Poeti contemporanei: Vito Bonito
(La foto è di Dino Ignani.
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Vitaniello Bonito è poeta dalla voce concentratissima, che opera nella progressiva distillazione e decantazione dei testi: il suo è un procedere insieme conchiuso e aperto, che dal minimo dettaglio di un componimento può rimandare alla struttura macrotestuale, come se l’obliterazione del superfluo, e soprattutto delle occasioni biografiche, durante il percorso formativo dell’opera, incastonasse ogni frammento su un sottofondo continuo, derivato dalla fusione dei diversi motivi originari.
Tale continuum sempre implicito è il limite cui tendono le sue poesie: limite di estrema rarefazione linguistica e concettuale, cui i temi prediletti del gelo e dello sguardo sembrano rinviare. Per questa tensione gnoseologica, la sua poesia si potrebbe far risalire a un’area simbolista o ermetica, di derivazione insomma romantica, e fare con Bertoni (si veda la sua puntuale postfazione a Distanza di neve) i nomi di Celan e Bonnefoy, per esempio. E già Puccetti, nella prefazione a Fuoricasa, non esitava a definirlo un poeta «orfico»: «in lui il verso ha un valore di oracolo, un valore drammaticamente formulare, e i margini della pagina sono duri e renitenti, sono un divieto, una soglia di disfacimento, “perimetri del tempo” per dirla con Bonito stesso. All’opera è una fenomenologia poetante: in luoghi assolutizzati dello spazio eventi della luce e dell’ombra, sinonimie del varco (le “porte” bonitiane!), dell’intus e dell’aperto».
Eppure, questo limite bianco, questa regione di assenza, ha allo stesso tempo un fondamento più concreto, minerale, barocco, si vorrebbe dire, se non si temesse l’ovvietà del riferimento, considerati gli studi accademici dell’autore. Anzitutto, delineato il polo verso cui la poesia si orienta, non devono andar perse le tracce del motivo biografico, delle «cicatrici che si incidono nel tessuto vivo della scrittura» (Lorenzini). Nella evidente comunanza di emblemi fra i versi del giovane bolognese e quella della linea definita orfica (la distanza, l’assenza, il bianco dell’assoluto, la perdita, la filialità, la soglia…), il valore letterario si gioca nella capacità di rendere giustizia alla direzione dello slancio nativo, di mantenere cioè il timbro dell’esperienza concreta, in grado di sottrarre la scrittura a un’estenuazione di maniera scaturita dal culto di vacue figure mentali.
Anche una sommaria analisi delle varianti generati dai rimbalzi di voce, dai riflussi che derivano da una simile tensione creativa (che si traduce in tensione stilistica), può rendere conto di tale dinamica. Così la sequenza Fiori secchi, composta da tredici passaggi, non solo nella raccolta La voce che manca ruba il titolo a una sezione che nel collettivo Fuoricasa le era contigua, I pochi sogni, ma si riduce a cinque passaggi, per lo più ritoccati, con l’aggiunta di un breve frammento finale; l’unico testo trattenuto dall’originaria redazione de I pochi sogni diventa il primo frammento della collana Veroniche, sempre compresa nella silloge La misura dei giorni (titolo che già suggerisce la serialità tipica delle piste tematiche in cui si divarica il lavoro di Bonito). Quest’ultima serie trattiene, dei quattro passaggi originari, soltanto il secondo, aggiungendo il già citato frammento dalla prima stesura de I pochi sogni, un altro frammento (molto revisionato: «Il vetro che tentavi / di trapassare ombra pallidamente / audace o farfalla che si slabbra / nel nirvana ustorio d’una luce» < «Il vetro che tentavi / ombra pallidamente audace / o farfalla che si slabbra senza luce / d’una luce a te ustione») dai Fiori secchi e inglobando la poesia a sé stante che dava il titolo alla silloge nel collettivo bolognese, ridotta però quasi alla metà dei versi (non può considerarsi una revisione, ma una vera e propria riscrittura, il quarto frammento nella prima stesura di Veroniche, molto mutato nella raccolta successiva: «Grigie farfalle depongono / ombre tra la polvere / dove si muove una vita / un atroce sforzo di morire» < «Vanno e vengono spenti / nel volto fuochi tra le porte / in ombre di grigie farfalle»). Il poeta dunque si trova a comporre, scomporre e ricomporre i pezzi del suo mosaico, come se fosse consapevole del fatto che esso dovrà risolversi entro un più vasto progetto di cui per ora si percepiscono i contorni in modo assai indefinito. È probabilmente un desiderio di sintesi finale, forse addirittura lo spettro mallarmeano di un libro totale a fargli provare diverse soluzioni che portino a sintesi le figure poetiche giustapposte (per esempio quella del Segretario o quella dominante della madre).
