Metamorfosi, fotografia digitale di Wanda D'Onofrio, 30x40 cm

La lucida geometria del dramma

(L’opera scelta come copertina è di Wanda D’Onofrio.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)

Mutazioni

Non ho sangue di serpente,
becco di falco, i suoi artigli,
un programma definito
per i prossimi cinque anni,
vivo ancora i miei giorni
come fossero un accidente.
Somiglio a una zebra che si abbevera
con scritte sul corpo
che mio padre ha visto
e non vuole ripetere.

Fabrizio Bajec

La poesia è molte cose, ma a qualsiasi livello di consapevolezza e di qualità letteraria mantiene sempre un valore terapeutico originario. I versi di un poeta, infatti, sono le tracce di un percorso evolutivo; un testo è il vestito abbandonato o predisposto per una trasformazione.

Questo risvolto di senso della scrittura è rafforzato, ovviamente, quando chi scrive si muove ancora nell’orizzonte della propria giovinezza, come nel caso di Fabrizio Bajec, ventinovenne italo-francese che vive a Viterbo, le cui poesie sono ospitate in Poesia contemporanea. Ottavo quaderno italiano, Milano, Marcos y Marcos 2004. Chi non ha ancora assunto un ruolo definito nella società («Non ho […] / un programma definito / per i prossimi cinque anni») e una identità precisa, che abbia fatto definitivamente i conti il retaggio famigliare e, su tutti, con la figura paterna (si veda qui l’immagine della zebra, ma nell’intera silloge i molti riferimenti al nucleo familiare e ai movimenti di abbandono del «nido»), non può che acuire il senso della propria “mutazione”. Non a caso centrale è per questo poeta il tema del corpo (la raccolta stessa si intitola Corpo nemico e nella prefazione Antonella Anedda registra accuratamente tale simbologia). Ciò che però qualifica i versi di Bajec come un’esperienza letterariamente già matura è il tono quasi distaccato, straniante e sereno, con cui si registra il dramma: «Ci sono larve che lottano per dirsi farfalle; / io approdo al silenzio / o me l’invento, / qualcuno ha avuto fretta / d’essere altro. / Poi approdo alla stasi / e la terra mi punge: / angoscia è quando mi scordo / che tutto si trasforma». C’è forse qualcosa di magrelliano nella lucida geometria con cui la tragedia si compie, ma la capacità di concedersi al tempo, di aderire anche alla stasi e quindi di non forzare le spinte irrazionali è il punto in cui si gioca, tanto a livello etico quanto a livello letterario, la partita di questo autore con sé stesso e con il Novecento.

Montale si lamentava che l’aquila non poteva nascere dal topo: ora questa ragionevolezza, fatta propria da Bajec («Non ho sangue di serpente») diventa il suo muro, entro il quale scovare il varco e tentare di oltrepassarlo: perché la metamorfosi si compia e i Padri letterari siano riscattati nell’atto stesso con cui vengono smentiti.

 

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