Poeti contemporanei: Roberto Carifi
Il pathos del sublime. La poesia di Roberto Carifi
Nessun poeta più di Roberto Carifi può oggi vantare un universo simbolico e stilistico così identificato e coerente da trasformarsi in vera e propria koiné, con tanto di manifesti ideologici (il Mitomodernismo) e relativa kermesse, dotti trattati iniziatici [1], un lessico pronto all’uso [2], il pieno appoggio di serissime iniziative editoriali («I Quaderni del Battello Ebbro»), nonché un’appetibile rubrichetta, ben visibile a un invisibile ma folto pubblico della poesia [3].
Per tutto ciò lo si può considerare davvero la più degna spalla di Conte, il quale, nonostante i propri breviari poetici [4], finisce sicuramente per promuovere fra i giovani adepti un’impronta vitalistica ed eroica, con annessa mitologia, ma senza dettare una forma, senza definire uno stile facilmente imitabile, come invece avviene per il più terso e languido poetare di Carifi. Basti pensare alla diffusa, lacrimevole tiritera intorno all’angelo, alla fine dell’occidente, all’abisso, alle rovine, alla ferita, all’ombra, all’abbandono, all’assenza, all’Altro, all’esilio, al nulla, al sacro…, insomma a ogni figura che si presti a essere illuminata da un senso tragico del destino, che riscuote ampio consenso presso i seguaci di qualsiasi misticismo spicciolo, sia pure meramente letterario. Ma Carifi, di cui conosciamo la serietà professionale e il rigore filosofico (includerei in esso anche l’impegno critico, per l’altrettanto ben individuabile modalità di approccio ai testi [5]), non può certamente venir liquidato per i suoi epigoni, né del resto crediamo di avere pre-giudizi intorno ai “movimenti letterari” – di cui infastidiscono eventualmente le forme assunte – e nemmeno intorno alle pretese metafisiche, si dica pure orfiche, della parola poetica: vigiliamo, per quanto nelle nostre forze, perché il giudizio si formi per via di lettura, la più profonda ed empatica possibile. Empatia che peraltro è suscitata dall’opera stessa di Carifi, dalla sua innegabile carica di suggestione per la vibratile emotività di cui si impregna. Non va poi trascurata la rapinosa semplicità del suo dettato, che paradossalmente veicola un sostrato occulto di riferimenti biografici e soprattutto filosofici spesso oscuri, non di rado astrusi e fascinosi. Non credo ci sia altro poeta dal linguaggio altrettanto scorporato, così raffinatamente astratto dalla propria matericità e attratto dallo spettro semantico che s’indovina muoversi nei fondali trasognati della sua poesia. (E non è poco per chi ha da sempre denunciato e combattuto il tecnicismo avanguardistico, sulla scorta peraltro di una più vasta denuncia filosofica intorno alla civiltà occidentale e al suo non-pensiero oggettivizzante, che ha fra i propri massimi esponenti Heidegger, il più arduo fra i pensatori contemporanei, per questo motivo letto inevitabilmente con sospetto [6]). Si tratta dunque di una scrittura dalla notevole maturazione stilistica ma che non lascia appigli formali “forti”, rinviando anzi all’adiacente investigazione filosofica fino a determinare un circuito ermeneutico tautologico, per cui si finisce per interpretarla ricorrendo a quell’armamentario di figure simboliche di cui si diceva, contribuendo alla loro stessa svalutazione e banalizzazione [7]. La poesia di Carifi ha le scaturigini in un pensiero che non vuole essere oggettivato, interpretato da un’indagine cogitante, ma che si fa invito a un pensiero altro, sognante: «Saremo capiti tra un secolo / […] / mentre qualcuno giura che decifrare / è un’idiozia pazzesca».
