L’autobiografia di un altro (di Umberto Fiori)
In terza, in seconda, in prima persona, è la propria autobiografia come biografia di un altro che “Andrea Temporelli” ha scelto di consegnarci.
Andrea Temporelli è uno pseudonimo. Il dato potrebbe apparire trascurabile, sotto il profilo critico: non è certo la prima volta che uno scrittore decide di celarsi dietro un nom de plume; ma – a parte la rarità di questa pratica nell’ultima generazione di poeti – il fatto è che, nel caso di Temporelli, la scelta si fa anche motivo di ispirazione. Motivo carico di complesse valenze etiche e psicologiche: Andrea, infatti, è il nome di un fratello, morto a pochi giorni dalla nascita (l’angelo che compare in diversi testi); il cognome quello della madre, che l’autore perdette all’età di undici anni. Già nello pseudonimo, dunque, troviamo cifrata una vocazione all’autobiografia che di questa prima fase della ricerca di Temporelli è forse il tratto più evidente.
Lasciamo agli specialisti il compito di interpretare l’impulso a rimuovere il nome del padre per congiungere, nel nome d’arte, la madre e un “piccolo angelo” (nonché a nascondersi sotto un nome che è una doppia lapide tombale); quel che ci interessa, qui, è osservare come nel più privato degli aneddoti (si veda la serie La piccola guerra sull’esperienza in seminario) la poesia di Temporelli cerchi sempre, dietro e oltre il dato autobiografico, una verità da condividere, e non scivoli mai (o quasi mai) nella rievocazione gratuita, compiaciuta, narcisistica.
E quando pure vi scivolasse, si tratterebbe di un narcisismo ben strano: chi parla della propria vita, in queste poesie, ha infatti deciso di non firmarla col proprio nome. In terza, in seconda, in prima persona, è la propria autobiografia come biografia di un altro che “Andrea Temporelli” ha scelto di consegnarci. Appunto la tensione tra identità e scrittura, tra verità poetica e verità biografica, etica, esistenziale, mi sembra il centro della sua riflessione. Temporelli insegue, in poesia, quello che chiama “l’equilibrio tra la pagina e il padre”, come a dire tra la finzione letteraria e la realtà più cruda e impoetica, tra la musaica compostezza del verso e le dissonanze della nostra prosa quotidiana. È il “funambolo” di un suo testo, preso dalla vertigine “di sapersi sospeso / tra due diverse verità”, sempre tentato di rompere la bella statica della pagina scritta, di abbandonare “il tendone della metafora” per ricadere giù nel mondo reale, uscire, tornare in mezzo a tutti.
La contraddizione, l’esitazione tra letteratura e vita non può comunque diventare un alibi: bisogna decidersi (riflette il funambolo), bisogna fare davvero quello che si sta facendo, andare fino in fondo nonostante tutto. Bisogna scrivere.
Ma scrivere significa misurarsi con altri padri ancora. Alla tensione tra vita e poesia si aggiunge così quella tra impulso creativo e coscienza critica, tra la propria ricerca e i canoni, i modelli, i santi patroni in vario modo benedicenti e incombenti. Primo fra tutti, mi pare, Vittorio Sereni, di cui ritroviamo echi in certi stilemi (“Ma gli anni gli anni come trattenere…”), in un certo gusto per il “dialogato”, nel tono sostenuto e dimesso, austero e affabile; soprattutto in un’idea di poesia radicata in un profondo rovello etico. Altre ascendenze si potrebbero rintracciare; ma al di là dei singoli influssi, alle spalle di questa scrittura sembra affacciarsi, benevolo e severo come un buon docente, lo sguardo di un’intera tradizione, diciamo pure della Tradizione con la T maiuscola. Temporelli dà a volte l’impressione – come altri giovani poeti – di scrivere “sotto sorveglianza”, di costruire il proprio edificio di versi entro i recinti, con i materiali e le misure stabiliti dal Novecento più consacrato. La sua ricerca non punta alla trasgressione; sceglie anzi – per un senso di decenza e di rigore, io credo, più che per mancanza di coraggio – di presentarsi con la giacca e la cravatta dei grandi, dei maestri. Anche qui, si tratta di trovare l’“equilibrio tra la pagina e il padre”, tra la freschezza della lingua viva e un decoro letterario ereditato, tra l’urgenza scomposta della vita presente e il prestigio delle forme e dei gerghi poetici novecenteschi. Facile sarebbe buttarsi di qua, o di là. Il problema è reggersi nella tensione, sentirne la forza esatta, farla procedere.
“Solo / come un eroe”, lassù, il poeta-funambolo sfida se stesso: “Cammina dritto / su questa fune allora, se ci riesci”.
Quello dell’eroismo – un eroismo senza fanfaronate, sobrio, pensoso – è un altro motivo centrale nel lavoro di Temporelli. Lo ritroviamo in diversi testi qui raccolti, come Racconto, modellata sul mito di Enea (eroe pius, appunto) o La scena, dove, col conforto di una citazione dai Salmi, viene introdotta quella che potremmo chiamare la “situazione originaria” di questa poesia: mentre tutti cedono alla paura del temporale imminente, uno, “lasciato solo nella piazza”, “rimane immobile ad attendere”. Per Temporelli, come per altri giovani autori, lo scrivere versi non si riduce insomma a colto trastullo, né – su un altro versante – a debordante confessione: è una prova di coraggio, un’iniziazione alla vertigine della responsabilità. In gioco, nella scrittura, c’è il senso intero dell’essere al mondo di noi tutti, poeti e non poeti, figli e padri. Poesia è la forza di chi, nella fatica della parola, sa caricarsi sulle spalle anche il peso di Anchise, del passato, della storia che incombe, della realtà che infinitamente sfugge alla pagina.
(Umberto Fiori, introd. a La buonastella, in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, Milano, Marcos y Marcos 2001, pp. 233-5)
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