Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

La futura radura di sempre (di Roberto Caracci)

la lirica di Andrea Temporelli si presenta non solo come voce che si rivolge ad un tu, ma anche come voce che ascolta se stessa, scorre dentro se stessa sotto forma di affluenze, incisi, sovrapposizioni, raddoppiamenti

Fin dalla poesia di apertura, Diceria del poeta, la lirica di Andrea Temporelli si presenta non solo come voce che si rivolge ad un tu, ma anche come voce che ascolta se stessa, scorre dentro se stessa sotto forma di affluenze, incisi, sovrapposizioni, raddoppiamenti. Una meta-voce che non si accontenta di ‘dire’, ma ‘dice’ il proprio dire, lo commenta e lo postilla, lo asseconda e lo contraddice, in un accordo che è discorso parallelo e contrappunto, venato d’altra parte dalla consapevolezza che la retorica non trova spesso il suo riscatto, rimane lì sulla pagina, e la poesia stessa può mentire («ecco ci siamo, mente / la lirica anzitutto»). Il racconto lirico — perché poi di racconto e di album lirico si tratta — si snoda come una sonda che guarda e scava nelle stesse proprie modalità di raccontare. Al punto che il referente, ciò di cui si tratta, appare molto spesso non l’oggetto tematico ma la stessa prospettiva o lo stesso ritmo con cui quell’oggetto viene inquadrato e cantato. Insomma, qui la finestra sulle cose e lo spartito ritmico scelto per cantarle contano quanto, se non più, delle cose stesse. La soggettività lirica si apre, si spalanca, crea teatro di voce e scenografia. Si tratta dunque di una poesia offerta in scena, una voce capace di ritagliarsi essa stessa il proprio percorso visibile, udibile, tangibile, secondo una direzione non preannunciata: rivoli di un fiume carsico senza promessa di foce. Malgrado il lessico piano, quotidiano, colloquiale, il ritmo e la tonalità rimangono elevati, plastici e cadenzati. Si potrebbero persino rinvenire in questa lirica una sommessa solennità, un’epica minimale, come nelle Visioni della battaglia gloriosa, con i suoi endecasillabi finali che cantano (ed è un padre che si rivolge a un figlio in procinto di nascere): «diventerò la tua patria redenta. / Già mi preparo alla grande sconfitta». E nemmeno le fratture, le parentesi, le cesure arrestano i rivoli, le circonvoluzioni, gli enjambement, il precipitare ellittico di queste lente cateratte che sono le poesie di Temporelli. La lingua qui gioca con lo scalpello che scava ma insieme col bulino che incide, con la vanga che dissoda e con la lima che smussa, leviga, lucida fino all’osso la parola. Il poeta va qui in profondità col lavoro del linguaggio e ci offre il flusso di un discorso apparentemente deambulante e da understatement prosastico-lombardo, in realtà cucito con una fitta necessità di parola, di frase e ritmo, che ad una lente di ingrandimento non distratta esibisce una trama solida, una fibra resistente ed essenziale, quella di una ‘maglia’ poetica curata con la pazienza di un artigiano, di un tessitore coraggioso ma determinato.

Ne Il cielo di Marte lo scavo nelle cose, attraverso il linguaggio, favorisce talvolta la scoperta, o la riscoperta, del mondo. Un mondo che è tuo e non tuo, che ti appartiene e a cui tu in fondo appartieni. Proprio come una casa, una casa ad esempio dove tu ritorni, e che scopri e riscopri, prossima e lontana, familiare ed estranea: passata attraverso il setaccio del tempo (Novecento). Perché la distanza, dice il poeta, che «insegna a carpire la luce delle cose», anche quelle più tue, ed anche «a occhi chiusi». Qui il tu del poeta è il mondo, il proprio mondo ritrovato; o meglio, forse, il tu è quell’altro te stesso che il tempo ha separato: il tu che non eri partorito da un mondo, da una casa, simile a quelli da cui proveniva il tuo vecchio io, e ora differente. La differenza del mondo trascina quella dell’io, e viceversa. E quando l’io del poeta parla a un io-tu setacciato da tempo e dal mondo in evoluzione, non è più l’io di una volta: è il tu del mondo-nel-tempo che ha rinnovato l’io.