Le prime esperienze poetiche di Carifi, tuttavia, si muovono su un più duro terreno fonosimbolico: siamo del resto nella seconda metà degli anni Settanta e in zone dell’esperienza creativa in cui sperimentalismo e orfismo si intersecano (oggi, credo sia rimasta solo la rivista «Anterem» a portare avanti il discorso da questo limen). L’opacità della lingua che si muove pastosamente sulla pagina, creando ingorghi, scivolamenti, catturando insomma una tensione espressiva da liberare magari improvvisamente con tmesi e improvvisi enjambements, è evidente per esempio nella poesia che porta lo stesso titolo della raccolta d’esordio, Simulacri:
carnet d’incauti appuntamenti
la trova assente come
di lusso e miseria la vide figlio
eccitato e regredito la
consumò e rimase
quando di stucco l’altro (benché impossibile)
rispose (amico finché la membrana vischiosa)
tra angelo e bestia stanco dis
seminare mancanze crudele e bianco
di notti bianco biancore abiterò
mistico e poeta gridando
la la lalangue è questo
peregrinare angelico
amore di doppio corpo amore di
corpo di doppio al mercato
del bimbo stupendo amore di bête
amore di bêtise:
l’amore l’azzurro sacrale di Uno
l’icona di marmo
l’amour
Il procedere della scrittura con passo surrealista e tono incandescente già si avvale di un ricco patrimonio culturale (Rilke, Lacan) per proclamare la propria anfibia condizione di «mistico e poeta», ben inserito in una cosmologia che lo vuole esiliato in un regno intermedio «tra angelo e bestia», intento a ricostruire sulle rovine del linguaggio la lingua dell’in-fans, legata all’effigie materna e ancora partecipe della figura del doppio (l’angelo androgino) che precede il formarsi dell’ordine simbolico e desiderante del pensiero adulto [8]. «L’angelismo è il mio télos», dichiara il Carifi, «una meta alla quale non so rinunciare. Ma soprattutto per avere la conferma, ogni volta che l’Angelo mi sfiora con la sua rilkiana “essenza più forte”, di essere una bestia in preda all’involucro più debole e marcituro» [9]. A ben vedere, il sistema di pensiero carifiano è già qui espresso completamente, anche se ancora in forma implicita e sviluppabile nelle sue multiformi diramazioni. E già si tratta di un mondo poetico coonestato dalla riflessione filosofica, se è possibile prendere subito posizione contro la pratica di pensiero alienante della nostra civiltà occidentale:
Socratici cantastorie dettero nomi
al tramonto, occidente dissero il luogo
di terapie e guarigioni, di corpi sani
con poche parole esatte, in
segnando le veglie dell’identico
proibirono il sonno che porta via:
li prenda ora l’uragano di
sangue, la mischia danzante
dei trasformati.
In più, rispetto al Carifi recente, troviamo quella vis, appannaggio ora quasi del tutto esclusivo dell’ideologo e del polemista, mentre la tragedia si consuma su uno sfondo pagano ed esotico, lussureggiante e prezioso, anche se si preavverte la condizione desertica che condurrà ben presto a un amore vissuto alla luce della castità e a una tensione religiosa centrata sulla figura cristica del figlio.
Il tono si fa già contegnosamente oracolare nel successivo Viaggi d’Empedocle, dove tendono a scomparire gli artifici del significante (ma spiccano in particolare sequenze allitterative del tipo: «fiordo fiorito», «le femmine in fronte, e fuori») e metrici, lasciando invece affiorare quella tipica reticenza che carica le espressioni di valori allusivi conferendo una piega esoterica all’universo simbolico. Voci non identificate pronunciano sentenze misteriose – spesso interrotte e sospese – o dettano ordini, mentre le tematiche connesse all’infanzia si condensano attorno agli emblemi della bambola, delle figurine increspate ecc. Tutto si muove (o resta inchiodato) a un senso dominante di tragedia: c’è una malattia che cresce e non può essere sconfitta, c’è il sentimento di una colpa oscura, c’è il contatto con il mondo dei morti (e qui si può anche ravvisare una continuità con tutta la poesia italiana novecentesca); il dramma si svolge ancora secondo tinte cruenti facenti capo all’epifania del sangue e alle orride visioni cui partecipa un oscuro regno animale mosso da incomprensibili istinti.
Questo orizzonte simbolico che si impone come unica scenografia, bandito o in esso risolto ogni elemento di concreta referenzialità, si rafforza nel successivo Infanzia, il libro in cui probabilmente Carifi si avvia verso la propria purezza poetica, rarefacendo il linguaggio intorno a icone sempre più intime, fino a una precisione del dire che trova un delicato ed efficace equilibrio con il punto di effrazione, generalmente individuato dalla sospensione interpuntiva, come nella poesia dal titolo vagamente luziano Nel giusto di questi anni:
Il posto dei ciliegi, l’erba minuta
quando era in un luogo
qualunque dell’infanzia, solo
con le mille azioni
scaraventate nei cortili e tutti,
anche l’albero del noce,
danno un sentiero
che non risparmia nulla…
nessuno,
nessuno si salverà
nel giusto di questi anni
che strappano il viso
e basterà annientarsi, invecchiare
per essere in quel punto
terribile,
prima della tua nascita.
