Paul Celan

Paul Celan

Se mi si chiedesse, a bruciapelo, di segnalare un paio di titoli di poesia davvero importanti usciti in Italia negli ultimi 5 anni, credo che risponderei: nessuno. Ricordo diversi buoni libri, certo, ma nessuno che lasci il segno, nessuno che apra una prospettiva nuova quantomeno per l’autore stesso.

Se mi sono perso qualcosa, rimedierò quanto prima. Intanto, in assenza di segnali di creatività poetica, rallegriamoci per la prontezza di Dario Borso nel tradurre La sabbia delle urne di Paul Celan, in assoluto uno dei più grandi poeti del Novecento.

Dalla quarta di copertina, ecco la storia del libro:

Fra il 1947 e il 1948, dopo avere lasciato Bucarest, Celan visse qualche mese a Vienna e cercò di pubblicare la sua prima raccolta di poesie. Un tentativo iniziale abortí in bozze, ma un secondo sembrò andare a buon fine e il libro fu stampato in 500 copie numerate. Con questo libro Celan intendeva esordire sulla scena letteraria di lingua tedesca, ma quando si accorse della quantità di refusi impose all’editore di non distribuire il volume. Dunque La sabbia delle urne è un libro fantasma, che Celan non ristampò mai, ma fece rifluire parzialmente in pubblicazioni successive. Rimase per lui l’autentico inizio della sua opera poetica, tanto che nel 1970, per le progettate Opere complete, Celan l’aveva indicato come testo d’apertura. Anche questo progetto fu interrotto, e questa volta per una ragione piú drammatica: il suicidio dell’autore. La raccolta è stata recuperata solo in anni recenti nell’edizione critica pubblicata da Suhrkamp. In Italia, e nel mondo, viene tradotta ora per la prima volta. Vi sono già presenti i temi e i modi poetici delle raccolte successive, ma la lingua è piú trasparente e non ancora sintatticamente terremotata. È il libro ideale, non solo storicamente e filologicamente, per un primo approccio al grande poeta tedesco.

Per l’occasione, riprendo un intervento critico che scrissi in occasione all’uscita del meridiano della Mondadori, che accoglie quasi interamente la sua produzione poetica.

Realismo ermetico
ovvero
La lirica di Paul Celan

Senza la presenza della possibilità del crollo niente è geniale nelle opere d’arte.
Adorno

