Poeti contemporanei: Luigi Aliprandi
Ma questo, poi, che fine avrà fatto?
Il titolo d’esordio di Aliprandi (La sposa perfetta, curiosamente identico a quello di una raccolta di Alessandro Carrera), la citazione di Girolamo Fontanella che pone sulla soglia del libro («Sia premio il bacio al mio cantar dovuto») e la dedica che segue («per Annalisa») informano subito il lettore circa la natura di canzoniere assunta dalla silloge.
Anche l’architettura complessiva dell’opera ripristina il percorso ideale di una fenomenologia amorosa, senza che questa venga stigmatizzata nei suoi tratti esteriori (pensiamo agli interventi di Amore e di altre comparse funziali allo snodo della vicenda, qui invece completamente assorbita dalla figura femminile nelle sue pur molteplici manifestazioni), fino all’esito che congiunge perdita e consacrazione dell’amata, fallimento e confermazione spirituale del poeta. Persino la mancata partizione in sottosezioni, per sancire ad esempio il fondamentale passaggio dal canto di lode per la donna in sua presenza a quello protratto in sua assenza, si accoglie come retaggio petrarchesco. In un secondo tempo, ci si potrà piuttosto sorprendere per la libertà strutturale dei componimenti: in effetti il poeta, pur alludendo sempre a un codice formale di riferimento, si conforma solo in talune circostanze, discrete e strategicamente dosate, a dispositivi strofici canonici e anche in questi casi preferisce la duttile quartina e i distici di chiusura al sonetto. Eppure, non c’è alcun dubbio che il poeta si inserisca bene all’interno di quel gusto neo-metrico che oggi può ben dirsi maniera dominante, che riscopre il tema amoroso come motivo prediletto, e talora pretestuoso, di celebrazione poetica. Tutto ciò aiuta a distinguere fra le due attuali tendenze stilistiche, che possono talora collimare e intrecciarsi, ma che nascono a ben vedere da premesse differenti: da una parte (Valduga, Raboni) abbiamo il più sperimentale e barocco corpo a corpo del poeta con gli istituti metrici, nelle sue varianti eclettica o costante, che può degenerare fino alla parodia e al funambolismo espressionistico e neoavanguardistico; dall’altra (Dal Bianco) abbiamo un classicismo più sottile, che predilige, rispetto al meccanico rispristino delle forme chiuse, un’attenta selezione lessicale che dà vita a un rastremato equilibrio razionale, a un formalismo più apollineo e sfuggente.
La composizione che apre il canzoniere di Aliprandi è una dichiarazione di poetica, con il suo esplicito richiamarsi a «un modo più basso, più leggero / quasi una tecnica della tenerezza / da pensarsi a sera o prima / del sonno, a uso e consumo / della tua bellezza». La rima, già di per sé coraggiosa nella sua facile suggestione, impone con candore sfrontato (consono a quello della scuola romana) due termini fondamentali a definire il tono e il repertorio lessicale dell’opera: tenerezza e bellezza, che definiscono rispettivamente la dispozione di canto, entro uno scenario circoscritto e minimalista, e il motivo tradizionale: già si rispecchiano qui il poeta e la donna. Quest’ultima viene subito risolta platonicamente a puro tramite di forze superiori che, a motivo delle virtù intrinseche che incarna, innesca un «incantesimo», un «sortilegio», fino a generare nel poeta «paura» e avviare un irreversivibile, per quanto tormentato, processo di crescita. Naturalmente la donna, che può sdoppiarsi di volta in volta per l’ipostasi della propria «ombra» e del proprio «nome», rivelando un’essenza al tempo stesso semplice e complessa, cioè armoniosamente ricca, non ha alcuna responsabilità del ruolo che si trova a svolgere: «Chiamata a dare conto dei tuoi sensi / […] / hai ubbidito a una tua legge di natura / e senza tempo né troppa convinzione / hai accertato dove alloggiava il falso». Della propria imperturbabilità, così crudele all’amante, la donna non ha colpa: «Unicamente vivi per te […] / davvero più non ami, più non piangi / essendo tu l’amore, essendo il pianto». Una simile levigatezza formale nei momenti più concettosi («Ti precedi / […] / dove sarai già eri») potrà ricordare il calligrafico Magrelli («e sto dove non stavo / dove prima soffiavo»), mentre nei tratti di maggiore accensione sensuale («dammi la sorte / di quella sigaretta, mio Dio! / e consumarmi alle sue labbra anch’io») ricorderà le movenze di Valduga, ma a ben vedere simili coincidenze si risolveranno nel più generico debito contratto con gli stilemi, le raffigurazioni, gli emblemi della tradizione: le pene d’amore si inscrivono nella cornice fittizia, «con tutta la nostra mitologia», di una casistica di sguardi e sorrisi che impone un’esperienza religiosa di preghiera e di lode (con relativo bagaglio lessicale di grazia, perdono, speranza ecc.), seppure resa con essenzialità raffinata, tra solipsismo e vera offerta: «Unicamente scrivo per me, per la mia paura […] Scrivo per lei, anche se non mi sente / per la sua vita e per chi se la prende / biografo di nulla, in una grammatica del niente». Piuttosto, sarà interessante osservare che il percorso stilnovistico dell’autore, che accoglie sintagmi di sapore leopardiano e dantesco («fatti presente e viva», «qui si conviene / al parlare chiaro»), non approda nel nostro secolo all’esperienza poetica di Montale, come sarebbe lecito supporre, ma a quella di Luzi: si veda, giusto sul crinale della raccolta, l’invito rivolto alla donna: Resta dove sei, memore probabilmente di un fondamentale passaggio del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini («Rimani dove sei, ti prego»), ciò fa sì che si recuperi a questo punto anche l’immagine, ben luziana, di un femminino legato «ai riti domestici», angelo a suo modo «distante / dal cielo e dalla terra». Il punto nevralgico citato, che in sé stesso potrebbe apparire pretestuoso, è confermato da altri passaggi: si tenga presente anzi che alla poesia citata ne segue immediatamente un’altra il cui finale ha decisamente il passo tipico dell’ultimo Luzi, perfino a livello tipografico; si aggiungano poi le doppie interrogative a inizio o a chiusura di componimento che si rinvengono in tutta la raccolta. Probabilmente il fascino esercitato dall’insigne modello avrà inciso a rafforzare quella sorta di euforia espressiva che non disdegna un’aggettivazione insistita e l’inserimento di incisi per assecondare le sequenze melodiche più effusive. Peraltro, uno spiccato gusto per le desinenze provenzaleggianti (vocaboli in -anza: «disperanza», e -aggio: «coraggio») è già sintomatico del reale ossequio della fantasia poetica alla tradizione lirica: la donna, cui rimandano i relativi senhal («Hai per cognome una città / del sud») è addirittura «onusta di bellezza» e la sua rituale epifania, che si appoggia magari secentescamente allo specchio, dà vita a un rituale d’amore davvero manierato: «anima santa e senza più difesa / “lo giuro, sette giorni di digiuno // e poi, sapessi poi con che tristezza…” / e chi ti sente più, ma chi ti crede / crisma per me dell’unica mia fede / esposta e vinta, sepolcro di bellezza». Si giunge così alla piena effusione di un amor de lonh: «Vestita / di quel soffio di luce che accompagna / chi non giunge a patti con la propria incandescenza / se ne va, lasciandoti in attesa / all’apice del niente, alla vigilia di non so che cosa, / abbracciando il dolore come si abbraccia una sposa // arde la mente? / il cuore non riposa?». Quello che segue al passaggio della donna «è la sua persona / fatta tradizione, fatta fede»; in fine la sua perfetta ipostasi, l’alta e diretta invocazione acquista valore poetico e umano per sé stessa: «Annalisa, farina del grano di Dio […] / nel suo stesso nome / figura e stemma di essere e di amare».
(da Poeti nel limbo)
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