C’è una giustezza e una precisione adamantina in queste poesie che si può accostare forse a quella del De Angelis di Somiglianze, anche se in quest’ultimo l’allusività, la reticenza, l’intermittenza delle voci registrate assume un più crudo e a tratti cinico taglio referenziale (anche qualora fossero, beninteso, figurazioni meramente razionali), mentre in Carifi, anche quando si nominano elementi presumibilmente tratti dall’esperienza concreta essi sfumano, vengono per così dire risucchiati dal punto di fuga che segna una sfasatura rispetto alla frontalità oggettivante (ma esiste solo un orfismo obliquo oppure la discesa e la risalita dagli inferi è possibile a uno sguardo fisso e concentrato, che non si distoglie dal bersaglio?). Ancora quel punto di effrazione non ha imposto l’inclinatura tipicamente nostalgica, a tratti persino crepuscolare, attualmente dominante: siamo forse nei luoghi più emblematici di tutta la poesia di Carifi: «l’autunno ha fretta di nascere», diremmo parafrasandolo, ma l’abbraccio del primo amore è ancora «umido, / spietato». I cortili sono “lacerati da un inno”, resistono in una loro metafisica luminosità che già ci parla di esilio e di stagioni piovose, ma «le parole esatte / hanno un vento guerriero / dalla loro parte: nessuno, / dico, nessuno / le ha mai sconfitte». A catalizzare il discorso, in seguito, sarà un io assorto nei propri miti e capace di farne motivo di elegia – miti che ora qui invece risplendono nel loro autosufficiente ma impietoso splendore. D’altronde, che vi sia abbondante materia per un canto pienamente lirico lo dimostra la sequenza Morte di Giovanni, ma in questo frangente l’io che si espone abbandonandosi a un dettato effusivo, arricchisce la poesia di nuove tonalità irrobustendone anzi la presa biografica, testimoniale, seppure con accenti patetici di altra resistenza rispetto alle precedenti poesie.
Che la figura materna sia ancor più investita, a questo punto, di un alto valore simbolico (che ha probabilmente avuto sempre) e si tramuti in centro segreto d’ispirazione per la poesia, lo dichiara la dedica della raccolta successiva, L’obbedienza, mentre la nota che la chiude, dal titolo Infanzia e poesia, è il sintomo di una ricerca che ha ormai eletto i propri miti e che può aderire disinvoltamente ai motivi che la determinano. L’infanzia è naturalmente il luogo della ricezione pura del dono (della vita) perché lì si è ancora immersi nel segreto dell’apertura originaria: « Nei poeti il bambino non è mai morto del tutto […]. Ma non è il poeta che torna al bambino, che percorre la via a ritroso verso la propria infanzia, il bambino piuttosto sembra precederlo indicandogli il tempo fatale della sua esistenza». [10] Non si tratta pertanto di un mito consolatorio, ma di un mito che viceversa espone al sentimento tragico dell’esistenza, e «la tragedia insegna che l’esistenza umana è colpevole in forza di un antefatto», ci ricorda il filosofo [11]. C’è dunque la ferita di un peccato originario, di una colpa che viene dall’infanzia, come l’eredità di un gesto incosciente, come un evento caduto nel nostro pensiero prima che il linguaggio potesse nominarlo (ma in fondo, essendo l’uomo sempre incosciente rispetto a Dio, tutta la vita umana ai suoi occhi è un peccato originale). Il senso del tragico è propriamente il senso dell’ineluttabilità del destino, l’impossibilità cioè di uscire dalla condizione che ci è data (senso del tragico che Carifi esprime bene nella scrittura ossessiva e ossessionante che caratterizza come incubi i suoi racconti [12]). L’ineluttabilità del destino, comunque, è paradossalmente la condizione perché accada l’evento salvifico, che è sempre in eccedenza rispetto alla nostra disperata speranza. Eppure, dentro questi saldi confini, il mito si insedia in un’icona condannandosi a un involontario e doloroso idillio. Le cornici che delimitano tale idillio e in qualche modo tagliano definitivamente i ponti con la realtà – naturalmente non nel senso banale di realismo come fedele trascrizione di vissuti che anzi qui continuano a trapelare come lacerti pulsanti, ma nel senso di una più diretta centratura sulla fantasia del lettore, di veridicità o credibilità del patto con lui stabilito – le cornici, si diceva, che delimitano l’idillio sono ben rappresentati dai testi di entrata e uscita, dialoghi sospesi nel vuoto in cui la reticenza e l’allusività raggiungono il limite:
“C’è una luce fortissima, un vento che piega le ginocchia”
“Dove?”
