L’estremismo della consapevolezza (di Matteo Marchesini)
Se c’è un altro poeta cui potrebbe adattarsi, per motivi diversi, la definizione di “estremismo della consapevolezza” […], questo è di sicuro Andrea Temporelli
Se c’è un altro poeta cui potrebbe adattarsi, per motivi diversi, la definizione di “estremismo della consapevolezza” usata riguardo a Deidier, questo è di sicuro Andrea Temporelli (1973), nom de plume di Marco Merlin, fondatore e direttore della rivista «Atelier». Suoi testi sono apparsi nelle antologie L’opera comune (Atelier, 1999), I poeti di vent’anni (Stampa, 2000), Dieci poeti italiani (Pendragon, 2002), e sul Settimo quaderno uscito per Marcos y Marcos nel 2001. In proprio ha pubblicato la plaquette Il cielo di Marte (Atelier, 1999). Già la scelta dello pseudonimo, rarissima negli autori giovani (mi viene in mente solo Nisticò, che si è celato per lungo tempo dietro il profilo dell’alter ego Nat Starver) è qui la spia d’una vocazione a farsi critico di se stesso, a sottolineare (e disseminare) fin nei dettagli le eredità sia biologiche sia letterarie: se Temporelli, infatti, è il cognome della madre di Merlin, scomparsa quando lui era appena undicenne, e Andrea il nome di un fratello morto prima della nascita, la firma risulta una doppia lapide, come dice bene Fiori, pronta ad avvisarci subito che questa poesia cresce nel perimetro di una corrispondente doppia perdita.
Nel lavoro di Temporelli la morte è davvero dappertutto: come possibilità, e quindi come incombenza, nel senso di spada sospesa, di pervasivo sogno a occhi aperti e al contempo di responsabilità di cui occorre farsi heideggerianamente carico. Il suo segreto orrore, legato a un amore vissuto come perdita, ha molto a che fare con una lettura simpatetica di Raboni. Si avverte l’ombra della fine violenta e della decomposizione in ogni scorcio quotidiano, nella storia, nei rapporti, nelle trame del pensiero. E come accade per quasi tutti i nodi nevralgici della poesia di Temporelli, il catalizzatore di questo motivo diventa in lingua e poetica Vittorio Sereni. A Sereni appartiene infatti una contigua ossessione di «cecità» (parola chiave nel nostro: giunta magari per «troppa luce, troppa…») e immaginazione della propria morte: fantasticata nell’alba di Milano, col vento che gonfia le strade proprio come avviene in una poesia di La buonastella (ambientata non a caso tra le lugubri pareti dietro piazza Fontana), o avvertita simile al soffio di un sicario che minaccia alle spalle («sicario» è un altro sostantivo che torna nel Cielo di Marte, mentre nella silloge del Settimo quaderno il «proiettile che punta alle spalle / e non esplode» è di una «domina», di una di quelle femmine che anche nel poeta degli Strumenti sono associate agli istinti dell’ira, a un male implacabile mischiato con l’amore). Al di là delle citazioni (la «stella» che non è qui variabile ma «imperfetta», o nel nome composto «buona»; l’uomo «lasciato solo a battersi / con l’avversario al ponte» ecc.), Temporelli ha fatto suoi due fondamentali tratti sereniani, due caratteristiche che guidano i temi, le immagini, lo stile: l’evocazione continua, sospesa tra agitazione del sogno e statica resistenza della veglia, di una «ferocia» quasi gioiosa (vedere l’epigrafe sereniana in apertura della silloge pubblicata su Dieci poeti italiani: «Potrei / con questa uccidere, con la sola gioia…»), di uno sguardo al limite del macabro, che satura una vastissima gamma di stati d’animo, dalla paura alla felicità, dal «male» alla lotta per la sopravvivenza. E l’eroismo, che non è solo vertigine della responsabilità e pietas come nota Fiori, ma, esattamente come accade nel modello (e come avviene spesso anche in Roversi), è un fatto intrinsecamente erotico, anche quando non si parla di amore: è cioè un eroismo che nasconde sempre – magari nella messa in scena della biografia in terza persona, o nell’intrusione improvvisa della canzonetta – una tensione, direi quasi una richiesta erotica covata sotto l’esibizione dello sforzo titanico, sotto il racconto delle asperità del cammino.
Per quel che riguarda il primo tratto, si potrebbero portare decine di esempi: «i sogni di mio figlio / che so impiccato all’altalena azzurra / del cielo e dei miei occhi»; «Appeso sul midollo secco stava qui»; «Si seppelliva vivo col pennino sicario, / crocchiava sulla stilo come un’ostia. Fluttuava / in un luttuoso grembo»; «a immaginare di godere / al morso della mantide»; «con la mia donna mano nella mano / e ululai di solitudine, feci / più piccola Milano» (frequente poi la comparsa del «medico» pronto a operare col suo bisturi in una ambigua «eterna precisione»).
