Di un personaggio del romanzo diventato reale
Si scrive, talvolta, per liberarsi dai propri fantasmi. Ma che succederebbe se i personaggi di una storia «vera, verissima, quasi inventata» cominciassero a uscire dal libro, a vivere di vita propria e addirittura a cercarti? Sì, lo so, anche questa trama è già stata elaborata. Eppure, a me sta succedendo proprio questo.
A un certo punto, dovendo scegliere i nomi di certi miei personaggi, ho pensato di aprire una vecchia antologia di poeti futuristi, cui ero affezionato, e di pescare da lì i nomi, talvolta mescolandoli un po’. Non si è trattato di un espediente puramente pratico, volevo in qualche modo, idealmente, riscattare dall’oblio alcune voci.
A un personaggio decisamente singolare, forse il più bizzarro della storia, è capitato il nome di Riccardo Averini. Ebbene, pochi giorni fa ho ricevuto un messaggio da una persona che non conoscevo. Lo trascrivo esattamente:
“Tutte le voci di questo aldilà”. Mi scusi sono interessato a sapere se il Riccardo Averini di cui parla in questo libro è mio zio, fratello di mia madre Emilia, poeta futurista che fece venire a Monselice (PD) F.T. Marinetti tra gli anni ’30 e ’40. Ne sto ricostruendo la vicenda umana e l’esperienza letteraria in contatto con le sue figlie, mie cugine. Se è così cortese da darmi una risposta mi contatti sul mio profilo facebook. Grazie, Alberto Toninello.
Ora, le circostanze sono già in assoluto straordinarie, ma contestualizzate bene: il mio romanzo è uscito da un editore visionario, di lunga esperienza, coraggioso e di gusto, ma inevitabilmente “minore” rispetto ai colossi del mercato, per cui la mia opera girerà in modo clandestino solo fra tre parenti, un vicino di casa che non vuole rogne, tre poeti cospiranti, due scrittori di genio ma dal cuore troppo fanciullesco, uno studente plagiato dal suo prof e un lettore casuale che magari mi ha confuso con un altro, a causa della quarta di copertina. Come tra i miei dodici lettori e mezzo si sia infilato anche questo signore mi risulta un mistero. Ma quando un fantasma ti appare davanti, soprattutto se ciò avviene per una tua azione, è necessario interloquire e giungere a sapere perché ti ha cercato, di che cosa ha bisogno. E chiarire che tu stavi assolutamente scherzando, quando nella storia lo descrivevi così, gli facevi fare quella figura là, gli mettevi in bocca addirittura il pensiero che, e alla fine proprio per colpa sua tutto è andato a finire proprio in quel modo lì.
Ecco, ho chiesto ad Alberto Toninello di raccontarmi un po’ delle sue ricerche. Mi piacerebbe ospitare qui il mio fantasma, per risarcire i danni alla sua reputazione dovuti alla mia improvvida voglia di giocare alle sedute spiritiche per il tramite della scrittura. Non so se il progetto si realizzerà, non dipende solo da me, ma quel che è in mio potere lo metto in pratica subito e vi trascrivo, per filo e per segno, le pagine tratte da I poeti del Futurismo 1909-1944, Scelta e apparato critico a cura di Glauco Viazzi, Milano, Longanesi, 1978, che riguardano il mio personaggio… ops, scusate, il poeta Riccardo Averini “vero, verissimo, per niente inventato”:
RICCARDO AVERINI
Anche dall’Averini, come dal Buccafusca e da altri, il rapporto uomo-macchina è visto in termini di identificazione: in Vertigine di quota, il protagonista non già adopera la macchina ma vi si collega fino a comprendervisi, secondo un meccanismo che risale almeno al Marinetti del Monoplane du Pape (cfr. je suis fondu avec mon monoplane, v. 220 del canto l). Senonché si riscontra, nell’Averini, una singolarità: questa «fusione», questa «immedesimazione nell’oggetto» è data come violazione, desiderio sacrilego, termine che implica la trasgressione di una norma, e che provoca dapprima una serie di riduzioni o sostituzioni, un restringimento dei confini anche empirici dell’esperienza. Seppur /dolce/, il rumore dei motori è rombo inesorabile, e diventa l’unica realtà. Il distacco da terra annulla non solo la concretezza del mezzo aeronautico, ma fin l’esistenza respingendolo nella «preistoria». Scompaiono, con il presente anche tutte le altre realtà percepibili. Non è quindi il cielo a sostituire la terra come spazio abitabile ottimale, come nell’aeropoesia ortodossa; è la «musica» meccanica che si sostituisce a tutto, ed al tutto, diventando il motivo centrale tematico del testo, con la sua serie di trasformazioni e metamorfosi. I dati del codice musicale o per meglio dire rumoristico si convertono in dati del codice iconico, da ossessione fonica diventano ossessione visiva, mitologia oppure mitografia favolistica, «draghi vs giganti buoni», in una conflittualità esacerbata e violenta. Chiaro che qui del vissuto conta non tanto, come nell’aeropoesia dello Scurto, l’esperienza, quanto le conseguenze; ovvio che siamo in presenza di figurazioni dell’inconscio, la / vertigine/ è più psichica che fisica, giusta processi di projezione, i quali presuppongono, o implicano, un misconoscimento, da parte del soggetto agente, cioè dell’io-scrivente, di desideri ed emozioni non dichiarati. I termini della /vertigine/ ne risultano scissi e posti all’incontro. La trasgressione suscita da un lato la figurazione emblematicamente negativa dei draghi, dall’altro pensieri ribelli, cioè positivamente i buoni giganti, e la contrapposizione è fatta risalire al referente, alla macchina, pertanto al mito che essa non solo rappresenta, ma anche genera e forma. L’Averini dunque scrive una problematica dell’esperienza in quanto fattore agente nell’area psichica e subconscia, in termini di generalizzazione (draghi=dei). Così incentra la contraddizione nel mito stesso, ma irresolubilmente (sia la macchina che l’Io risultano sconfitti dal mito solare). Quasiché ripercorresse un cammino che va dalla Conquête des Étoiles (cui stilematicamente Vertigine di quota può somigliare) a certe prove del Cavacchioli (da una filosofia cosmogonica di scontro, alla sconfitta, o quanto meno ad una coazione alla rinuncia).