“Dove non puoi guardare”
“Dovrò uccidermi, lentamente, come una cosa abbandanata”
“Non ti capisco”
“Non parlo più la stessa lingua… non posso…”
“Devo andare”
“Perché?”
“Qualcuno dà degli ordini… degli ordini inflessibili”
“Ti aspetterò…”
“È inutile. Hanno sospeso il tempo, c’è una neve che fra tremare, anche qui, in questo campo arato”
In quel «Dove non puoi guardare» la soglia estrema di questa poesia si fa tangibile, la voce accetta il limite invalicabile che gli è imposto nel sondare il senso delle cose. L’allusione si fa sostanza del dire. Trattandosi poi del testo introduttivo, si sarebbe tentati di leggerlo come un ideale dialogo col lettore, lasciando così intravedere la piena responsabilità del poeta rispetto alla nuova missione di cui si sente investito, responsabilità che lo conduce a infrangere volontariamente il patto di credibilità: ma non ci sarebbe allora un’esatta alternanza negli incisi, ragion per cui la lettura rimarrà libera e oscura, volutamente ambigua, anche se l’interpretazione più semplice propenderebbe per una scena di addio con una persona cara al poeta, il quale si sente abbandonato perché non può seguirla nell’altro tempo (il regno della morte?). L’ultima poesia della raccolta si rivelerebbe così solidale a quella d’inizio per la tematica del dialogo col regno dell’oltre. Che l’infanzia sia poi un regno di rovine esposto al destino e alle tracce dell’olocausto e di ogni guerra, risulta evidente dal libro e dalla stessa nota di chiusura sopra ricordata. Gli strumenti espressivi e le cadenze sono gli stessi del libro antecedente, ma c’è un riflusso elegiaco nel confronto con le ombre, c’è un lamentevole feticismo per i relitti dell’infanzia o, più semplicemente, un’insistenza che si fa viziosa a consegnare infine queste poesie a una nebbia indistinta, da cui invece vorrebbe emergere con una potenza icastica che non gli è forse più possibile, per la trasparenza raggiunta del significante (noto solo qualche occasionale bisticcio al limite dell’anagramma: «una resina infantile, / una sirena…», «angolo buio […] degli angeli sottili), dell’andamento metrico e della simbologia. Purezza che trova un esatto correlativo nei «balocchi» evocati fin dal principio: «e resteremo nel ferro dei balocchi / finché il tempo si calmerà in un precipizio» (E il precipizio è sempre un’epifania della dimora, come conferma il racconto Victor e la Bestia [13]). Accanto alla figura dell’angelo, il bambolotto è l’altra presenza che sollecita una parola radicalmente rivolta all’altro, direzionata al silenzio: entrambi invitano a interrogare l’assurdo e il trascendente e stimolano cioè un pensiero veramente pensante, non ancora congelato nelle forme della logica e del raziocinio. Il pupazzo per l’infante è il polo che muove la sua fantasia, lo attrae ed espone, ancora incorrotto, verso la soglia estrema del mistero dell’alterità. Ha scritto Rilke:
In un tempo in cui tutti ancora si credevano in obbligo di doverci sempre rispondere in fretta e in modo rassicurante, essa, la bambola, fu la prima che ci fasciò in quel silenzio più grande della vita; quel silenzio che poi sempre doveva sfiorarci con il suo alito, ogni volta che in un luogo ci avvicinassimo ai confini della nostra esistenza. [14]
Ma c’è anche la reiterata metafora dell’aratura: «campo arato», «tempo… arato», «arano al vento», «arano un vuoto» ecc. E un intero repertorio di sottoscale, preghiere, pianti, balocchi, stagioni invernali e piovose, fazzoletti appesi, mani vecchissime, palloni fuggiti nel vento, stazioni decrepite, camposanti, scialli antichi, case e panchine abbandonate, cappotti grigi, lampade, madri, malattie, soffitte sgangherate: un’impressione di “crepuscolarimo” è inevitabile.
