Andrea Temporelli, Il cielo di Marte e Terramadre

La fine del “lutto” (di Giuliano Ladolfi)

Andrea Temporelli rappresenta il talento poetico più emblematico dei poeti della generazione Anni Settanta. […] Con lui il processo di distacco dal “novecento” appare giunto al termine. La sua poesia […] si radica in una acuta consapevolezza artistica maturata su una diuturna attività di critico.

Andrea Temporelli rappresenta il talento poetico più emblematico dei poeti della generazione Anni Settanta. Questo giudizio è supportato dall’autorevole parere di Giovanni Raboni, di Maurizio Cucchi e di Roberto Galaverni. Con lui il processo di distacco dal “novecento” appare giunto al termine. La sua poesia, nata e coltivata nel respiro di «Atelier», si radica in una acuta consapevolezza artistica maturata su una diuturna attività di critico. Del resto, la prestigiosa “bianca” di Einaudi ha tenuto a battesimo il suo esordio poetico, Il cielo di Marte (2005).

Il risultato è un miracolo di stile che con una perizia insuperata fonde la tradizione con la contemporaneità. Se il Novecento ha visto l’affermazione del verso libero per l’esigenza di avvicinare il linguaggio comune alla poesia e se la fine del “novecento” ha comportato, con un’operazione di semplice maquillage, un ritorno alla metrica per ridonare nobiltà alla parola poetica, egli armonizza metrica e rima con un andamento discorsivo atto a ritrarre la realtà. I suoi testi sono composti da schemi metrici propri delle canzoni trecentesche, i quali hanno smarrito il carattere aulico e retorico di una parola confinata nella tradizione e recuperano la freschezza della comunicazione quotidiana. Consideriamo solo una stanza tratta da Indagine domestica:

Trattarla bene occorre questa soglia
che non offre riparo
perché ovunque dimora la memoria
e anche l’ospite ignaro
che aggiunge la sua polvere sui fogli
che sono muri senza più segreti
scrive un’unica storia.
Ci sono spifferi di vento, sale
la luce dalle scale –
turba le stanze, tradisce i divieti.

Si provi a leggere questi versi senza badare agli a capo e si riuscirà a scordare le rime e la metrica; rimarrà nella memoria solo un ritmo melodico nella suggestione della descrizione della casa. Eppure la stanza è strutturata secondo il seguente schema: AbCbADcEeD. La strofa è petrarchescamente divisa in fronte con il primo piede (Ab) e il secondo piede (Cb) e sirima con prima volta (Ee) e seconda volta (eD), in mezzo in funzione di duplice chiave due versi (AD), il primo dei quali rima con l’endecasillabo iniziale e il secondo con l’endecasillabo finale. Ne deriva un’unità stilistica, metrica e formale di impareggiabile valore.

Non ho mai trovato un risultato stilistico di questo livello neppure tra i grandi del secolo scorso. Si grida al miracolo quando si scova una raccolta di sonetti o un libro scritto in terzine che si aggira tra zeppe, mescolanze di linguaggio aulico e quotidiano, troncamenti e rime forzate che scandiscono ossessivamente il dettato poetico. In Temporelli il discorso fluisce limpido. Nei versi citati solo l’inversione iniziale rappresenta uno scarto dalla struttura colloquiale.

Eppure ogni composizione cela una serie di rimandi, di significati diversi, di luoghi polisemici, talmente dissimulati che il lettore potrebbe anche non accorgersene. Il titolo stesso Il cielo di Marte potrebbe essere interpretato in diversi sensi: in senso astronomico e scientifico, come suggerisce l’ultima lirica, in senso dantesco, come il luogo dove sono posti gli spiriti che ricercarono in terra gloria e onori, oppure come riferimento alla militanza esistenziale o all’esperienza di obiettore o come riferimento al nome del poeta stesso (da con confondere con lo pseudonimo letterario). E questo è solo uno dei segni disseminati all’interno della raccolta. Non mancano, infatti, prove di uno scoperto lavoro linguistico in cui «la chimica grammaticale» viene posta al servizio di se stessa, come troviamo in Sillabe comete, dove “spaccano” fa rima con “H” in un intreccio di rimandi fonici, perché «ci chiamano / senti? i segni, solchi e sognano / di noi». Ugualmente il linguaggio, pur presentando un andamento volutamente colloquiale, viene piegato ad esigenze diverse: sa essere tenero nei versi d’amore, descrittivo dei luoghi, epico-appassionato negli ideali, narrativo nei fatti, sentimentale negli affetti, tagliente negli interventi, ma sempre sobrio e mai retorico. La sua parola, sempre «chiara e forte», riallaccia il contatto con il reale, un reale quotidiano, sostanziato da un’esistenza appartata, improntata ai valori dell’amicizia, dell’amore coniugale, della paternità, della passione letteraria, della professione di insegnante.

