Vittorio Sereni, il fantasma del lago

Il fantasma del lago

Voi morti non ci date mai quiete
Sereni

Di tanto in tanto torna a visitarmi lo spettro di Sereni – questo poeta costretto a vagare irredento tra le rovine del secolo passato, senza trovare requie, tagliato fuori dalla storia, smarrito nel suo interregno «tra due epoche morte dentro noi». Viene in «una notte di passi e di rintocchi» per mormorarmi: «Ma dimmi una sola parola / e serena sarà l’anima mia». Mi tormenta indispettito con un soffio di vento: «facciamola finita fammi fuori», come fossi veramente io il suo killer. Mi accompagna come un padre davanti al mito dell’amore giovanile, assoluto, che tutti portiamo dentro, per insegnarmi l’orgoglio dell’uomo: «Non si perdona a una donna un amore bugiardo, / l’ameno paesaggio d’acque e foglie / che si squarcia svelando / radici putrefatte, melma nera». Poi singhiozza con me in disparte sul nero di tutta l’esistenza: «Ma nulla senza amore è l’aria pura / l’amore è nulla senza la gioventù». Poi spezza l’indugio elegiaco, tanto che io m’illudo di sentire la sua mano forte sulla spalla mentre m’insegna la solidarietà tra gli uomini, la pietra dell’amicizia che sempre deve difenderci: «Un grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce, / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi…». Eppure, appena mi volto, è già scomparso, e non faccio mai in tempo a interrogarlo, a provare a chiedergli del suo (mio?) nodo irrisolto.

Non sanno d’essere morti
i morti come noi,
non hanno pace.
Ostinati ripetono la vita
si dicono parole di bontà
rileggono nel cielo i vecchi segni.

Sereni ha avuto il grande pregio di scrivere poco, di economizzare, da vero lombardo, su parole sempre ponderate, sempre necessarie. Ma non troppo rifinite, smaltate: semplicemente rimuginate a lungo, come si deve. Sereni non era poeta che tormentava la pagina: rimasticava in sé i propri pensosi silenzi come tabacco.

Questa, mi è sempre parsa una lezione importante – anche se mi attraggono pure le ragioni opposte della naturalezza, del dispendio generoso, della totale sfrenatezza della lingua che aderisce a tutte le superfici del mondo. Sarà che pure noi, dal lago d’Orta, «ci si sente lombardi»… Detto proprio così, alla toscana, come lo si stesse dicendo a un fiorentino – perché parlare coi toscani, si sa, è un tormento: si è costretti a rifarne il verso, a essere sopraffatti dalla loro loquacità.

Ma anche Sereni, coi suoi quattro-libri-quattro, ha squadernato a dovere il Novecento (ed io, che fino a poco tempo fa pensavo agli Strumenti umani come al libro più riuscito, ora mi impossesso del secolo a ritroso, come rientrando nella mia provincia esposta all’Europa dopo gli anni milanesi).

Ecco le voci cadono e gli amici
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.

Forse, mi dico qualche volta pensando proprio a Gli strumenti umani, il suo cruccio è quello di non aver sciolto da sé il suo debito non umano (la raccolta in questo senso è fin troppo esplicita, fin dal titolo), ma propriamente letterario. Penso all’ombra di Montale che tante volte lo sovrasta:

e alla prossima svolta, forse, finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore…
ma l’opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
delle necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite che all’occhio di chi torna
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano…

E vorrei dire che no, il miracolo della trasformazione non si compie per nessuno, siamo tutti incatenati alla stessa catena, e non è una colpa il privilegio di avere altra sorte rispetto a chi (e penso anche al Luzi di Presso il Bisenzio) c’inchioda al nostro posto, ci rinfaccia la stessa sorte celata in altre spoglie, ci piega gli occhi su mani troppo pulite.

* * *

Sereni non è un fantasma facile: è troppo schivo, a tratti anche irritabile, un po’ nevrotico. Bisogna trovare il modo giusto per avvicinarsi. Ed io, che vengo dal mio «reame bianconero», partirei sicuramente con un handicap notevole, se l’intenzione fosse quella di catturare la sua simpatia.

Il fatto è che Sereni ci parla proprio coi suoi silenzi duri. Immagino sia stato molto temuto e molto odiato (di nascosto) in vita, proprio perché era uomo che rispettava il ruolo che gli toccava e sapeva prendere decisioni. Sapeva fare veramente quello che si deve, quello che stiamo già facendo, senza menare il can per l’aia.

 

Ma venga, a ora tarda, venga un’ora
di vero fuoco un’ora tra me e voi,
ma scoppi infine la sacrosanta rissa,
maschere, e i vostri fini giochi
di deturpato amore: nell’esatto
modo mio di non dovuto
amore e dissipato, gente, vi brucerò.

Così, in cerca di strategie di avvicinamento all’opera di Sereni che siano sufficientemente discrete, ogni volta che vado a trovare un amico, a un passo da Luino, progetto qualche passeggiata con lui nei luoghi del poeta, forse per esorcizzare il suo paesaggio, per sentire finalmente sotto i piedi le sue strade dai nomi streganti, che nulla concedono all’elegia e quasi recano la musica aspra degli zingari. Come se la Sava non passasse poi molto distante da lì.