E pure il successivo Occidente, tragico scenario di conflitti di cui ci portano testimonianza le vittime evocate (si vedano in particolare Parole a Boris e Parole di Marina) si apre con una scena di «viali umidi di pioggia» fino al rientro «in una calma prosciugata / tra le coperte di lana / e il trenino»: la vena elegiaca si protrae e si estenua anche nella nuova raccolta, che segnala tuttavia la svolta (forse a questo punto fisiologica) verso l’immagine del Figlio, cioè verso una rilettura della Rivelazione cristiana all’interno del destino occidentale. È possibile che a determinare l’assunzione di questa nuova icona sia stato il confronto con l’opera saggistica (e poetica) di Marco Guzzi, citato del resto proprio in limine alla conclusiva sezione dal titolo Il figlio e autore di un’intensa recensione al libro di Carifi, il quale peraltro sembra assorbire tale icona guzziana soltanto come figura mentale, mancando in lui la tensione escatologica, il dramma davvero totalizzante e l’espressionismo mistico del poeta e filosofo romano. Il tono elegiaco infatti, come si diceva, non accenna a diminuire e viene anzi sancito con la raccolta Amore e destino, che dà modo all’io di prendere interamente il campo e offrire un ritratto di poeta e di amante rilkianamente «abitato dall’addio», pungolato da mille interrogativi: «Chi piange, di chi è il lamento?», «Ti seguirò?», «Che ne sarà della mia vita?», mentre il demone della nostalgia si dichiara dal primo verso: «Oggi la nostalgia ha trovato la sua lingua». La lirica d’amore si accende di un romanticismo scoperto, che si inscrive nell’orizzonte tragico cantando la propria impossibilità di compimento, dal momento che sul desiderio si impone un amore totalmente disinteressato, la cui massima espressione è la resistenza al vuoto, alla perdita:
L’Astinenza è il massimo depotenziamento dell’autoidolatria amorosa, della ricerca dell’altro per ottenere me stesso. È il minimo dell’avere, è un non-avere che appartiene ancora all’ordine del possesso. La Castità annienta l’amore nella Carità, è desiderio rivolto all’Altro nel punto del suo ritiro. [15]
C’è chi ha potuto ravvisare nelle raccolte più recenti di Carifi un nuovo tempo per la sua poesia. A proposito di Amore d’autunno, una sorta di «rovesciata Pietà di Michelangelo», Iacuzzi ha scritto:
Con Il figlio (Jaca Book 1995), che apre la terza fase della sua poesia, questo libro forma un dittico: ma lì è la madre che tiene il figlio fra le braccia, il Cristo; qui è il figlio che restituisce alla madre il gesto della pietà che è il dono della vita. [16]
Ma, come abbiamo visto, i fermenti e le immagini su cui ora si proietta la luce poetica di questa scrittura sono già attivi nelle precedenti raccolte. Il fatto rilevante è che ora questa poesia sembra aver trovato una tale autosufficienza di pensiero da poter accogliere qualsiasi nuova figurazione nel proprio sistema semplicemente espandendosi, devitalizzando la pregnanza intrinseca di ogni nuova suggestione: pure i ritmi incalzanti e ribattuti e quasi memori della ballata che si possono rinvenire nel Figlio non scalfiscono una dizione assorta nelle proprie tematiche, con le quali vi è piena assimilazione (il significante non ha più rivendicazioni, non partecipa alla scoperta di sensi nuovi, adeguandosi alla manifestazione di quelli già inseriti o inseribili nel sistema poetico-filosofico carifiano). Anche i nuovi “simulacri” del pensiero (l’appello, lo Straniero) sembrano trasposizioni guzziane deprivate del loro nerbo poetico di natura ben differente. Non va poi trascurato che sia Il figlio sia Amore d’autunno riprendono testi dalle sillogi precedenti: la prima sezione del libro edito da Jaca Book, Anima occidentale, antologizza nelle sue due sottosezioni il percorso tracciato da L’obbedienza e Occidente, senza peraltro avvisare il lettore e comunque improntando la raccolta nel segno della continuità di ricerca. Niente di male, naturalmente, nel riprendere testi già editi, per chi può, anche se ciò finisce per dare l’impressione che il confezionatore di libri stia prendendo il sopravvento sulla fantasia creativa del poeta. Ma l’operazione di prelievo si fa quasi truffaldina con Amore d’autunno: anche qui