«Questa letteratura / puzza di pesce marcio. Se hai già morso / il tuo fiato è segnato»: i versi tratti dalla prima lirica, Diceria del poeta, costituiscono un vero e proprio programma letterario e il risultato di accese battaglie condotte su «Atelier». Temporelli non si è lasciato contaminare dalla poesia del “novecento”, pur presentando precisi legami con i grandi come Vittorio Sereni e Mario Luzi. Egli lo ha “attraversato” e ne ha decretato la fine non solo sulle pagine della rivista, ma con questa pubblicazione. La poesia è risorta; il lutto è finito e allora egli canta non più il “male di vivere”, ma l’amicizia con Sergio, un amico medico che gli confida l’angoscia di sentirsi impotente di fronte alla morte, la casa, la sua casa di S. Maurizio d’Opaglio con il giardino, le stanze, i libri, i quaderni, i ricordi, quella casa che ha respirato l’atmosfera dei suoi sogni infantili e adolescenziali, che ha accolto la sua sposa e che ora ospita il figlio:

Ha passione di te
la casa, mentre resti genuflesso
di fronte al buio trepido che attende
dentro l’ultima stanza
che il viaggio si completi.

Nitida risplende l’immagine della maestra elementare, che amava dipingere «la scala sgangherata / che sale senza appoggi», da cui ha imparato il mistero dell’arte. L’indagine poi si sposta sull’esperienza letteraria, vissuta come splendida amicizia, ma anche come consapevolezza di un lavoro capace di determinare una svolta in letteratura: «Uno direbbe che quei tre seduti / al tavolo del bar / siano sul punto di giocarsi l’anima» e se la giocano veramente, perché «i topi di palazzo incolumi» non potranno ignorare il lavoro di questa generazione definita “decisiva” nell’Opera comune (Atelier, 2002).

La donna di Temporelli non è una Laura, figura irraggiungibile e idealizzata, è la sposa («e tu dormi un po’ male in questa casa / non più straniera e non ancora tua»), è la moglie con la quale sogna «che intorno […] bambini a frotte esultino», con la quale vive la gioia della paternità durante la visita dal ginecologo:

Dallo schermo
emerge un volto dai tratti non chiari.
Lacrima l’occhio – non per le scintille
di ieri, ma per il bene.

Non manca il riferimento alla storia di famiglia: Italia ’57 (una fotografia) annoda la vicenda del padre con quella del poeta («Padri e figli così stanno fissati / insieme ad una brida, / attorno al tornio girano le vite / o in fonderia»), che racchiude le vicende degli abitanti del paese i quali con onesto lavoro hanno contribuito allo sviluppo e al benessere della zona.

E poi la scuola, la professione di insegnante: nella Richiesta d’aiuto a un maestro elementare passione educativa, coscienza della delicatezza del lavoro si uniscono a una commossa trepidazione per la crescita delle giovani vite: «dimmi come / sarà ancora possibile insegnare / qualcosa di più vivo / ai nostri piccoli alunni, da fare / piena la valle di uomini capaci, / dico capaci di sbagliare». La grande storia si unisce alla storia personale di un giovane che cresce nella società della Postmodernità con un mondo di valori e di esigenze.

Domina un realismo descrittivo che la potenza ritmica e musicale potenzia: ci troviamo di fronte ad una saga familiare di cui la soglia, come in Paul Celan, si pone come emblema di un cambiamento operato da un lutto («la morte impressa nella vita») confinato nella memoria di un’infanzia lontana («I lego sparsi lungo il pavimento / in corridoio sono chiari indizi»), ancora viva ed operante nel presente, quando il matrimonio conduce sulla soglia un’altra donna, «l’ospite». L’attesa del «dono giusto, il segno / che scioglierà dall’orrenda postura / la primogenitura / che estinguerà la colpa d’esser vivi» proietta sul futuro la speranza i sciogliere il nodo personale di una vicenda che sta ripercorrendo una situazione già vissuta nella prospettiva di una soluzione.