L’encomiabile dedizione critica di Giuseppe Bevilacqua (pur senza entrare nel merito della qualità della traduzione, su cui mi sembrano sollevabili diverse riserve) consente oggi di accostarsi all’intera (almeno secondo le intenzioni dell’autore) opera poetica di Paul Celan nella prestigiosa veste editoriale dei Meridiani. La rilevanza culturale dell’occasione, che non serve nemmeno rimarcare, non si chiude nell’autoreferenzialità accademica dell’evento prestigioso, ma si innerva sulla viva necessità di confronto con una delle voci più alte del Secondo Novecento europeo. Questa vivezza, attestata anche dal fervore critico di molti esegeti e ancor più dei moltissimi commentatori en poète della lirica celaniana, dovrebbe essere segno sufficiente di classicità acquisita. Eppure, soprattutto per gli autori moderni, tale categoria è sottoposta ai dilemmi insiti nell’idea stessa di modernità dell’arte, di cui lo stesso Celan si fece portavoce nel suo più celebre intervento teorico intitolato Il meridiano.
In tale sede, prendendo l’abbrivo in particolare da quell’emblematico personaggio romantico rappresentato dal Lenz buchneriano, Celan focalizzava la scissione “moderna” (originata proprio dal movimento romantico) di Arte e Poesia. Ogni difficoltà di valutazione della poesia di Celan deriva dal tipo di giudizio con cui ci si rapporta a tale scissione. Negando la frizione fra Arte e Poesia per un’idea classica (anzi classicista) della scrittura, facendo cioè del Romanticismo niente di più di una burrascosa parentesi, oppure lenendo le conseguenze con un atteggiamento moderato, come se simili travagli fossero naturali momenti dell’evoluzione culturale, da sempre animata da ciclici impulsi di rinnovamento e di ritorno all’ordine, o ancora credendo che, effettivamente, qualcosa di storico è accaduto con conseguenze non eludibili, si stravolgono decisamente le prospettive di accostamento alla lirica di Celan.
La Poesia, egli ci dice, nasce dalla constatazione di un evento, dall’irruzione della storia dentro la tradizione. «Qualcosa accade», e solo questo accadere rivitalizza e rende necessaria (tragica) la parola, mentre “tutto il resto è letteratura”. Anzi, la parola poetica cessa di essere memoria di un evento e si fa evento. Potremmo dire: da una parte resta tutto ciò che è puro estetismo, di competenza dell’Arte (o della letteratura, della poetica, del discorso infinito della contemplazione estetica), mentre dall’altra c’è la verità, di competenza della poesia: La verità della poesia è, appunto, il titolo del volume einaudiano che raccoglie, sempre a cura di Bevilacqua, le prose di Celan.
L’oscurità necessaria della lirica contemporanea deriva da questo allontanamento o esilio della parola rispetto alle attese, alle misure stabilite a priori, alla giurisdizione del bello già dato e da perpetuare; esilio che comporta l’avventurarsi oltre il naturalismo, per cogliere ciò che sfugge allo sguardo di Medusa. Oltre la mimesi, la poesia si scosta dalla staticità e si insedia nell’utopia del meridiano: il suo statuto non concerne il creato, ma la creazione.
Paradossalmente, dietro a simili dichiarazioni (ma abbiamo ampiamente chiosato le affermazioni non esplicite di Celan) c’è l’opposto di un’intuizione filosofica: l’utopia del meridiano è l’hic et nunc dell’autore: l’assoluto, ci insegna il poeta rumeno, non si insegue oltre la propria biografia, ma si inscrive nella storia. L’oscurità è la conseguenza dell’estrema concretezza della nominazione e del rifiuto della metafora, perché solo mani veraci possono tentare la poesia oltre le soluzioni offerte dal pentagramma del bellettrismo. Il poeta deve farsi, come il Lenz buchneriano e come ogni figura moderna, inquieto viaggiatore, senza bagagli, immerso nel paesaggio: «dove vi è sicuro possesso di un “paesaggio” (Landschaft, parola ricorrente anche nel discorso di Brema per indicare la patria perduta), lì l’uomo può farsi valere per quello che egli specificamente è, per la sua specifica e singolare umanità; e quindi la poesia da lui prodotta rifletterà una verità cogente, brillerà di una sua evidenza incontrovertibile e tale da far coincidere, come è di ogni grande poesia, singolarità e universalità» (Bevilacqua). Ma come fare i conti con la memoria? Questo è il dramma di Celan: il “già stato” torna a mordere la creazione, non può ridursi a mero «attributo, più o meno facilmente sottraibile, del sostanziale: bensì qualcosa che quella essenza muta nella sua sostanzialità, possente antesignano di una perenne mutazione»: questa la remora avanzata a chi propone la ragione a illuminare il significato primordiale delle cose, per cui «Un albero dovrebbe divenire nuovamente un albero, il suo ramo – al quale in tante guerre furono impiccati i ribelli – un ramo fiorito, quando fosse primavera» (cito da Egar Jené e il sogno del sogno). Si tratta della questione implicita fin dal titolo della sua prima raccolta, Papavero e memoria: abbandono alla vita, ai suoi colori, all’entusiasmo della creazione fino all’allucinazione dell’oppio, oppure paralisi di fronte allo sguardo di Medusa del ricordo?
Forse davvero il suicidio del poeta ci invita a decifrare qualcosa che riguarda il destino della poesia, non solo il destino di un’anima e del suo personale travaglio.