il lettore non è avvertito del fatto che le sezioni centrali, Nostalgia e Autunno, si costituiscono con i “pezzi” di Amore e destino, che già peraltro godeva di una doppia pubblicazione (per Crocetti e per I Quaderni del Battello Ebbro), con la dovuta depurazione del nome di Barbara e di qualche altro verso, facendo spiccare il nome della nuova musa, «Sabrina», incastonato nella sezione appena precedente, Amori, che è per tema e per timbro espressivo una continuazione della vena amorosa, appunto. Essendo questa la parte più cospicua e centrale della raccolta, che detta anche il titolo della stessa, non mi sembra che si possa rinvenire qui alcunché di nuovo, tenendo conto poi della ripresa – con varianti questa volta indicative di un lavoro stilistico proprio – della Casa nell’ombra apparsa in precedente sull’«Almanacco dello Specchio» [17] e soprattutto tenendo presente il fatto che le tre figure su cui si sofferma la sezione Creature, ovvero l’Angelo, il poeta e la bestia (qui teneramente rappresentata da una gatta, già presente in altri luoghi), ribadiscono le gerarchie ravvisate in Simulacri. Ora, semmai, si concretizza ancor più quel possibile rovesciamento fra i ruoli, o meglio la circolarità che muove i tre regni in una danza piena di variabili: nelle poesie amorose il poeta diventava un angelo («Non so, sono un angelo anch’io, / piango da solo nell’ombra di Dio»), mentre la gatta sembra quasi raccolta in una propria angelica imperturbabilità («Anima che non sai e respiri / dal tuo giaciglio […] / ti sembrerà distante / questo mistero umano») e viceversa l’Angelo è dannato, può essere ferito e soffrire: «Che Angelo piange accanto al mio letto». A mettere in moto questa confusione di ruoli può aver contribuito il confronto con l’esperienza di Bataille:
Diceva Jules d’Etange che l’uomo è Angelo o bestia, e chi non sa fare l’Angelo fa la bestia. Ma fare l’Angelo e la bestia, essere la sintesi tra il puro e l’impuro è l’angoscia dell’uomo che Kierkegaard ha messo in luce. Chi fa l’Angelo fa la bestia, questo è il punto. E Bataille fa la bestia perché una tentazione angelica lo tormenta, si ferisce e insozza nella peggiore ordure perché l’Angelo stesso è la ferita, «la blessure, ou la fêlure, qui, dissimulée, fait d’un être ‘un cristal qui se brise’» [18].
L’angelismo di Carifi marca pertanto un certo stacco rispetto all’ascendenza diretta da Rilke:
Nella poesia di Carifi, coesistono una concezione dell’angelo come spettacolo dell’altrove, epifania dell’oltre (ed in questo caso indubbia è la filiazione dall’angelo rilkiano) e quella dell’angelo contaminato che muore nell’abbraccio degli amanti, la cui ascendenza è piuttosto trakliana che rilkiana. [19]
Destino, Amori, Nostalgia, Autunno, Creature, Casa nell’ombra: i titoli interni di Amore d’autunno sono veramente paradigmatici di una maniera ampiamente consolidata. È possibile che il giudizio di Iacuzzi sia stato influenzato dall’intensa sezione conclusiva, Poesie per la madre, la cui scomparsa evidentemente dovrebbe segnare internamente la vocazione di questo poeta. Tuttavia, gli accenti accorati di questa parte non sono affatto nuovi in Carifi, e i tratti più spiegati e patetici di lamentazione («Madre, deportata, oh deportata madre […] oh madre mia tremante», «Mamma, le ombre venute di sera…») sono ampiamente bilanciati da inattese cadute: «apro la Metafisica di Jaspers / e dentro leggo il nostro naufragio». Qualche tratto eufonico per la rima e per i ritmi ormai giostrati con naturalezza sembrano piuttosto confermare una maturazione poetica tale da consegnarci un autore che, almeno finché questa civiltà occidentale non verrà soppiantata dalle schiere degli uomini ora esiliati nella barbarie dei tempi, non sembra poterci stupire con le sue visioni dolorose e svaporanti, con le nostalgiche immagini d’un languente, patetico sublime.
[1] Roberto Carifi, Il segreto e il dono, Milano, Egea, 1994.
[2] Id., Le parole del pensiero, Firenze, Le Lettere, 1995.
[3] Il titolo della rubrica, come noto, è addirittura Per competenza, si trova sull’unica rivista di poesia («Poesia», appunto) a livello europeo che possa vantare tirature superiori alle diecimila unità mensili distribuite in edicola.