Lo scenario che viene costantemente evocato è un interno metafisico, con il fitto ordito di stanze, porte, finestre, spazi illuminati dalla fredda luce della morte. Il ricordo della madre e il recupero della sua voce (la voce che manca al poeta e che costantemente lo assilla) sono il motivo che risveglia il gioco delle ombre e delle presenze, delle istantanee appercezioni di oggetti, luoghi e scene, investiti del valore di archetipi. Il tema della distanza, dunque, ha in Bonito una forte presa sul mondo, trattandosi non di mero tema filosofico-letterario, ma di dato biografico (forse pure riconducibile allo sradicamento del poeta dalla terra natale); il gelo e l’assenza sono precisi rinvii all’esperienza della perdita e dell’alienazione nel mondo contemporaneo; la soglia che separa e allo stesso tempo unisce il corporeo all’incorporeo è la morte, esistenzialmente sperimentata. Ciò ovviamente non esclude la derivazione di questi temi da fonti letterarie; per esempio, lo scenario di fondo, costituito dalle stanze in cui lo sguardo si esilia assediato dal gelo si può facilmente ricondurre alla poesia di Cosimo Ortesta e precisamente al suo Nel progetto di un freddo perenne, oppure i riferimenti anatomici e in particolare alla mente e al sistema nervoso, riprende e personalizza determinati luoghi della poetica sensistica di Magrelli.
In questo gioco di riflessi la poesia di Bonito diventa un amalgama di echi altrui e di sedimentazioni personali. Come già osservato, i componimenti si strutturano per lo più come serie tendenzialmente aperta, di fascinose intermittenze, di lacerti linguistici pulsanti e polisemici, finanche espressionistici. La misura, sia dei singoli passaggi sia delle poesie a sé stanti, è per lo più breve, così come raramente il verso raggiunge e supera l’endecasillabo. Indice della forza centripeta che conduce al limite dell’implosione è la fusione sintattica raggiunta per mezzo degli iperbati (si confrontino queste due versioni: «Vibrano le rughe delle mani / se un raggio di sole scompone / la traccia incorporea del domani» < «Vibrano le rughe delle mani / se un raggio di sole incorporea / scompone la traccia del domani»), delle conduplicationes, degli enjambements e della quasi totale soppressione dei segni di interpunzione, presenti solo dove strettamente necessari. Il risultato è una densità testuale talvolta prossima al nonsense o comunque all’impenetrabilità, in particolare in punti di evidente sfasatura metrica e grammaticale («Manda luce chi perde / la sua vita non io / non io cenere respirare / con fatica assorbire», «Mai così passaggio fu veglia d’acqua / al tempo del mai luce profumato / da corpo all’urto breve lume / dei corpi in sé annegati onnipresenza // nei muri d’anime al raduno» ecc.). La ricerca tuttavia non si abbassa del tutto alla temperatura algida e intellettualistica tipica di registri espressivi ironici e sperimentalisti, ma resta sempre animata da un ardore di fondo, da una reiterata promessa di senso. È tale “serietà” a giustificare l’alternanza fra tonalità e strategie diverse, che vanno dal cantabile (con l’uso caproniano di un fitto contrappunto di rime e assonanze o di ripetizioni strategiche e ossessive) al patetico («“Cos’è figlio mio, / cos’è che ti tormenta? / Forse la luce che non riesci / a guardare? Le mie mani / raccolte sul tuo volto? / Da qui si vede tutto / e si perdona tutto”»), dal gusto quasi nominalistico dell’accumulo, con «punte di un massimo inebetirsi del suono, sino alla cadenza ipnotica di una sintassi che si limita al catalogo seguendo impulsi fonici, lo scatto di un’assonanza, a un passo dall’afonia, dal vuoto» (Lorenzini), dal recitativo della voce materna (di solito visivamente distinta per l’uso del corsivo: si veda il testo conclusivo che dà il titolo alla silloge Nella voce che manca, che in questo caso si riallaccia alla poesia introduttiva, stringendo con l’invocazione del figlio un ideale dialogo a distanza) all’intenzione narrativa sottesa da diversi frammenti («“È bello averti incontrato / prima della fine”, Giulia / da Ravenna graziosa di gioventù / ancora e l’ingegnere che andava / a scuola a Forlì gentile / parvenu che t’adora e t’adorava» ecc.), dalla commistione linguistica («Sub pectore prende / stanza e il tacere / ritarda l’amore», «Sicut columba intus / rosica rosica / con lingua di sangue») allo straniamento neologistico («come cuore si inverte / che depalpita che allodola / e avanza sul fianco»), dall’agglutinazione sintattica a quella lessicale («senzavento»).
