che fare con la tradizione, dispersa e sotterranea, che alimenta ciò che resta della letteratura. Continua a leggere