«Queste poesie recano destino, hanno destino. Con ciò non voglio dire che esse sono biografia; di tutto questo non so nulla, ci sarà indubbiamente, ma io non sono in grado di saperlo; e tale biografia in ogni caso è lontana, fuori della mia portata. Perciò non mi riferisco a un contesto di vita, che non conosco; ma sento che vi è qualcosa del genere, sento un peso, un gravame, un coraggio, una tristezza, sento autocontrollo e urgenza e foga. Può darsi benissimo che questa o quella poesia, così come tento di spiegarmela, ascoltarla e leggerla, io la intenda in modo errato; può darsi che l’intenda in modo abbastanza difforme da come è stata concepita; e anche ad altri accadrà la stessa cosa. Ma questo non fa niente, questo non è tanto rilevante rispetto al dato di fatto che queste poesie ti stanno addosso, t’incalzano, ti costringono in un modo o nell’altro a immaginare qualcosa. Lo scrittore non può sapere quali immagini gli evochi nell’animo altrui; ma qualche immagine, non importa di che genere, qualche immagine egli deve, deve necessariamente suscitarla. Come saranno queste immagini, e il fatto che saranno sempre altre, può soltanto presumerlo; di decidere su questo punto lo scrittore non ha facoltà; deve lasciarla a quanto scritto».
Questa citazione di Kästner sembrerebbe risolvere il dubbio circa la “classicità” dell’opera celaniana e Bevilacqua, che pure si pone la questione nel saggio introduttivo alle poesie, ne risulta a tal punto fedele da eccedere nella parsimonia dell’apparato esplicativo ai singoli testi. Al lettore comunque non sfuggirà la sensazione fondamentale che le manque de clarté delle liriche discenda da una radicale volontà di precisione, da un’istanza di realismo, insomma. Anche tutto ciò rende il confronto con Celan una viva necessità, a causa di quella grammatica, si dica pure orfica, che vorrebbe nascere dalla sua poesia ma che infine non ne regge il confronto, come un repertorio astratto e autonomo di figure pseudofilosofiche che hanno equivocato, magari sulla spinta di suggestioni heideggeriane, il realismo di Celan. Basti confrontare la musica sorda e profonda della sua opera, di durezza adamantina, con la melodiosità a tratti anche crepuscolare, prossima piuttosto a Rilke che a Mandel’štam (per rifarsi a due modelli del poeta rumeno), che contraddistingue gli autori italiani che si sono fatti interpreti dell’eredità celaniana (e penso soprattutto a Carifi). La notte, l’ombra, la pietra, l’occhio, la neve, la casa, le stelle, la rosa e ogni altra figura di Celan non si può comprendere prescindendo dal suo ebraismo, dai molteplici innesti di diverse tradizioni che ne formano il sostrato culturale, e soprattutto dalle coordinate storico-biografiche. La soglia del titolo della seconda raccolta (Di soglia in soglia) è anzitutto sineddoche per casa con limpido riferimento alle tappe dell’esilio del poeta fino alla costituzione di una propria famiglia a Parigi. Senza aver saldamente presente questo fatto si rimarrebbe ancor più spiazzati dall’oscillare della silloge da un’iniziale pienezza di vita, che promanano le poesie d’amore, a un senso più tragico dell’esistenza che trasfigura gli stessi emblemi imprimendo loro un sotterraneo slittamento semantico, lungo l’ampio ventaglio polisemico che già attivavano, a scapito dei ferenti espliciti e a vantaggio invece delle spinte interiori, dei ricordi più remoti. L’iterazione quasi ossessiva di tali immagini lungo la propria opera favorisce l’equivoco di una presa sul reale sempre meno sicura, al posto della quale porre in essere l’ardua solidarietà simbolica complessiva dell’immaginario poetico. Eppure, la fedeltà al proprio timbro vocale dovrebbe essere il dato probante del realismo celaniano, la costante prossimità della sua parola all’annichilimento (in questo il suo ebraismo si coniuga con la tradizione occidentale moderna), cui si riscatta rivolgendosi ostinatamente a un tu, a uno spazio abitabile, a una dimensione umana di dialogo. L’agonia della parola diventa così lo stigma dell’autenticità: perché qualcosa è accaduto davvero e continua ad accadere, e bisogna restare desti contro ogni tentazione melodica, contro ogni inedita e più sottile mistificazione.
Questa è la Svolta del respiro (Atemwende), il cruciale e notturno passaggio che battezza la parola e la invia verso la terra promessa del senso. Aprire gli occhi sul deserto, intrecciando una corona di nere foglie (altro che alloro!) per trattenere l’acqua della memoria diventa la scelta necessaria dell’homo quaerens, che non si rappresenta un mondo a sua misura ma indaga frontalmente anche il dolore. «Tutti i poeti sono ebrei» è la citazione di Celan che con leggera forzatura radicalizza un’espressione di Marina Cvetaeva. Tale svolta è impressa finanche nello pseudonimo del poeta, che rovescia il cognome tedesco (Antschel) pronunciato secondo la dizione rumena (Ancel). Così Celan, «l’ultimo a parlare» (Blanchot) è anche il primo a riprendere parola, a ridare storia alla nominazione originaria, perché la realtà non è un dato, ma il frutto della creazione. Restando rigorosamente fedele alla pratica della scrittura, respingendo il naufragio della pagina bianca, Celan si sottrae all’occhio di Medusa e alla pietrificante, indicibile contemplazione del dolore: «il poema parla, vivaddio!». Ogni lirica è un atto di amore per il futuro e di sottrazione al silenzio e all’assurdo. Ogni verso è un passo nel deserto.

