Bagnasco lo sciamano cita voci dell’aldilà
Ci sono molti modi di leggere e di recensire un libro. Claudio Bagnasco ha scelto di dialogare con il mio romanzo, di rimuginarne alcuni frammenti, in parte per lasciarsi da essi interrogare in parte per esprimere, per contrasto, il proprio pensiero, nei silenzi dei passaggi, nelle omissioni luminose.
Sceglie insomma la via della mimesi e si rintana egli stesso, cerca la delicatezza di una sospensione piuttosto che la frontalità di un giudizio. C’è dunque qualcosa che vuol suggerirmi senza entrare nel merito. Ma se fra la manciata di scrittori cui ho chiesto al mio editore di inviare il libro c’è anche lui è perché mi aspettavo esprimesse certe considerazioni che mi prefiguravo io stesso, mettendomi nei suoi panni. Gliele ho poi estorte per lettera, e me le tengo care. È possibile anzi che ci torni su, sto solo aspettando che sedimentino insieme ad altre considerazioni di qualche lettore generoso.
Intanto, ecco l’articoletto di Claudio, comparso inizialmente qui, sul suo blog “Gli squadernauti”:
USCIRE DALLE TANE
Il ragionamento, l’intelligenza, l’ironia, sono tane. Per uscire dalle tane bisognerebbe scrivere senza mai invaghirsi della propria scrittura, così come i luoghi che ci hanno reso felici non andrebbero mai rivisti. Indulgere alla bellezza data o ricevuta equivale a celebrarsi: “Non si deve mai tornare nei luoghi in cui si è stati felici”, p. 245.
La scrittura, come ogni gesto davvero compiuto, è separazione irrimediabile da una parte di sé. Ogni tentativo di recupero, di riavvicinamento, ne vanifica la compiutezza: “Non ho bisogno di verificare il valore di quello che ho scritto”, p. 57.
Un gesto, poi, è vero solo se modifica il mondo: “Perché l’autore ha scritto questo libro, che non aggiunge niente alla realtà e non muta la percezione delle altre opere?”, p. 60.
O meglio, ogni vero gesto nasce dal desiderio di modificare il mondo: “Gli adulti, invece, hanno perso la bellezza e sono prevedibili, solo i giovani ti sanno sorprendere. Quando cominciano a imparare, sono in grado di arrivare all’estasi, perché studiano per uscire da sé stessi. Non sono ancora prigionieri dell’automatismo della vita. Loro sono ancora potenzialmente tutto. Devono ancora scegliere. Possono ancora scegliere”, (p. 99, corsivo nel testo).
Così dovrebbe essere per ogni opera.
Oppure no, oppure la vera scrittura non è un gesto primigenio, fondativo; al contrario, è sguardo estremo o postumo sul mondo: “Si scrive per evitare il suicidio. […] Non si scrive per guarire, si scrivono versi perché si è già morti, si impugna la penna per uccidere tutte le voci di questo aldilà”, p. 256.
Allora quell’uscire dalle tane non è brama di una luce vivifica, ma del bagliore finale.
(Citazioni e suggestioni tratte da Andrea Temporelli, Tutte le voci di questo aldilà, Guaraldi).
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