Per cogliere l’eroismo, invece, ci si può subito soffermare sul cielo guerresco che Temporelli sceglie di disegnare sopra la sua poesia – costruendosi perfino un’Algeria sognata, preludio di morte in una «Pristina» che è anche «rosa», nome, cioè ancora fronte del pensiero – e sulla accuratissima descrizione, nella Buonastella, dei gesti del personaggio sempre «immobile ad attendere» mentre le voci altrui gli consigliano di fuggire, sempre privo di «alibi» e obbligato dalla sorte a non ottenere nulla «senza combattere» (perfino il collegio, descritto con scabri frammenti che ricordano da vicino Maurizio Cucchi, è una «piccola guerra»). In realtà, la figura eroica per eccellenza è quella colta nell’atto dello scrivere, di prestare «un dolore nuovo a parole di calce, / chiudere le crepe della pagina», di apprendere il «lavoro duro» (ancora: è davvero un segno della ipercoscienza critica di una generazione!) del «parlare ai fiori». Non sarà un caso che a La scena di La buonastella, in cui il protagonista «solo nella piazza» affronta il «tuono», faccia eco il congedo del Cielo di Marte, metapoetico quanto l’incipit nel dichiarare che bisogna «esser pronti a scrivere / sotto tutti i governi / quando la voce viene come un tuono»: il temporale che si attende è nient’altro che la propria voce, caricata di «stanze», di morti e «angeli» (la presenza del mito novecentesco è costante). Il patetismo di questa poesia non ha nessun contrappeso autoironico, abbandona qualunque precauzione di «volo basso»: come in Sereni, si tratta qui di un patetismo a gola spiegata, che mescola inserti del più greve quotidiano a rigonfiamenti aulici e solenni, con tutti i rischi del caso. E diciamo pure che in Temporelli questi rischi non riguardano l’eccessivo stridore del verso, la farraginosità sereniana – riassorbita qui in un dettato più lento e piano, quasi la progressiva scoperta di un quadro coperto da un velo – bensì le altezze eccessive, la retorica che una poesia volitivamente accampata nella tradizione assume su di sé: «in me piovve una fiamma», «non c’è mai perdono / davanti alle colline», «la tristezza che prende / caduti nell’infinitudine», ecc. Questo rischio retorico riguarda anche il tentativo di imboccare una strada, nel senso più alto, politica, e di esplicitare la polemica contro i padri letterari (ma forse contro i padri tout court: che sono sempre «malcerti» e portatori di un «malseme» troppo tardi scoperto, gravidi di quella colpa e di quel bisogno di redenzione, grande motore della poesia di Temporelli, per cui «una vita non basta»): è lo stesso rischio, in fondo, coerentemente assunto con la rivista «Atelier», e compensato dalla serietà del lavoro, notevole in un periodo in cui scarseggiano poeti e critici che vogliano farsi carico di discorsi «epocali» e insieme di una descrizione minuziosa del panorama letterario.
Se è vero che nel rapporto tra esistenza e scrittura, nella ricerca di un «equilibrio tra la pagina e il padre» (scorre sotto questo verso, e anche altrove, la traccia di Milo De Angelis) sta uno dei nuclei originari di questa poesia, il suo pregio e il suo limite è la «cecità dell’equilibrio» del funambolo, la scelta di un quasi annichilimento «sotto il tendone della metafora», l’assunzione responsabile del peso di una tradizione che rischia però di rendere sfocati gli «abbandoni», di seppellire letterariamente – affinché si resti in forze sul filo – le radici del dolore. Insomma il pericolo è che il grido non resti più nell’orecchio: «l’equilibrio tra la pagina e il padre» è già infatti un verso che pende troppo dalla parte della pagina. Per fortuna, però, nelle raccolte pubblicate finora da Temporelli molte sono le poesie capaci di sfuggire a questo limite. E vi riescono, credo, proprio grazie alla fortissima spinta eroica e insieme erotica di cui si diceva: se l’amore ha un coltello e «c’è chi scrive / per uccidere», e se invece una «esplosione / di sillabe pensate apposta / per non uccidere» può quasi far perdere gli occhi, forse la bilancia pende ancora dalla parte della vita, del sentimento che è «sublime sconfitta / per chi l’offerta può in forma di offesa».
Riassumendo, Temporelli rappresenta piuttosto bene il nuovo rapporto con la poesia delineato all’inizio: soprattutto, mi pare che in lui questa rappresentazione non sia casuale ma voluta, acutamente programmata. Chi ha parlato di un Tondelli poeta ha voluto certo riferirsi a questo recupero critico della categoria generazionale, a un’indagine sul confine tra adolescenza e maturità sempre segnata dal rapporto con un gruppo di sodali intenti a coltivare il «giardino» della scrittura. Del resto, l’antologia di giovani poeti uscita per le edizioni che Merlin-Temporelli dirige si intitola L’opera comune: e come si è detto, l’aggettivo «comune» sembra sempre più l’auspicio e insieme il parafulmine di una intera generazione. Recensendo la Donati, avevo citato tra le parole ricorrenti nella giovane poesia italiana degli anni Novanta anche il sostantivo «nome»: pare che il prossimo libro di questo autore, il quale sul «nome della rosa» si è già a lungo esercitato, si intitolerà proprio Meridiano del nome. A riprova che il suo atelier poetico offre un distillato attendibile del tempo e delle tradizioni dominanti.
(Matteo Marchesini, Gli esordienti, in Poesia 2002-2003. Annuario, a c. di G. Manacorda, Roma, Cooper & Castelvecchi 2003, pp. 142-6)
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