Ma mi rendo conto che sarebbe poco più di una vacanza, che può servire solo a noi giovani per crearci qualche «esile mito».

Eppure so che ci andrò, prima o poi, perché è giusta anche questa devozione. So che quel viaggio non si tramuterebbe mai in un ripiegamento, che quella ‘frontiera’ ci espellerebbe subito ben oltre, dove anzi siamo già proiettati, verso quell’Europa, quella zolla di terra sempre più incantata dalle terre libere del West e che tramonta trascinando nel proprio oblio non tutta la storia, per carità, ma la nostra storia, proprio quella che ci è capitata addosso coi suoi appelli e le scadenze improrogabili, quella che ci ha instillato l’ansia di dover dire al momento giusto e con voce alta: “Presenti!”. La storia, che ci sottrae al nostro «lago di calma». No, non la storia, la nostra storia esecrabile.

Tanto che mi sono detto anch’io, più di una volta, «Non lo amo, il mio tempo, non lo amo», ma sempre più consapevole che ora quell’affermazione mi si torceva dentro come una dichiarazione d’amore. Perché, appunto, è questo il nostro dovere, rispondere all’appello, raccontare il nostro tempo. Anche a costo di sbagliare, dal momento che lo sbaglio per amore andrà perdonato, più che la viltà di tacere, quando è il momento di far sentire la propria voce. Solo i peccati contro l’amore non verranno mai perdonati.

Me lo fa capire un poeta che, come mio padre, parla veramente poco, che fa sentire tutto il peso dei propri tabù, difende il sacrario della propria anima come l’ultimo guerriero di Alamo, con la sua faccia scolpita da una gioia feroce, arrancata sulla roccia d’ossidiana del dolore. «Papà – faccio per difendermi / puerilmente – papà…», mentre già m’incammino verso la mia frontiera:

Europa Europa che mi guardi
scendere inerme e assorto in un mio
esile mito tra le schiere dei bruti,
sono un tuo figlio in fuga che non sa
nemico se non la propria tristezza
o qualche rediviva tenerezza
di laghi di fronde dietro i passi
perduti,
sono vestito di polvere e sole,
vado a dannarmi a insabbiarmi per anni.

E la sabbia che oggi ci attende è lo sterminato deserto della normalità, questa costante tentazione del silenzio che rigetta le vuote parole. «Troppe ceneri sparge attorno a sé la noia, / la gioia quando c’è basta a sé sola». D’altronde, Sereni l’ha additata esplicitamente questa guerra invisibile, non dichiarata:

La guerra oggi è dappertutto in un certo senso. È diventato un luogo comune dire che tutto quello che succede nel mondo d’oggi, dalla guerra nel Medio Oriente,dai fatti dell’Iran, a quelli cui assistiamo quotidianamente, è guerra, che questi fatti sono la terza guerra mondiale che non è stata dichiarata. […] Invece di esplosione si potrebbe parlare di implosione, cioè di qualche cosa che avviene all’interno di noi stessi, nell’ambito apparentemente pacifico nel quale viviamo e che si esprime in forme di violenza che non sono quelle della guerra, scongiurata dall’apparente equilibrio atomico. (AA. VV., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, Parma, Pratiche Editrice 1981, p. 51)

Per tutte queste cose il fantasma di Sereni non cessa di battere col vento sulle tapparelle della mia stanza, quando fatico a prendere sonno.

«Questo trepido vivere nei morti»… Con non altri che loro è il colloquio. Ma «Tu coi morti ti levi e in loro parli».

Perciò ho creduto, un giorno, di essere riuscito a liberare Sereni dalla sua maledizione e di poterlo vedere andare finalmente in pace. Ho creduto questo, perché avevo saputo raccontare, in una poesia, dei miei passaggi in treno sul Ticino. La pace, invece, l’avevo assicurata soltanto a me stesso, per un po’ – e tutte le volte che mi capita di rifare il percorso della giovinezza, me lo vedo ancora tra il riflesso del mio volto sul finestrino e l’azzurro che si apre, a nord, nell’abbraccio del lago Maggiore. Ecco, è sempre là che si dibatte sul ponte, nella perenne lotta con se stesso:

Ero a passare il ponte
su un fiume che poteva essere il Magra
dove vado d’estate o anche il Tresa,
quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.
Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.
«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.
«Fuori le carte» ribadì lui ferreo
vedendomi interdetto. Feci per rabbonirlo:
«Ho speranze, un paese che mi aspetta,
certi ricordi, amici ancora vivi,
qualche morto sepolto con onore».
«Sono favole – disse – non si passa
senza un programma». E soppesò ghignando
i pochi fogli che erano i miei beni.
Volli tentare ancora. «Pagherò
al mio ritorno se mi lasci
passare, se mi lasci lavorare.» Non ci fu
modo d’intendersi: «Hai tu fatto –
ringhiava – la tua scelta ideologica?».
Avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte
in piena solitudine. La rissa
dura ancora, a mio disdoro.
Non lo so
chi finirà nel fiume.

Mi limito a fare il tifo, allora. E mi riscopro a suggerire a me stesso: “Resisti, non puoi mollare adesso…”. Ormai è solo questo – persi dentro un mondo di battaglie subdole, senza nemici che non abbiano anche il nostro volto e senza armi che non s’inceppino con le nostre parole – è solo questo il nostro punto d’onore.

 

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