Vertigine di quota
tre quattro cinque sei metri al secondo stringo sul petto il volantino docile
annega l’occhio in un desiderio sacrilego
a capofitto nella dolcezza del rombo inesorabile
il motore di sinistra è sincrono col mio cuore
regolare possente sicuro di séfuso col motore di centro è il mio cervello
equilibratore trascinatore tutto impeto
a destra la mia fantasia disegna ghirigori
di fiamma e di fumo con scoppi d’allegria
impressione di solitudine assoluta
stordimento melanconia no nooo
uhuhuhuh uhuhuh uhuhuhuh
quattrocento kilometri l’ora
la terra è il ricordo di un passato spento
archeologico senza voci
orchestra classica suscitatrice d’impressioni vivide
del suo ritmo uguale con ritorni
e riprese eterne d’uno stesso motivo
motori motori motori
nella elicoidale vertigine della profondità conquistata
l’unica realtà è il vostro canto possente
note martellate in ascensione spasmodica
assumono aspetto di draghi
terribili contro il cielo plumbeo
rimboccano le maniche milioni di giganti
a un mio cenno pronti alla zuffa cruenta
urla selvagge rantoli sento
ghigni provocazioni gesta oscene
si mescolano schiumosi nel gorgo dell’atmosfera rotta
rombo di un torrente impetuoso contro le rocce testarde
dentro esso cadenzati ritmi di eserciti in marcia
con fanfare eccitatrici e canti patriottici
e sventolio di bandiere in un polverone spiralico
scarpe scarpe chiodate
scarpe scarpe chiodate
si placa in una pausa d’attesa
gravida d’echi improvvisa
fanfara vicina riprende un acuto straziante
i draghi colossali del cielo
stanno come colonne d’un tempio dorico
lucidi di forza lottatori esperti
impassibili nei volti angolosi rugosi secolari
no nooo con una sottile sottile puntata ironia
nelle emanazioni fluide verdi dello sguardo protervo aduno i miei buoni giganti
amici non urlate la vostra rabbia bavosa
se i pugni non basteranno i vostri pugni di bronzo
adoperate le subdole armi
eserciti hanno gli dei con fanfare e bandiere
caporali con giubbe decorate da segni di valore
istruiti li hanno nei campi di marte del cielo
esercitati li hanno ad ogni cimento
per lunghi anni con marce faticose con galoppate
all’infinito dentro le nubi assordate
miei pensieri ribelli all’aquiescenza
miei buoni giganti io non vi do nessuna consegna
ma non dovete morire adoperate le subdole armi
mi copre un rullo di tamburi
tarà taratà tarà taratà tarà taratà
convulso come il singulto di un morente
angoscioso come un urlo di sirene
che annunciano il pericolo sulla città
rombano i motori perfidi una sfida impunibile
fanno eco fanciulli incoscienti con le mani per megafono
voci bianche pure non intrise dal veleno dei baci
sghignazzanti querule che imita il gallo
la pecora l’asino lo sciacallo
mi perdo nella dolcezza del rombo inesorabile
mio trimotore
hai nelle tue parole una certezza che io t’ho dato
una sensibilità di poeta nuovo
non dai una nota che non t’esprima
perfido cuore esperto di mille malizie
artista incomparabile
è mia mia la tua originalità futurista
ti ho inciso il mio nome di battaglia
sul dorso ricurvo mentre fremevi nella morsa
squassato da mille forze contrarie dentro e fuori
lo porterai per sempre nella certezza della tua forza
nella esuberanza della tua giovinezza eterna
che ha gioie d’azzurro più intenso
che non le montagne più alte
nel placido incedere di sgominatore intoccabile
lo urlerai se mai nello schianto della morte
nel vortice della tua coda tarpata
sibilante in uno sfaglio di fuoco fumoso
fiaccato nel tuo orgoglio d’essere possente
prepotente inesorabile come un dio greco
la battaglia si scatena furibonda
l’urto ha l’impeto d’un desiderio di voluttà
cuneo contro cuneo mazza contro mazza
scivola e rimbalza incrina e stride
come in uno scintillio di faville
dirompe in un fuoco artificiale di urla in una girandola di braccia attanagliate
con caldo presentimento d’azzurro morde le mie tempie
sprono i miei giganti primo fra i primi
i pensieri sono più tardi della materia pesante
sublimata dallo slancio
i draghi bigi ora frizzano di bile
sfuggono alla scure dei motori
con agili mosse di pugilatore in guardia
se rompo la barriera formidabile con questo slancio
chi mi fermerà più
ecco i miei giganti sono intorno a me
impazziti gridano il mio nome che rintrona
che rimbomba terribile centuplicato dagli echi
e semina un terrore panico indescrivibile
cadono i draghi bigi dei cumuli
piegano gli eserciti addestrati dei cirri
in iscompiglio in iscompiglio in iscompiglio
SEIMILA METRI SETTEMILA METRI OTTOMILA METRI
leggo sul viso diafano del mio motorista
la gioia della quota insopportabile
ancora stringo sul petto il volantino docile
ora m’acceca il sole in un abbraccio di forza
che costringe la mia sfida
a un urlo di rinunzia
(L’immagine di copertina riproduce una installazione di Davide Coltro)
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!