Secondo la tradizione ebraica, il nulla si insidia nella creazione nel momento in cui Dio si contrae (Tzimtzùm) per poi creare, da dentro se stesso, il mondo. È Nelly Sachs a ricordare in una lettera a Celan questo esiliarsi di Dio dal mondo, cogliendo bene il punto di svolta del respiro, il crinale in cui anche la poesia prende coscienza dell’evento per farsi evento, separandosi dall’Arte. È alla ferita (storica) del nulla, e cioè alla piaga individuale e collettiva, cui si deve restare prossimi perché la melodia, la metafora, la bellezza lascino il posto al vero. Il poeta parla dal centro del dramma, non produce metafore o belle forme da tramandare. Può anzi accostarsi all’orrido, all’informale. Per questo Celan finirà per disconoscere persino la sua poesia più famosa, Todesfuge, per liberarsi da ogni residua elegia di matrice rilkiana, «ricorrendo a una duplice strategia. Da un lato attua uno smembramento sintattico e lessicale che instaura relazioni inedite tra gli elementi del materiale usato, facendo saltare una presunta monolinearità della lingua e della poesia. Dall’altro lato agisce per sottrazione, sconnette ellitticamente il tessuto di rapporti concreti da cui pure – come è stato provato – le immagini derivano, lasciando emergere pochi emblematici nuclei, veri e propri topoi […] posti in un estremo conato di fiducia, come cartelli indicatori a fissare dei saldi punti direzionali, comunque indispensabili» (Scotini). Nello smembramento sintattico, negli interstizi della catena metonimica della lirica, nella Grata di parole, insomma, balugina la domanda sempre aperta intorno al senso e alla direzione della parola poetica e delle sue immagini. L’ermetismo si fa accogliente, creando spazio per il dialogo con l’altro (il tu verso cui si orienta il testo) con la soppressione di tutte le congiunture inessenziali, dando vita a un dettato quasi esclusivamente nominale, privo di aggettivazione e preferibilmente sintonizzato sull’infinito chiamando così ognuno a partecipare al tempo della poesia.
Abbandonate le dimore dell’Arte, la poesia diviene irriconoscibile come tale, e in questo esilio stringe ancor più il proprio corpo al paesaggio, anela a farsi paesaggio. La lingua è la patria del poeta. La sua parola cifrata è Cristallo di fiato (Atemkristall), la sua oscurità splendente e fragile, non scardinabile ma nemmeno riducibile a pura seduzione fonica. Insediare la voce nell’attimo di sospensione del respiro significa non permettere che la nominazione sia scontata e prosegua senza prendere coscienza di sé stessa, rimanendo per ciò vittima di tutte le manipolazioni possibili o dell’acquiescenza dell’uomo. In quell’istante di non ritorno, decidere di ridonare la voce, non cedendo all’assoluto, significa tuttavia sottrarsi al ritmo di ogni discorso scontato, anzi sottrarsi a ogni ritmo tout court e restare fiato, respiro, gesto di verità comunque sovversivo. «Nello spazio dell’Atemwende la parola poetica “si sottrae e sta in attesa” e nella pausa di respiro contende al Meister aus Deutschland, al maestro dello sterminio, il violento possesso dello stretto passaggio di morte» (Carifi).
Scrivere, dopo Auschwitz, è sempre un modo per tentare di riconciliarsi con la morte.

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