La fine della giovinezza coincide non solo con l’assunzione della responsabilità matrimoniale, ma anche con una revisione del passato, lo stacco per essere fruttuoso deve essere netto e, di conseguenza, doloroso. Il poeta, dopo aver rivissuto il lutto familiare, si accinge ora a riconsiderare la sua posizione sociale. Non ci troviamo certo di fronte al bozzetto di chi, innamorato della propria terra, intende consegnare alla durata della poesia un angolo del (suo) mondo, ma di chi è consapevole che ogni parola, ogni immagine, ogni sentimento assume i contorni dei luoghi della vita. Per questo l’«aratro nel giardino» immobile da anni, non più simbolo di un pascoliano abbandono, si presenta come scintilla di una ricognizione sulla famiglia che ha abbandonato la campagna veneta per entrare nella società industriale o su stesso diventato poeta (Marte nella cultura latina anticamente era il dio della campagna e solo in seguito fu invocato come protettore delle arti militari). Anche per lui si è verificato un cambiamento: l’antica divinità, da cui è stato tratto il titolo dell’intera raccolta, si è trasformata da una divinità di pace in un emblema di combattimento, il combattimento che Temporelli ha intrapreso per il cambiamento della poesia italiana. Ma ora si prospetta una terza situazione e cioè quella descritta da Lucrezio nel proemio del De rerum natura, di un dio perdutamente innamorato di Venere. E il poeta intende lasciare il passato per immergersi in un’esistenza decisamente nuova, dove l’unione con la donna si presenta, da una parte, feconda di altre esistenze («prepara i campi per i semi nuovi») e, dall’altra, trepidante per un’esperienza destinata a sconvolgere la felicità appena sognata («la migrazione è appena cominciata»).

Racconta la Bibbia che il Signore visitò Abramo alle querce di Mamre con la promessa che entro un anno sua moglie, vecchia e infeconda, avrebbe partorito un figlio. Sara, all’udire queste parole, rise di incredulità. Qui l’emblema della fecondità viene attribuito alla cerimonia stessa del matrimonio, celebrato in una chiesa, la cui architettura ricorda la tenda dei beduini. Temporelli precorre l’evento con la gioia dell’innamorato che vede trasformarsi non solo la propria esistenza, ma anche il proprio essere: «quel giorno io / vedrò spaccarsi i nomi» sotto l’azione di un patto suggellato da Dio che vuole che gli sposi siano “una carne sola”. E il riso della donna non ripercorrerà la diffidenza della moglie del patriarca, ma esprimerà l’esplosione di una felicità incontenibile, segno di attuazione della «vita che ci chiama» in un dono impegnativo. E il riso degli sposi purificherà ogni scoria passata («convoco per la rinuncia / le ragazze che mi abitano / nottetempo») e si diffonderà contagiosamente («che intorno a te bambini abitino a frotte») e rallegrerà il «coro degli amici / che riversano / su noi tutta la loro nostalgia». Il “lutto” della poesia novecentesca è definitivamente tramontato e non per effetto di un’improvvisa vampata di innamoramento, ma grazie ad una concezione di vita in cui accanto al male trova collocazione anche il bene, accanto alla sofferenza la felicità, accanto alla disperazione la speranza.

Temporelli è il poeta della realtà, quella realtà che vive di momenti diversi, a volte esaltanti e a volte pensosi. Qui ritrae una situazione di grande felicità attraverso la descrizione di azioni private, comuni, personali. Ogni retorica erotica viene abbandonata per lasciare spazio al gesto, al pudore, al rispetto. La moglie compie il suo ingresso nella casa dello sposo, dove questi ha vissuto tutta la precedente esistenza. Egli la osserva rapito e stupito, quasi come l’apparizione di una dea che infonde vitalità ad un ambiente logoro di passato. Dal rapimento si passa alla seduzione provocata dalla reazione della giovane alla novità di una casa «non più straniera e non ancora tua». Il suo ingresso rivoluziona il mondo del poeta: l’infanzia con il suo fardello lentamente si allontana per lasciare spazio alla serenità, anche se il ricordo di due nascite, una felice del figlio e una straziante del fratellino, con il successivo «nettare / d’oblio succhiato al fiore», in cui si ripercorre un altro lutto familiare, può offuscare l’immensa gioia. Ma tutto è cambiato e anche il pianto «nel sottoscala» è superato da un’azione determinata a costruire una felicità comune: un’altra donna entra nella vita del poeta e sconvolge il suo mondo interiore.

Come in Francis Jammes e in Gozzano, anche in Temporelli una fotografia affissa nello scantinato scatena una ridda di sentimenti. Questa volta è protagonista il padre, giunto sul lago d’Orta molto giovane e partecipe del boom economico della zona. Temporelli lo vede ancora «ragazzino» vicino al bancone di uno stanzone, primo locale da cui sarebbe sorta una delle più importanti industrie della zona. Ma lo sguardo del poeta non si limita all’aspetto personale e investe un momento della storia di una nazione, uscita disfatta da una guerra devastante, ma capace di rimboccarsi le maniche con determinazione, con coraggio e con impegno. E proprio l’attività di sagaci imprenditori e di milioni di operai ha prodotto il benessere delle generazioni successive in un momento umanamente, moralmente ed economicamente costruttivo, basato su precisi e condivisi valori, come il lavoro, l’onestà, il desiderio di migliorare l’esistenza, il desiderio di dignità. E San Maurizio d’Opaglio deve la sua prosperità a due attività, quella dello scalpellino, oggi totalmente abbandonata, e quella delle rubinetterie: «Se hai polmoni da uomo e buone mani / ottone e migliarolo: non c’è scelta».

