Narrativa d’oggidì: Nicola Lagioia
Dalla casa editrice di tendenza Minimum Fax all’istituzione del Salone del libro; da Roma a Torino: parla Nicola Lagioia, un primo della classe che si mette in gioco per diventare un fuoriclasse
Perché scrivi?
Lo scrittore per me è qualcosa a metà tra l’esorcista e lo scienziato: ci si confronta con un demone a cui apparteniamo per privilegio di nascita o perlomeno d’infanzia, e nello stesso tempo si tenta di scoprire qualcosa a proposito del caos del mondo esterno. La relatività ristretta non esisteva prima di Einstein e la stessa cosa si può dire del bovarismo prima di Flaubert. Non è vero. Sia la relatività ristretta che il bovarismo già esistevano, indipendentemente da Einstein e Flaubert. Solo, non erano ancora stati trovati.
Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?
Non so, vorrei imparare a infischiarmene.
Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani.
Saper camminare mano nella mano con il fallimento senza innamorarsene e soprattutto senza usarlo come scusa o come dissetante del proprio cinismo. Ma in definitiva, se proprio bisogna scegliere: amare più il console Firmin degli allori sulla forfora dei poeti laureati.
Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.
«Non si perde quello che non si è mai avuto, non si ha quello che non si è mai perso.»
Come si forma un’opera nella tua officina?
Per ogni romanzo terminato: due anni e mezzo circa di lavoro ininterrotto, sabati e domeniche e natali e capodanno compresi. Circa 150 file word accumulati (tra riscritture totali, aggiunte, false partenze, integrazioni, rielaborazioni di singoli capitoli ecc.) prima di andare in stampa. Credo sia l’unico modo di metterla, perché per il resto si vede semplicemente un uomo intento a battere le dita su una tastiera.
Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?
Se uno scrive romanzi, non potrà mai essere soddisfatto di un bel niente. Dunque, qual è il mio non-cruccio, mi piacerebbe sapere.
La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…
…che essere il primo della classe non serve a niente se non si acquisisce prima o poi la quieta sprezzatura delle aspettative altrui necessaria a diventare un fuoriclasse. Più facile studiare la lezione del giorno che essere mandati in presidenza. E, una volta giunti davanti alla porta della presidenza, più facile varcarla che girare i tacchi, disertare, andarsene in giro per la città, poi per il mondo.
(La foto è di Isabella de Maddalena, e proviene da qui)
Non credo nella totale correttezza della prima affermazione, riguardo alla relatività e al bovarismo.
Il “tramonto”, secondo me, è un’invenzione del linguaggio, così come l'”amore”, i “fiori” la “primavera”e io credo anche la “relatività”.
Del resto l’immagine del mondo o dell’universo che abbiamo oggi era impensabile 1000 anni fa quando
era vero un altro modello, quando cioè la relatività non esisteva punto. Con lo stesso metro, domani la relatività potrebbe essere smentita.
E’ secondo me il linguaggio e la sua continua evoluzione a mutare le condizioni della categoria di “realtà” e quindi la sua forma.
Un diverso tipo di linguaggio non avrebbe forse potuto dar vita a modelli in cui, per esempio, la categoria di “realtà“ o di “arte” fossero del tutto assenti?