Il rischio di avviare a esecuzione una partitura convulsa, internamente soffocata da troppe intenzioni, conduce spesso all’aposiopesi, mentre l’indefinito prolungamento tematico, con il moltiplicarsi delle figure che possono in parte risultare equipollenti, potrebbero a loro volta portare alla saturazione poetica; Bonito scongiura questi sbocchi manieristici restando fedele all’urgenza di adempiere fino in fondo il rito della scrittura: «Ripetilo il nome / ripetilo senza / fermarti nel nome / passaci dentro / come un’assenza / di piaga ripetilo fino / a che non avrà / più dominio»
Il duplice impegno dell’autore, critico e poetico, trova un felice connubio nelle due ultime pubblicazioni parallele: Il canto della crisalide, che prende in esame in particolare l’esperienza poetica di Pascoli e quella di Lubrano (ma entrambe rivisitate sulla spinta della modernità, che trapela nel richiamo costante ad altri autori a noi più vicini, ma anche nei frequenti riferimenti alla vicenda personale), e Campo degli orfani, ambedue riposti sotto l’egida della figura materna, perduta e restituita a una chiarezza totalizzante, indice tuttavia non di regressione ma di doloroso progresso nella verità: «La parola è presenza, dentro la vita», conferma egli stesso. «La vita è in-fantia, la parola è ‘uscita dall’infanzia’, da ciò che non si può dire. L’infanzia è madre della memoria e dell’attesa, madre indicibile della parola». Il particolare orfismo di questo poeta non ha nulla a che fare, dunque, con un mito ingenuo dell’origine, che cede il campo alla lamentazione astratta, ma semmai con quello della concretissima perdita che nell’origine si inscrive: «Nella morte (“luogo” in cui “nulla” accade, cui tutto ritorna – anamnesi della voce, del canto, all’indietro – risalendo), dunque, l’unica condizione creaturale e originaria, la sua più intima sostanza – nella presenza e nella sua imminenza. Nudità, silenzio, pietà, esilio, amore. A tanto la parola deve rendersi. A questo incontro. A questo colloquio disperato». La morte, dunque, deve incidere nella scrittura la disperazione, per umiliare ogni possibile compiacimento, tanto più insidioso quando un poeta, come avviene per Pascoli, rintraccia la propria cifra nella condizione dell’orfanità, ovvero dell’essere figlio all’ombra della morte materna. «La madre è l’orizzonte del puer. La madre è limen. Il figlio resta sempre ai margini della madre». La nascita stessa avviene nel crisma del lutto, del distacco originario, ma sondare questa verità non è, come si diceva, volgersi nostalgicamente all’indietro, ma proseguire secondo l’unica via possibile alla creazione, che non è conquista ma accoglimento: «La scrittura come la vita non è un processo di rivelazione, piuttosto un lento denudamento di quanto si è. Il punto di partenza della poesia non è il suo punto di partenza, ma quello che le resta. Il silenzio, la solitudine, permanenti, sono le forme sceniche in cui il mondo non sa stare, né resistere. Sono il teatro crudele in cui il mondo è costretto a recitarsi fino all’autodilaniamento».
Infatti la raccolta poetica si apre con una perentoria dichiarazione: «dinanzi ad ogni respiro tutta la musica deve essere umiliata». Questa è la spoliazione che segna l’abbrivo della scrittura; ma il punto di partenza è ciò che rimane alla poesia e le poche righe iniziali, così vertiginose, sono la ripresa della conclusione della prosa finale del libro, una delirante Favola che chiude in una cornice perfetta le poesie, come la morte che abbraccia la vita nella sua nudità sconvolgente. Le sequenze poetiche che compongono il volume si dispiegano in una concertazione aperta, che accoglie versi isolati e inconclusi sospesi sulla pagina come relitti di un naufragio (i punti fermi sono del tutto aboliti in chiusura), strofe compatte, inserti in prosa, voci in corsivo come provenienti da un altrove di memoria assoluta, indicazioni di cassazioni avvenute nel testo o di sue parti non venute alla luce, linee che spezzano il fiato e creano slogature sintattiche, passaggi di invocazione e preghiera in forma di tiritere; insomma, una fioritura rapinosa dentro un luogo, si diceva, illuminato e devastato internamente dalla perdita.
Scrive Bonito nel suo saggio: «Il volto intransitivo della poesia passa attraverso una parola che non descrive; ma ravviva il proprio divenire, la persistenza metamorfica, solo nella morte sillabata intorno alla scrittura».
(da Poeti nel limbo)
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