Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Un senso di ineluttabilità (di Alex Caselli)

Anche nel ritmo queste poesie procedono con un senso d’inevitabilità: un’amara litania che non diventa macabra o grottesca, ma rimane fissata in versi quasi sempre sobri, a volte misteriosi.

 

Una raccolta di Temporelli — all’anagrafe Marco Merlin — è stata edita nel 1999 con questo stesso titolo dalle edizioni della rivista «Atelier», di cui il poeta è fondatore e condirettore. Viene ripresentata ora da una grande casa editrice come Einaudi, il che è veramente un successo per un poeta nato nel 1973 e quindi ancora giovanissimo. Certo, nel corso degli anni Andrea Temporelli si è saputo conquistare con pazienza un pubblico di lettori e critici, dimostrando una costanza e un impegno decisamente apprezzabili. Sullo pseudonimo tutt’altro che sereno — Andrea per un fratello morto prima della sua nascita, Temporelli come il cognome della madre anch’essa deceduta — ha detto bene Umberto Fiori parlando di “doppia lapide” e di una consequenziale poesia che si costruisce su questa doppia perdita.

La lingua di questo poeta non arriva però dalla lirica personale, intimista, ma attinge alla poesia di dolore civile, di introspezione narrante di un poeta come Vittorio Sereni, diventato maestro di una precisa generazione. Dal minaccioso esergo sereniano («potrei / con questa uccidere, con la sola gioia…») riportato all’inizio, si può trovare un punto di partenza ideale, per una poesia che si costruisce sulla continua lotta per la sopravvivenza. Da una parte il poeta nel suo quotidiano, in un’esistenza inquadrata pubblicamente e privatamente, dall’altra parte una serie di figure a volte sfumate come la bambina di Favola, altre volte più nitide e delineate come il dottore protagonista in La canzone di Sergio. In queste trenta poesie dal respiro di un poemetto si alternano squarci di narrazione, l’«understatement prosastico della linea lombarda» — come da quarta di copertina — a momenti di vere e proprie planate filosofiche che trasfigurano il racconto in ragionamento astratto. A volte succede anche il contrario, come nella poesia che chiude la raccolta, dove si parte da un’immagine improbabile: «Talvolta accade (pensa al primo uomo / su Marte) di trovarsi dentro a un angolo / dell’universo vergine e inondato / di luce…», per arrivare a un qualcosa di più “terrestre”, come un “prato”, un “posteggio”, un “cortile”. Restando su questa poesia, potrei aggiungere come caratteristica intrinseca, fra significati e significante, un senso di ineluttabilità. La scoperta che non esiste «nessun luogo in cui andare o far ritorno», non cambia nulla se non si ha «né colpa né merito», se non si può influire in nessun modo sul corso delle cose. Ciò che deve avvenire avviene comunque: questa mi sembra in sintesi la visione del poeta.

Anche nel ritmo queste poesie procedono con un senso d’inevitabilità: un’amara litania che non diventa macabra o grottesca, ma rimane fissata in versi quasi sempre sobri, a volte misteriosi. In essi le rime — quando ci sono — come in una cantilena diventano ipnotiche. In una poesia come La cospirazione, mentre tre amici stanno seduti al bar discutendo sulla fine del Novecento, il poeta declina il pensiero altrove: «Magari proprio adesso, in qualche angolo / dell’universo, muore / un pianeta o si forma un’incredibile / catena di molecole». Nella seconda parte della poesia la foga di uno dei tre uomini nel lanciare il suo proclama «“Si deve / dire ciò che si sa, ciò che sappiamo”», appare in contrasto con una dimensione divenuta ormai irreale, dove tutto appare già segnato, nella vita come nella morte.

Parlando del lavoro di Temporelli, Matteo Marchesini annotava su queste pagine che «la morte è davvero dappertutto: come possibilità, e quindi come incombenza, nel senso di spada sospesa, di pervasivo sogno a occhi aperti e al contempo di responsabilità di cui occorre farsi heideggeiramente carico». Questo continuo fare i conti con “i margini della vita” camminando «presi nel ritmo binario di dono / e perdita», non è mai sentito come minaccia, ma come conseguenza inevitabile, se vita e morte per il poeta sono legate fin dall’origine. La “gioia” sereniana che può uccidere, non è un paradosso, ma la stretta linea di confine su cui si muove la poesia di Temporelli. Devo confessare che prima di leggere queste trenta poesie, questi versi di Sereni mi sembravano la premessa a qualcosa di fastidioso. La gioia, diventata punto di partenza — e non una conquista — poteva costituire l’altare mellifluo da cui pontificare sulla vita, come sulla morte, senza farci troppo i conti, e il poeta, sentendosi forte di questa armatura, avrebbe potuto dire qualunque cosa. Questa impressione si è smentita alla lettura.

Temporelli scrive di «dono» e «perdita» davvero con un senso di responsabilità, facendo veramente i conti con la morte. Semplicemente, per lui è tutto deciso, tutto è scritto e non si può fare nulla, neanche con i buoni propositi. La morte entra perfino nell’eros: «mi seduci, ma da tempo hai deciso / la mia sorte». Temporelli compone le sue poesie come un fotografo che conosce ogni dettaglio della fotografia che ha appena scattato, ma aspetta la verifica della stampa. Le sbavature — poche per il libro di un esordiente — sono a volte la cattiva messa a fuoco dei dettagli, e le impennate retoriche che sorprendono il lettore in qualche passaggio, il vezzo che viene, diciamo, dal sentirsi troppo al sicuro sul terreno della tradizione. Quando Temporelli riesce a lasciare da parte questo progetto più “alto”, e la responsabilità rimane legata alle ossessioni vitali della sua poesia, il risultato è sicuramente degno di nota, e come nella bella poesia La voce e il tempo, l’energia dei versi si ricollega direttamente alla forza del pensiero.

(Alex Caselli, recensione a Il cielo di Marte, Poesia 2006. Annuario a cura di Paolo Febbraro e Giorgio Manacorda, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 252-253)

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