Ciò che è più vicino a noi, più familiare, come le mura domestiche, presenta una soglia «che non offre riparo» (Indagine domestica). La membrana fra noi e il fuori del mondo è debole e ci espone alla gioia e al rischio dell’ospite (atteso/temuto) tra ‘spifferi di vento’ e ‘finestre che sbattono’. Del resto quell’ospite (inquietante) potremmo essere noi abitanti della casa. Potrebbe essere colui che ha ‘graffiato’ le porte, lasciato segni di esperienza e dolore, o foglietti sparsi di versi velleitari. Ogni casa è destinata a diventare un reliquiario di segni (oltre che di sogni), impronte di vita vissuta, mura bianche parlanti attraverso tracce come quelle delle prigioni o delle caverne. Temporelli rende bene questa ambiguità di prossimità e alienazione della vita vissuta, e insieme questa dolorosa necessità del decentramento, dello slittamento degli spazi e dei tempi di ciò che viviamo come familiare.

La poesia probabilmente a questo serve, ad estraniarci da ciò che ci appare familiare e a familiarizzarci con ciò che ci è estraneo. È il viaggio che ci collega con ciò che ci è lontano e ci allontana da ciò che ci è prossimo. Ed è anche il punto spazio-temporale di congiunzione fra il passato che ci cerca e il futuro da cui siamo cercati. Nella contingenza del nostro presente il passato può manifestarsi sotto forma di un amico dell’infanzia ritrovato per caso (Le lagune), in una donna che ritorna tra le pareti della tua casa anche come immagine, desiderio, sogno, o nelle tracce sulle pareti di una stanza. Il futuro, da parte sua, sembra inarcarsi e curvarsi anch’esso come un cielo sul nostro orizzonte, ma per il poeta non ha semplicemente i colori del totalmente nuovo, dell’inedito, dello straordinario, ma del rinnovamento, della riscoperta, del ritorno (ritorno dal futuro, appunto). C’è un futuro nelle cose, che sta nella loro capacità di farsi rivisitare da noi, del farsi riguardare, ri-percepire. Un amico che viene dal passato e pronuncia il nostro nome, in verità, ci fa rinascere anche lui in certo modo al mondo, ci ribattezza. Da quell’amico io mi sento ‘chiamato a stare al mondo’. Ma ogni giorno la riscoperta del mondo ci chiama a stare al mondo, quando il più anonimo fazzoletto di terra su cui ci troviamo si illumina di una particolare luce primaverile e di senso.

Ma quale senso? Quello che c’è sempre stato, che ci ha sempre preceduto ed era solo da «custodire». E allora il piede che noi posiamo su quella radura di terra diventa un po’ come il nome con cui battezziamo il mondo, il mondo che è nostro e insieme non nostro, e lo ricreiamo, o meglio lo ri-abitiamo con la gioia di un Adamo. Ed è allora che ciascun uomo può sentirsi, racconta Temporelli nell’ultima suggestiva lirica del libro, come il primo uomo su Marte, che lascia la sua primissima impronta — come nome, sigillo, battesimo — su una radura mai prima d’ora calpestata. «Accade questo ogni giorno». O almeno, ‘può’ accadere, se lo lasciamo accadere. Per poter essere gli alieni che sbarcano su un pianeta, rivelatosi poi non Marte, ma il nostro stesso splendido pianeta, da sempre dotato di un senso da cui siamo nolenti o volenti abbracciati, avvolti e coinvolti. Allora, ci dice il poeta, non c’è più nulla da dire e domandare, nulla da chiedere in quanto noi siamo già richiesti, già appellati: c’è forse solo da rispondere, o da corrispondere.