Eppure di fronte a quella fotografia: «’57. Anni Ruggenti» il poeta scopre non solo parte di se stesso, ma una somiglianza totale («La tua faccia e la sua sono una sola»): cambia solo il mestiere, ma gli ideali, il coraggio e la disposizione al lavoro sono iscritti in un medesimo DNA.

Con un colpo netto viene definitivamente azzerato ogni residuo di lirismo romantico come pure ogni tensione ontologica e autoreferenziale del linguaggio con tutte le tentazioni neo-orfiche o mitomoderniste, perché il poeta si inserisce in quel processo di riscoperta del reale che permette un allargamento di orizzonti verso una poesia costituzionalmente civile.

In Temporelli il recupero del legame parola-realtà non avviene per processo retorico, ma per esigenza morale e per concezione filosofica fondata sulla fiducia nei confronti della parola e nei confronti della portata conoscitiva dell’arte, cui è delegato il compito di rappresentare la contemporaneità. Il suo principale merito consiste proprio in una scrittura poetica che nel potenziamento della componente fonico-simbolica non si estranea dalla vita, ma ne dilata la rappresentazione in una pluralità di significati che trovano nell’esperienza l’elemento catalizzatore di senso.

Dopo anni di silenzio, Temporelli nel 2012 pubblica Terramadre, raccolta che, come dichiara il poeta stesso, dimostra uno «sviluppo nervoso, con improvvisi scatti anche all’indietro» di scrittura, «agglomerazioni provvisorie di poesie collassate in scritture sommerse», implose o addirittura rifiutate. Il tema del rapporto con le proprie origini, con l’emigrazione del padre dal Veneto al Piemonte («Divenne grande un’estate il ragazzo / prendendo sulle spalle il padre, dopo / l’acqua del ’51», p. 16), con la propria terra, con l’infanzia, con la morte non è nuovo, ma qui assume una centralità che si configura come metafora esistenziale: «Terramadre più che morta: / dimenticata, fa’ di questi segni // la tua ignizione, la nostra espiazione» (p. 65).

Alla base della complessa simbologia stanno due immagini, quella della rosa e quella dell’angelo, che si pongono come attuazione di un vissuto familiare che si perpetua nell’adozione dello pseudonimo poetico, destinato a perpetuare la testimonianza di ferite infantili mai rimarginate. La morte della madre (la rosa) e quella del fratellino Andrea (l’angelo) non sono vicende confinate in un lutto destinato a sbiadirsi nel tempo o a risolversi nello sviluppo sentimentale offerto dalla via, diventano elementi psichici catalizzatori di una complessa vicenda interiore che la poesia lascia intravedere in trasparenza: come la necessità di un’espiazione dal significato oscuro, la durezza di un’incomprensibile legge naturale che sottopone le creature al dolore innocente, l’impossibilità di sottrarsi al destino, l’urgenza di una parola capace di risarcire, almeno in parte o almeno nell’illusione, il vuoto della perdita e dell’abbandono, in cui è posta in gioco un’intera esistenza.

L’atteggiamento del poeta apparentemente è distaccato:

io assisto allo spettacolo da qui,
semplicemente
(…)
non attendo nessuno
non ho nulla da dire
piuttosto prendo appunti
su questa pasta d’alberi (p. 87).

In realtà, si presenta non solo come il risultato di una lunga lotta con se stesso, ma come barriera di fronte a una marea travolgente, che lo ha spinto a ricercare una comunità aggregante di carattere generazionale, mediante la quale condividere la passione per la poesia sostanziata di “sudore” e di “sangue”.

Il passaggio dalla giovinezza all’età adulta da parte di Temporelli e poeti coetanei avviene di fronte alla bara di Simone Cattaneo, drammaticamente scomparso nel 2009. La sua tragedia segna la fine di un sodalizio di letteratura e di amicizia che aveva cementato nell’Opera comune e nella rivista «Atelier» il sogno di rinnovare la poesia italiana.

Eppure, nonostante la sofferenza, Temporelli è consapevole che una simile esperienza non è trascorsa invano, anch’essa è “terramadre” che nel buio del solco e nel freddo dell’inverno prepara il rinnovato accordo tra parola poetica e vita.

(Giuliano Ladolfi, Andrea Temporelli: La fine del “lutto”, in Giuliano Ladolfi, La poesia italiana del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà, tomo V, L’Età Globalizzata, Borgomanero, Ladolfi Editore, 2015, pp. 175-183)

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