[4] Giuseppe Conte, Manuale di poesia, Parma, Guanda, 1995.
[5] D’altra parte, nemmeno la sua attività di traduttore andrebbe trascurata, armonizzandosi peraltro molto bene all’interno del suo sistema filosofico-poetico: «Trakl, Weil, Bataille, Hesse, Rilke, Racine, e fra poco Flaubert: traducendo scrittori come questi, Roberto Carifi attira a sé costellazioni di pensiero che devono armonizzare insieme e deflagrare, creando di continuo nuovi ordini per quella specie di struttura arborea che è ogni configurazione letteraria. Come un albero muta la sua forma nel contatto con il terreno, l’aria e la luce, così Carifi dà forma ai suoi miti mentre ricompone il fanciullo, l’esule, lo straniero di Trakl con la quiete metamorfica di Hesse, l’abbandono della rosa e l’angelo di Rilke con l’adesione alla “sventura” della Weil, con l’“amare nel vuoto” della Fedra di Racine» (Rosita Copioli).
[6] «La tecnica è violenza, ontologia senza segreto» (Roberto Carifi, La carità del pensiero, Porretta Terme, I Quaderni del Battello Ebbro, 1990, p. 75). Accanto all’ontologia heideggeriana, altra colonna portante del sistema carifiano è l’etica di Lévinas.
[7] «I topoi della poesia di Carifi sono allo stesso tempo metafore letterarie e filosofiche: esilio, erranza, evento, destino, caduta, vuoto, cenere, rovine, disastro, debolezza, tracce, simulacri, distanza, infanzia e luogo, angelo e dimora, viandante e straniero, viaticità ed abitare. Sono metafore che si radicano al colloquio tra parola filosofica e parola poetica, all’Heidegger che legge Hölderlin, Rilke, Trakl e George, al Celan della “via creaturale” e dell’evento, allo Jabès dell’interrogazione e del silenzio, al Nietzsche che inaugura il pensiero del “sospetto”. Richiamano l’angelo caduto, della custodia o maledetto, l’angelo di Baudelaire, di Hölderlin o di Artaud, la casa e l’infanzia: Hölderlin, Novalis e Trakl; l’Empedocle sempre di Hölderlin: il pensatore e il cantore, la vicinanza tra pensiero e poesia. Le metafore di Carifi nascono da questa vicinanza e da Rilke a George, i poeti prediletti sono pensatori che parlano poeticamente e da Nietzsche a Heidegger, i filosofi sono quelli che parlano attraverso le immagini dei poeti» (Isabella Vincentini, Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, pp. 36-7).
[8] «L’ordine del Sesso e l’ordine del Mondo coincidono» (Roberto Carifi, Il segreto e il dono, cit., p. 82).
[9] Roberto Carifi, La carità del pensiero, cit., p. 28.
[10] Roberto Carifi, Il segreto e il dono, cit., p. 24.
[11] Ivi, p. 38.
[12] Cfr. Roberto Carifi, Nome di donna e altri racconti, Forlì, NCE, 1993.
[13] «La dimora di Victor è un precipizio, la Bestia ricorda a Victor che la sua casa è un precipizio» (Roberto Carifi, Victor e la Bestia e altri racconti inediti, Pistoia, Via del Vento, 1996, p. 5).
[14] Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e altri scritti, Milano, Cederna, 1949, pp. 121-2.
[15] Roberto Carifi, Il segreto e il dono, cit. p. 81.
[16] Paolo Fabrizio Iacuzzi, Decaloghi sulla poesia, «Origini», XIII, 37, p. 93.
[17] Roberto Carifi, Casa nell’ombra, introd. di Cesare Viviani, «Almanacco dello Specchio», 14, 1993, pp. 211-222.
[18] Roberto Carifi, Il male e la luce, Porretta Terme, I Quaderni del Battello Ebbro, 1997, p. 36.
[19] Valentina Giuliani, L’eredità di Rilke nella poesia di Roberto Carifi, in «I Quaderni del Battello Ebbro», cit., p. 19
com’é triste la realtà quando la si apprede troppo tardi… pure il tuo pseudonimo è un gioco di cattivo gusto… temporelli è scardanelli terramadre da mandruzzato tutto attaccato. a parte gli errori cronologici di questo tema per le vacanze ti rimando a quanto detto sopra per non mandarti al tuo paese natale.
Temporelli è il cognome di mia madre. Problemi?