Quanto al tempo, c’è nel poeta la consapevolezza che fra un passato che è ha la virtualità di una realtà mai sbocciata o di «un mondo che poi non è mai nato», e il futuro che rimane nient’altro che “possibile”, vi è un presente che non riesce a rappresentarsi e che in sostanza non ‘rappresenta’ niente. Nello scorrere delle cose, non resta che farsi ‘sguardo’, anzi di rispecchiarsi e «stare eterni e mortali nello sguardo / del bambino che osserva». È questo ritorno ad una infanzia reincarnata davanti e te e proiettata negli occhi di un figlio, a regalare un momento di tregua, di instabile permanenza, di «infinito indugiare in un sentiero».

Potremmo definire quella del Temporelli una ‘passione della distanza’ — dando al termine passione l’ambigua connotazione del sentire e del patire —, che filtra ovviamente negli affetti. Quegli affetti che, nella distanza, appaiono più ‘dolorosamente’ giustificati, anche nella loro lacerazione. Nella intensa lirica Paternità dell’addio, la calda prossimità di una esperienza di padre a contatto con un figlioletto e i suoi giocattoli, si intreccia con la fredda lontananza dalla donna-madre, modulata sul mito di Orfeo ed Euridice, e venata di una amara speranza («Penso a un incontro impossibile, fuori tempo»). E accanto alla distanza, la tematica sorella dell’assenza. Come quella di un amico che non ci segue, che scompare, che non si fa vedere in un ritrovo di montagna. Ma l’ascesa deve continuare, come quella della vita costretta ad elaborare le assenze di chi ci amava, perché anche la solitudine è una conquista e «Niente più manca a chi / impara il giorno alla luce che sale». Malgrado la ‘smania’ di attendere chi ci aveva un giorno promesso di ‘vincere il tempo’. Anche qui il ritrovo, la radura, lo spazio della tappa e del riposo assumono i caratteri di una ‘casa dei doganieri’, dove siamo costretti a essere anche noi solo di passaggio e proseguire il viaggio senza fine, fra chi va e chi resta. «Il viaggio / senza fine delle cose già viste e nominate / appena». Viene in mente ciò che scriveva Nietzsche a proposito della lontananza di ciò che ci è più prossimo e familiare, soprattutto quando siamo viandanti e ogni dimora è per noi zattera, dove potremmo anche non riconoscere le così, sentirci come alienati: «certe stanze io non le riconosco» (Canzone dello sposo). E la donna che sta con te è anche colei che cancella segni, ne lascia altri, entra nei nostri ricordi, e nello sconvolgere ‘mette ordine’.

Per Andrea Temporelli il lavoro poetico appare a volte immersione mimetica in una emozione vissuta come ritmo e modulata come crogiolo di vettori centrifughi. Non vi è dunque solo scavo, ma anche abbandono ad un flusso di pensieri e immagini che attingono a una forza matrice. E se è vero che in ogni ritmo e bio-ritmo lirico vi è qualcosa delle sistoli e delle diastole, delle contrazioni e delle espansioni, esemplare appare la poesia Esercizio di respirazione, dove Temporelli letteralmente ‘ispira’ ed ‘espira’ in versi, come se la parola fosse proprio quel mana, quell’energia, quel soffio proiettato e introiettato che è il respiro.

Un respiro che del resto si ritrova nell’intera lirica di questo giovane poeta, nel suo ritmo e nella sua cadenza, nel suo solfeggio insieme fluido e marcato, nello slittamento caleidoscopio e metonimico delle atmosfere, dei paesaggi interiori, delle immagini. In Temporelli tutto fugge, ma lungo il crinale di una linea curva ed ellittica, come quel cielo di Marte che giace in ciascuno di noi con i suoi orizzonti insieme lontani e vicini, tanto simili a quelli di una Terra più bella e più spoglia. Una Terra, come voleva Rilke, destinata a rinascere più fresca e luminosa in noi.

(Roberto Caracci, La futura radura di sempre, video-scheda sul web, 12 ottobre 2011: http://www.youtube.com/watch?v=yVIk2_f49Dk)

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